UNA PENA PER REDIMERE IN UNA SOCIETÀ PIÙ SICURA

Una pena per redimere in una società più sicura

Una pena per redimere in una società più sicura

Partecipano: Angelino Alfano, Vice Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro dell’Interno; Annamaria Cancellieri, Ministro della Giustizia; Luciano Violante, Presidente Emerito della Camera dei Deputati. Introduce Michele Brambilla, Inviato Editorialista de La Stampa. In occasione dell’incontro proiezione di un filmato introdotto da Nicola Boscoletto, Presidente Consorzio Sociale Giotto.

 

UNA PENA PER REDIMERE IN UNA SOCIETÀ PIÙ SICURA
Ore: 11.15 Sala Neri
Partecipano: Angelino Alfano, Vice Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro
dell’Interno; Annamaria Cancellieri, Ministro della Giustizia; Luciano Violante,
Presidente Emerito della Camera dei Deputati. Introduce Michele Brambilla, Inviato
Editorialista de La Stampa. In occasione dell’incontro proiezione di un filmato introdotto
da Nicola Boscoletto, Presidente Consorzio Sociale Giotto.
MICHELE BRAMBILLA:
Buongiorno a tutti. Cominciamo oggi un incontro dove parleremo di un altro mondo, o
meglio, di quello che comunemente pensiamo sia un altro mondo. Il mondo delle carceri e
il mondo dei detenuti. 65.000, 66000 persone sono attualmente detenute nel nostro
Paese, un terzo di loro sono stranieri. Abbiamo l’abitudine di pensare che sia un problema
che non ci riguarda, che in fondo riguarda persone che hanno sbagliato ed è giusto che
paghino: sicuramente è così ma pensiamo che sia qualcosa di altro, rispetto a noi. Ho fatto
un’inchiesta per il mio giornale, La Stampa, ed è per questo che sono qui: sono entrato in
molte carceri italiane. La cosa più banale che mi viene da dire – ma a volte anche le cose
più banali sono vere – è che, entrando nelle carceri italiane, ti rendi conto che sono uomini
come noi, e che quello che è successo a loro, può succedere anche a noi. Quindi, è un
mondo che dobbiamo tenere nella massima attenzione, è un mondo problematico. E tra
poco vedremo perché. Ne parliamo con il Ministro di Giustizia Annamaria Cancellieri, il
Ministro dell’Interno e Vicepresidente del Consiglio, onorevole Angelino Alfano, il
Presidente Luciano Violante, che da tanto tempo si occupa delle carceri, e Nicola
Boscoletto, che è Presidente della emerita cooperativa Giotto di Padova. Io sono entrato
nel carcere di Padova con lui e ho visto una realtà che mi ha veramente stupito:
soprattutto – poi ne parleremo – ci fa capire che nessun uomo è irrecuperabile, che nulla è
perduto. All’entrata del carcere dove lavorano i detenuti, a cura della cooperativa Giotto è
stato scritto: “Fatti non foste a viver come bruti”. Poi, sotto la foto di un vecchio carcere
siciliano, c’è scritto “Vigilando redimere”, che dà l’idea di come davvero la redenzione non
sia un’utopia. Proprio Nicola Boscoletto aprirà l’incontro di oggi, con un filmato e delle slide
che contengono alcuni dati che ci introducono nel tema. Poi parleremo con i nostri relatori.
Presidente Boscoletto.
NICOLA BOSCOLETTO:
Grazie a tutti di cuore. Vi presento subito il video, riservandomi un pensiero dopo il filmato.
Il video racconta come dal 2006 ad oggi il carcere e il Meeting siano strettamente legati. In
verità, il video inizia con un episodio successo nel carcere di Padova il 7 novembre 2005.
Quell’episodio diede vita ad una storia di cambiamenti, gioie, patimenti, successi,
insuccessi: e oggi ci vede qui. Pur essendo la storia del nostro gruppo, una storia di lavoro
e di amicizia lunga oltre 40 anni, ricordo che i primi amici hanno iniziato a metà degli anni
’70 nel turismo sociale e nell’accoglienza in università: pur lavorando dal 1990 con il
carcere e i carcerati, è proprio in quel 7 novembre di quasi otto anni fa che scatta qualcosa
che ha contribuito a rendere ancora più vero quello che avevamo iniziato. 7 novembre
2005: un convegno in carcere, per la presentazione delle attività lavorative che erano nate
fino a quel momento. Una lettera scritta dai primi dieci detenuti che avevano iniziato a
lavorare con noi in carcere, in testa Ilario, un pluripregiudicato con alle spalle oltre 30 anni
di carcere. Una lettera scritta al Santo Padre Benedetto XVI e al Presidente della
Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e letta davanti a tutti i partecipanti, la reazione
commossa del nostro amico e ospite, prof. Giorgio Vittadini. Ilario uscì in permesso per la
prima volta, proprio al Meeting del 2006. Di li a pochi mesi, venne a mancare a causa di
una malattia. Siamo qui, sia chiaro, non per dire quanto siamo bravi, almeno per me
questo è chiarissimo. Siamo qui grazie al contributo di tutti, anche di quelli che non si
vedono, ma in particolare siamo qui per quelli che oggi non possono essere fra noi e,
ancora di più, per tutte quello persone, detenuti ed agenti, che ci hanno lasciato
prematuramente. Siamo qui perché il senso di umanità abbia il sopravvento sulla
disumanità, siamo qui per essere una speranza per tutti i detenuti del nostro Paese e del
mondo intero. Abbassiamo le luci e guardiamo il video.
Proiezione del video
Molte persone che si sono viste nel video sono ancora una volta qui con noi, in particolare
alcuni detenuti che, per la prima volta, sono qui da ex detenuti. Come segno di
ringraziamento e di testimoniata speranza, invito tutti i presenti tra il pubblico – operatori,
direttori, agenti, magistrati, avvocati, educatori, volontari, cooperatori, detenuti ed ex
detenuti – ad alzarsi in piedi per un giusto e meritato riconoscimento. L’invito era rivolto
anche a tutti gli altri, oltre un migliaio, che ci stanno seguendo dal maxischermo della hall
centrale. Permettetemi un altro ringraziamento per i risultati ottenuti in questi mesi in tema
di lavoro penitenziario, per gli esperti, la legge Smuraglia. Mi riferisco, oltre che ai presenti
– il Vice Presidente Angelino Alfano, il Ministro Anna Maria Cancellieri, il Presidente
Luciano Violante -, a chi oggi non è qui, in modo particolare al presidente Letta, che
domenica ci ha invitati personalmente a non mollare, ai Ministri Maurizio Lupi, Mario
Mauro, Flavio Zanonato, che insieme non hanno esitato a sostenere le proposte del
mondo cooperativo che sono state presentate in maniera unitaria. Permettetemi di dire
che i risultati più belli, quelli che si gustano di più, sono quelli che si portano a casa tutti
insieme. Ed ora un brevissimo pensiero, facciamo partire le slides: l’emergenza uomo ha
un equivalente, l’emergenza lavoro. Per spiegare questo, mi aiuto con una brevissima
citazione di Papa Francesco, dal libro Il nuovo Papa si racconta. Gli chiedono: “Di certo
durante la sua vita sacerdotale si saranno rivolte a lei tante persone disoccupate. Qual è la
sua esperienza?”. Risponde: “E’ vero, moltissime, sono persone che non si sentono più
tali. Perché per quanto abbiano famiglia o persone in grado di aiutarli, il loro desiderio è
lavorare, guadagnarsi il pane con il sudore della fronte. Il fatto è che, alla fin fine, quello
che da dignità a una persona è proprio il lavoro, non la danno né il linguaggio né l’origine
familiare né l’educazione: la dignità in quanto tale viene soltanto dal lavoro. Mangiamo
quel che guadagniamo, manteniamo la nostra famiglia con quel che guadagniamo, non
importa se poco o molto. Se è molto, tanto meglio: possiamo però possedere anche una
fortuna ma se non lavoriamo la dignità crolla. Chi è disoccupato, nei momenti di solitudine
si sente un disgraziato perché non si guadagna la vita. Per questo è molto importante che
i Governi dei vari Paesi, attraverso i Ministeri competenti, alimentino la cultura del lavoro e
non dell’assistenza. E’ necessario sviluppare le occasioni di lavoro perché, non mi stanco
mai di ripeterlo, è dal lavoro che deriva la dignità”. Non perdo neanche un secondo a
spiegare di che concezione di lavoro stia parlando il Papa, sicuramente non di quella cui
oggi siamo abituati. Andate a leggervi il libro. Due dati: i detenuti presenti – sono tutti dati
omogenei al 31 dicembre 2012 -, su 206 carceri, su una capienza teorica regolamentare di
47.000 o poco meno, sono 65.700. Oggi sono scesi sotto i 64.000. La presenza effettiva
supera del 42% la capienza regolamentare. I detenuti lavoranti non alle dipendenze del
DAP, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, cioè quelli che svolgono un lavoro
vero, che può portare a dei risultati, sono 807 i semiliberi, 524 quelli che lavorano
all’esterno. Queste due categorie sono i detenuti che escono al mattino, vanno a lavorare
e ritornano in carcere. Sono 920 quelli che lavorano all’interno, per cooperative sociali e
imprese. Quindi, su 64.000 detenuti, abbiamo in Italia circa 2.251 detenuti che lavorano.
Abbiamo perciò una percentuale di occupati del 3.45%, e un tasso di disoccupazione del
96.55%. La recidiva reale si attesta tra il 70 e il 90% per i detenuti che non svolgono
alcuna attività lavorativa vera. Per chi svolge attività lavorativa durante la detenzione, e in
misura alternativa poi a fine pena, la recidiva scende all’1, 2%. Il costo complessivo di ogni
detenuto, costi diretti e indiretti complessivamente, è di circa 250 euro al giorno. Per ogni
milione di euro investito nel lavoro carcerario, se ne risparmiano 9, senza tenere presente
tutto quello che è il risparmio che si potrebbe quantificare dal punto di vista della sicurezza
sociale, dei minori reati, dei minori processi e tutto quello che ne deriva. Ultimo pensiero:
fatemi finire con la citazione di una ragazza che, da alcuni mesi, è diventata un’amica, una
compagna di viaggio.
Si tratta di Hetty Hillesum, nata nel 1914 e morta ad Auschwitz nel novembre del ’43, a soli
29 anni. Quello che leggo, capita in una cameretta di 2 metri per 3: 5 persone. Per gli
addetti ai lavori, se fanno i conti sono 1,20 mq a persona. “Il tutto capita in una cameretta
di due metri per tre, io sto con cinque colleghe. Letti a due piani che tentennano molto sui
loro sostegni, sicché, quando la mia grassa viennese del piano di sopra si gira di notte
nella sua cuccetta, il letto traballa come una nave nella tempesta e di notte ci sono dei topi
che attaccano le provviste e i letti. Una situazione un poco inquietante. Ancora non
capisco come gli uomini possano maltrattarsi a tal punto e come se ne possa ancora
parlare. Però qui vengono le cose più importanti. Se noi salveremo i nostri corpi e basta
dai campi di prigionia o dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di
conservare questa vita a ogni costo ma di come la si conserva. A volte penso che ogni
situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi
abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare, se non
li ospitiamo nelle nostre teste, nei nostri cuori, per farli decantare, farli diventare fattori di
crescita e di comprensione, allora non siamo una generazione vitale. Ora ci si avvede che
nella vita non basta essere un abile politico o un’artista di talento, la vita richiede tutt’altre
cose. Sì, è vero, siamo messi alla prova nei nostri fondamentali valori umani. Ma la
ribellione che nasce solo quando la miseria inizia a toccarci personalmente non è vera
ribellione, non potrà mai dare buoni frutti e assenza d’odio non vorrà mai dire assenza di
un elementare sdegno morale. So che chi odia ha fondati motivi per farlo, ma perché
dovremmo scegliere sempre la strada più corta e a buon mercato? Laggiù ho potuto
toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più
inospitale”. E’ la cosa più sconvolgente di tutto il suo diario, che si riassume in questa
frase che lei ripete: “Eppure la vita è meravigliosamente buona nella sua inesplicabile
profondità”. Lo ribadiva ancora nella sua lettere dal campo cinque giorni prima della sua
deportazione definitiva. Grazie a tutti.
MICHELE BRAMBILLA:
Ecco, prima di dare la parola al Ministro competente, che è il Ministro della Giustizia Anna
Maria Cancellieri, vorrei darvi un’informazione in più, se me lo permettete. C’è una
sentenza della Corte europea, diventata definitiva nel maggio di quest’anno, la cosiddetta
sentenza Torreggiani, che stabilisce che un detenuto deve avere diritto ad almeno 3 mq in
cella: se non ci sono, lo Stato è tenuto a risarcirlo. Questo per dire che l’Europa ci impone
di metterci a posto, perché abbiamo una situazione di sovraffollamento molto inquietante.
Però, e ne parleremo oggi, il problema del carcerato non è soltanto un problema di spazio,
è anche il problema di che cosa fa in quello spazio. Perché, se uno ha 20 mq ma viene
lasciato marcire in cella tutto il giorno, la sua redenzione, diciamo così, è piuttosto
complicata. Boscoletto ci ha offerto un dato, quello sulla recidiva: lui dice 70%, adesso
credo che il dato del Ministero per chi non lavora in carcere sia del 68%. Il 68% di chi
passa le giornate a non fare nulla, quando esce ci ricade e commette un reato. In realtà,
questo dato è sbagliato per difetto, perché calcolato sui reati di cui si scopre il colpevole,
che è solo, se non sbaglio, il 21%. In realtà, i detenuti che, non facendo nulla in carcere,
poi ricadono nell’errore quando escono, sono il 99%, correggimi, Nicola, ma credo sia
così. Il recupero dei detenuti che lavorano – e in carcere lavorano veramente, non si tratta
di un lavoro fatto per passare il tempo ma di un lavoro che responsabilizza, un lavoro con
uno stipendio, come succede a Padova, dove il detenuto si paga vitto e alloggio, paga le
tasse, ecc., è nel ciclo produttivo vero, quindi deve lavorare bene – ha una recidiva, se non
sbaglio, dell’1, 2%. Questo è un problema che riguarda tutti noi perché la sicurezza è
anche nostra, se le persone, quando escono, non commettono più reati. Al Ministro
Cancellieri chiedo: che cosa sta facendo il suo Governo, il suo Ministero in particolare, per
la questione sovraffollamento, anche dopo la sentenza dell’Unione Europea? E in
prospettiva, che cosa sta facendo per fare sì che questi detenuti non marciscano in
galera? Abbiamo visto che quelli che lavorano sono il 3%: come mai così pochi?
ANNA MARIA CANCELLIERI:
Io dico che probabilmente dovremmo ringraziare l’Europa perché, dopo 30 anni che ci
richiama, ci ha messo con le spalle al muro, dicendo che entro questa data dobbiamo
metterci a posto. Ma l’Europa ci dice, in fondo: “Fate quello che la vostra Costituzione dice
da subito. Non trattate le persone con la tortura, non maltrattate la dignità degli uomini,
fate sì che la pena sia uno strumento per pagare il proprio conto con la società e uscire
liberati”. Questo, la Costituzione lo dice chiarissimo, noi lo sappiamo da sempre, il
problema è che per tutta una serie di motivi abbiamo un po’ perso la via maestra. In questi
ultimi anni, in questi decenni, addirittura abbiamo dimenticato quella che è la nostra
natura, la nostra civiltà. Noi siamo il paese di Beccaria, abbiamo raccontato al mondo cosa
siamo e poi invece, nella realtà pratica, abbiamo questa situazione che veramente – ha
ragione il Presidente della Repubblica – ripugna. Abbiamo degli esempi straordinari, come
Padova, come Bollate. Ce ne sono a macchia d’olio, una percentuale piccola ma di grande
valore. Abbiamo della gente che lavora con passione, con amore, però poi in realtà
abbiamo queste situazioni in cui il sovraffollamento è un aspetto grave, sicuramente
peggiorativo. Ma non è solo questo, il problema. Quando tengo un detenuto 22 ore dentro
una stanza dove deve fare tutto, compreso mangiare, quando il detenuto non ha un
refettorio dove andare, non ha un posto dove andare, non ha la possibilità di fare nulla ma
deve vivere la sua vita di tutti i giorni in quei metri quadri, scusate, cosa vogliamo?
Vogliamo che esca migliorato o che, quando esce, pigli a pugni la società? Perché poi il
risultato è questo. Il discorso della recidiva è un discorso validissimo, dobbiamo fare sì che
il detenuto possa vivere una vita civile, dove possa veramente dare sfogo alle sue
capacità, dove possa ritrovare se stesso in modo che, uscendo dal carcere, abbia voglia di
reinserirsi nella società e di vivere a pieno la sua vita da cittadino. Molto spesso questo
non avviene, per una serie di motivi: credo che la vera battaglia sia quella culturale. Allora,
dobbiamo fare tutto quello che dobbiamo fare, allargare gli spazi, ma la battaglia è
culturale. Noi abbiamo un regolamento penitenziario perfetto, dice che nei colloqui non ci
deve essere il bancone. Ma sapete che in molte carceri ancora c’è il bancone? Abbiamo
dato disposizione di toglierli subito, il regolamento penitenziario va applicato al 100%. Ci
sono delle carceri dove le sbarre tolgono la luce, tolgono l’aria: questo il regolamento non
lo prevede. Abbiamo detto: “toglietele subito”. Stiamo cominciando a fare applicare le leggi
che abbiamo, che ci sono ma che non vengono applicate per una serie di motivi. E tra
l’altro, guardate che c’è gente straordinaria che lavora nelle carceri: la polizia penitenziaria
fa veramente cose notevoli. O gli educatori, ne abbiamo pochissimi a fronte di un mare di
detenuti: su questo, dobbiamo batterci, batterci, batterci. Ma occorre che tutta la società
civile sia accanto a noi e spieghi alla gente che non c’è problema di sicurezza. La gente
deve sapere che tutto quello che faremo per cambiare la cultura, non creerà problemi di
sicurezza. In alcuni tipi di reati, dobbiamo immaginare pene diverse. Si può pagare il
proprio conto con la società facendo lavori alternativi, socialmente utili, facendo delle cose
che dimostrino alla popolazione che chi ha sbagliato vuole pagare il suo conto ma con
dignità e giustizia. Le strade da percorrere sono diverse. Innanzitutto, la strada normativa:
dobbiamo vedere bene la depenalizzazione di alcuni reati, abbiamo una commissione che
al Ministero ha quasi concluso i suoi lavori: andremo avanti, oltre al decreto che è stato
infaustamente chiamato svuota carceri ma che non svuota un bel niente. Quel decreto ha
alleggerito la pressione sulle carceri ma non le ha affatto svuotate. E’ soltanto un modo più
civile di affrontare il problema. Dobbiamo andare avanti su questo filone, sui controlli
amministrativi, dobbiamo lavorare sugli uomini perché è fondamentale. Qualunque
compito abbia il detenuto, deve capire l’importanza di quello che fa. Dobbiamo condividere
l’esperienza, fare in modo che le esperienze migliori, come vediamo a Padova e a Bollate,
vengano raccontate, trasferite e fatte proprie anche da altri. Ogni singolo dipendente della
polizia penitenziaria, il direttore, devono sapere che siamo con loro perché crediamo in
quello che fanno e che il loro lavoro è bello, perché anche il contesto sociale è importante
per queste persone. Queste persone invece vengono ignorate nella loro fatica e nel loro
bisogno. Ci sono aspetti normativi, aspetti organizzativi e poi c’è l’aspetto del
sovraffollamento che è un dramma. Abbiamo rivisto i progetti che abbiamo in corso per le
nove carceri che stiamo costruendo. Non dobbiamo più permettere che vengano fatte
come sono state fatte fino ad oggi: devono avere tutte un refettorio, spazi sociali, spazi per
lavorare, luoghi di socializzazione. Perché il detenuto, dall’interno del carcere, deve
ritrovare se stesso. Dopo di che, possiamo riaprire con Boscoletto, che ha dato prove
straordinarie, il discorso di lavorare nelle carceri, un discorso che va ampliato su tutto il
territorio. Io sono stata al carcere minorile di Catania, per esempio. Ho visto questi ragazzi
che hanno fatto una scuola di catering, ci hanno portato da mangiare, hanno cucinato
molto bene, in una cucina che è grande come metà di questo bancone: non è possibile.
Diamogli degli spazi dove fare la scuola alberghiera. Sono ragazzi che, quando escono,
devono avere un titolo, devono avere della capacità, possono essere reinseriti, questi
ragazzi pieni di entusiasmo che, intorno al cucinino, facevano la grande cucina. Dobbiamo
lavoro molto per svegliare i cuori, impegnarci su questo. La legge Smuraglia purtroppo non
è stata molto finanziata, quest’anno abbiamo ottenuto qualcosa in più. Dobbiamo ottenere
che il Parlamento si impegni su questo fronte perché la legge Smuraglia è la base
essenziale. Poi il lavoro, fuori, aprire delle cooperative, fare in modo che queste persone
che ritrovano la loro dignità all’interno del carcere, quando escono, abbiano di nuovo la
dignità di uomini. Guardate, c’è tanto da fare, è un’impresa veramente complessa. Però, io
credo che se lavoriamo tutti insieme, ognuno per la sua parte, possiamo cambiarlo, questo
Paese. Ora smetto di parlare sennò parlo sempre io. Basta.
MICHELE BRAMBILLA:
Onorevole Alfano, un po’ scherzando, prima ci siamo detti: “Vediamo se oggi riusciamo a
parlare di carcere e non di politica”. Lei mi ha risposto: “Dipende da Michele Brambilla”.
Quindi, farò una domanda politicamente correttissima sulle carceri, a lei che è stato anche
Ministro alla Giustizia, doppiamente competente. Un tema molto comune di cui la gente
parla spesso è quello degli stranieri. Si dice: “Se un terzo dei detenuti sono stranieri, non
sarebbe più semplice espellerli e quindi fargli scontare la pena nel loro Paese, in modo da
risolvere immediatamente il problema del sovraffollamento?”. Questa è la prima domanda
che le faccio, a seguito c’è una cosa che vorrei chiedere ancora al Ministro Cancellieri:
perché quando uno diventa Ministro fa così fatica a cambiare le cose in Italia? C’è un
problema di una burocrazia che si è ormai arrugginita, incrostata, un meccanismo che si è
messo in moto da decenni, che non si riesce più a cambiare?
ANGELINO ALFANO:
Grazie, confesso la gioia nel ritornare qui al Meeting a parlare di un argomento a me molto
caro come quello di cui stiamo adesso parlando. Ovviamente risponderò alle sue
domande, nel corso del mio intervento perché, diventato Ministro alla Giustizia, una delle
prime esperienza che volli fare fu andare a visitare un carcere. Chiesi di parlare con il
cappellano del carcere, il quale mi disse: “Ministro, guardi, io so che lei è un cattolico, le
chiederei di vedere nel detenuto, in quello che è, dietro le spalle, gli occhi, lo sguardo di
Cristo sulla croce”. E io ho risposto che l’esempio mi sembrava assolutamente pertinente
anche per la mia sensibilità in materia di giustizia, perché l’esempio di Cristo evidenziò
immediatamente l’esigenza di un giusto processo e i limiti della giustizia popolare, delle
giurie popolari. E però, confesso pubblicamente che il punto di equilibrio è sempre nuovo
in me, e lo cerco e lo trovo sempre con uno sforzo interiore faticoso. Allora, risposi: “Sono
perfettamente d’accordo, però, caro cappellano, io mi sforzo di vedere gli occhi di Cristo in
croce ma al tempo stesso è mio dovere non dimenticare le lacrime delle vittime dei loro
reati, le lacrime delle persone che sono fuori, delle bambine che non potranno mai
dimenticare le violenze subite, della mamma o del papà che piangono ancora oggi un figlio
che hanno perso per il delitto compiuto da chi è finito qua dentro”. Mi sforzerò di trovare
questo punto di equilibrio, non solo a livello esistenziale ma a livello giuridico, quel punto di
equilibrio che anche nella Costituzione si è trovato. La Costituzione ci richiama alla
certezza della pena, ci richiama alla funzione rieducativa della pena: e il Meeting va
ringraziato perché eleva, tira in alto un pezzo di quell’articolo 27 della Costituzione che
spesso viene dimenticato, dove si dice che i trattamenti punitivi non possono essere
contrari al senso di umanità. Ecco il punto di equilibro, noi troviamo nella Costituzione quel
senso di umanità che rimanda a chi è là dentro, cioè l’uomo. Non stiamo trattando altro
che una materia profondamente umana. Diceva Pirandello, col suo amore per il
paradosso, ne Il fu Mattia Pascal: “Se noi riconosciamo che errare è dell’uomo, non è
crudeltà sovrumana la giustizia?”. Quindi, il dubbio, la domanda su come lo Stato debba
erogare la giustizia si sintetizza poi in quello splendido articolo della Costituzione che dice
che la finalità ultima è l’uomo, rieducare l’uomo e fare sì che il trattamento detentivo non
sia contrario al senso di umanità, senza dimenticare che fuori da quegli istituti ci sono
mamme, bambine, donne, uomini che piangono perché hanno subito un torto e che il
sistema di riparazione che lo Stato deve mettere in atto deve anche rieducare il detenuto e
non fare sentire la vittima del reato, vittima di una ulteriore dimenticanza dello Stato. Ecco,
su questo insieme noi – soprattutto chi ha la nostra sensibilità – dobbiamo innestare
un’altra riflessione sul rapporto che san Tommaso raccontò benissimo commentando il
vangelo di Matteo, quello tra giustizia e misericordia. La giustizia senza misericordia è
crudeltà ma una misericordia che non usi la mano della giustizia è dissoluzione. Noi ci
troviamo su un crinale storico delicatissimo, dove dobbiamo mettere insieme tutti questi
valori, queste nostre scelte, queste nostre sensibilità e il tempo storico in cui viviamo. Se
abbiamo tutti questi detenuti stranieri, sarà o non sarà anche perché l’Italia è frontiera
dell’Europa? Sarà o non sarà perché l’Italia sta in mezzo a questo straordinario mare
Mediterraneo, che viene attraversato da tanti cercando magari speranza, cercando
democrazia, cercando libertà, cercando benessere? E allora, ben vengano i richiami
dell’Europa ma l’Europa non può imporci troppo e darci troppo poco. L’Europa, anche sul
tema dell’immigrazione, deve tenere conto che noi, per l’emergenza Nordafrica, abbiamo
speso, nel 2011-2012, un miliardo e 200 milioni di euro che sono un miliardo e 200 milioni
di euro pagati dalle tasse dei nostri cittadini. Per valorizzare che cosa? Quel grande valore
che gli italiani custodiscono nel proprio cuore che è il valore dell’accoglienza. Ma gli italiani
tengono anche ad un altro grande bisogno, la sicurezza che è un bisogno che appartiene
davvero al diritto di libertà. Io voglio essere libero di girare con sicurezza per le mie città,
per i giardini, per le vie, di portare con il passeggino il mio bambino a spasso, di stare in
casa mia con sicurezza: e allora noi, con l’Europa, questo discorso lo dobbiamo fare in
modo forte e chiaro. Noi siamo un popolo accogliente, che va a prendere gli immigrati
vicino alle coste di Malta e li soccorre al posto di Malta; ma l’Italia non può essere
dimenticata dall’Europa e non può essere dimenticato questo nostro grande sforzo
umanitario perché questo sforzo poi ci richiama a una esigenza di sicurezza. Anna Maria
Cancellieri poco fa ha detto una cosa bellissima. Noi non dobbiamo immaginare che i
provvedimenti, le forme alternative alla detenzione, quelle cose splendide di cui Nicola
Boscoletto si occupa, anche nel carcere di Padova, abbassino il bisogno di sicurezza.
Recupero quello che ha detto Anna Maria Cancellieri e lo rilancio: se è vero, come è vero,
che nelle carceri italiane ogni detenuto si trova davanti a un bivio, ed è un bivio dell’anima,
non è un bivio operativo, il compito dello Stato è quello di mettere il detenuto non di fronte
all’unica strada che conosce, quella che l’ha portato là dentro, ma la strada del lavoro. Il
bivio dell’anima infatti è questo: sono arrivato qui per la strada del crimine, può lo Stato
aiutarmi a trovare l’altra strada del bivio, cioè un lavoro, acquisito il quale io so di sapere
fare un’altra cosa oltre che delinquere? Bene, se quei numeri sono veri, come sono veri,
cioè che la recidiva, il delinquere di nuovo, passa dal 90% all’1, 2%, altro che abbassare il
bisogno di sicurezza! Favorire un lavoro nelle carceri significa esattamente porre la
recidiva e il suo abbattimento come cardini del sistema di sicurezza nazionale. Far
lavorare la gente in carcere significa rendere alla fine le nostre città più sicure, perché
quando quelli escono non delinqueranno più. Investire 110 milioni di euro in più per il
lavoro nelle carceri, significa esattamente creare migliaia di lavoratori che, uscendo da lì,
andranno a cercarsi un lavoro che hanno acquisito in carcere. Quello è il bivio. Io mi sono
talmente innamorato del lavoro nelle carceri che a Natale feci fare sul sito del Ministero
della Giustizia una vetrina dei prodotti delle carceri italiane. Bellissimo, un vino bianco
buonissimo che si chiama “fresco di galera”, c’era una barretta di cioccolato che si
chiamava “codice a sbarre”: perché poi, devo dire, l’autoironia dei detenuti che lavorano
nelle carceri è straordinaria, così come la loro umanità. Andando a visitare il carcere
minorile di Nisida, ho riscoperto il significato della bellissima atmosfera di una canzone di
Edoardo Bennato. Vedere lì il presepe nelle carceri, fatto da quei ragazzini che non solo
avevano compiuto dei reati da minorenni ma erano stati spesso educati dalle loro famiglie
a compiere reati, vedere quello sforzo – anche in Cristo, cioè attraverso il presepe – di
emendarsi, di redimersi, di trovare quella forma laica di restituzione a un’esistenza onesta
che è il modo di risarcire lo Stato, è stato bellissimo. E mi ha insegnato che poi, alla fine,
nel cuore di un uomo c’è questo, quel grande, infinito desiderio di bene che prevale
sempre sull’istinto del male. E allora, cosa deve fare lo Stato? Lo Stato deve indurre in
tentazione virtuosa il detenuto, insegnargli a lavorare e dirgli che quell’infinito desiderio di
bene può essere figlio di una scintilla e di un incontro. L’incontro con uno Stato che, dopo
averti dato uno schiaffo, ti dà un abbraccio, ti stringe la mano e ti dice: ricomincia.
MICHELE BRAMBILLA:
Adesso diamo la parola al Presidente Violante al quale chiedo se ha voglia, anche per
sorridere un po’, di raccontare la sua esperienza di volontario detenuto.
LUCIANO VIOLANTE:
Sì, però dopo mi fa parlare di cose serie. Mi è capitato durante gli anni dell’università di
fare il volontario in carcere. Allora, in carcere c’erano soltanto poveri cristi, davvero. Una
volta uno questi mi disse: “Senti, il giorno x è il mio compleanno, se porti delle uova
facciamo una frittata insieme”. Va beh, allora si poteva fare. E quindi il giorno x portai le
uova, era estate, mi ricordo che avevo un paio di mocassini, dei jeans e una camicia.
Vado in carcere, entro in cella: questo era bravissimo, era capace di fare una cosa che
sfido chiunque a fare. Con una sola mano, rapidissimamente, era capace di rompere un
uovo e separare l’albume dal tuorlo. Mangiammo questa frittata e a un certo punto
cominciarono a chiudere le porte delle celle, erano le 7 di sera. Quando sento chiudere la
porta della cella, mi alzo ma lui dice: “Non preoccuparti, tanto poi aprono”. Finimmo di
mangiare la frittata, a questo punto bussai e si avvicinò un secondino. “Cosa vuoi?” disse.
“Uscire”. E lui: “Qua tutti vogliono uscire”, e chiuse la porta. Io rimasi un po’ così, poi
ribussai e lui disse in modo più secco: “Ma che vuoi?”. E io: “Ma io, guarda che qua non
c’entro”. E lui: “Qua non c’entra nessuno”. Dopo un po’, da ribussai da capo. Lui: “Ma si
può sapere che vuoi?”. “Voglio parlare col direttore”. “Qua tutti vogliono parlare con il
direttore”, e chiuse la porta. Alla fine passai la notte in cella: il posto più pulito era il
pavimento, quindi mi misi seduto in terra. L’indomani, quando aprirono le celle, era mattino
presto. Arriva uno e conta: “1, 2, 3, 4: chi è di più?”. Dico: “Io” e mi becco un ceffone: “Vai
nella tua cella!”. “Guardi che io non c’entro”. E via dicendo. Allora la polizia penitenziaria
era militare e quello che era accaduto era un gravissimo reato militare: dovetti darmi da
fare per evitare che questi poveretti, che non sapevano nulla dell’incidente essendo
cambiato il turno, passassero qualche guaio. Questa è la storia di una mia esperienza di
galera. Ma voglio parlare adesso delle cose più serie. L’anno scorso abbiamo avuto un
dibattito su questi temi. Cosa è cambiato in questo anno? Grazie all’intervento del Ministro
Cancellieri, del Vice Presidente del Consiglio Alfano, del Ministro dell’Economia, è stata
rifinanziata in parte la legge Smuraglia, forse Maurizio ha dato una mano importante: è il
primo dato. Il secondo dato è che è passata una legge che ha evitato a chi deve scontare
pene alternative al carcere di passare comunque dal carcere. Erano circa 9.000, mi pare,
nel rapporto che ha fatto il Ministro, la Commissione della Giustizia aveva indicato 9.000
persone, che non sono entrate in carcere perché non dovevano entrarci: prima entravano
e dopo due giorni venivano rimandate via. E poi, ci sono due dati importanti. Uno è stato
richiamato prima: la sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, che ha parlato
della misura minima di umanità in carcere, i 3 mq. Secondo, una importante ordinanza che
ha sollevato un’eccezione di incostituzionalità che viene dal tribunale di sorveglianza di
Venezia, che ha chiesto alla Corte di giudicare l’incostituzionalità del fatto che la legge non
prevede il rinvio dell’esecuzione perché non c’è posto in carcere. Non so se è chiaro: le
carceri sono troppo affollate e non si può scontare se c’è una madre di figli piccoli o una
persona molto malata. Negli Stati Uniti, l’autorità giudiziaria ha ordinato in tre Stati la
liberazione di 44mila persone detenute perché non c’erano posti in carcere. Ora, questo è
un dato non secondario, perché la pena deve tendere alla rieducazione del condannato –
questo è lo scopo – però le pene non devono essere contrarie al senso di umanità. Cosa
vuol dire? Che il contenuto della pena, la rieducazione è lo scopo, ma il contenuto, il
trattamento del detenuto non deve essere contro il senso di umanità. Quando le condizioni
in cui si trova a vivere la pena sono contrarie al senso di umanità, tale pena non deve
essere applicata. Un punto sul quale discutere mi pare anche un’altra cosa di una certa
importanza. In che fase ci troviamo? Credo che dobbiamo cercare di passare dalla
denuncia, dalla commiserazione, alla politica, cioè ad alcune scelte concrete che vanno
fatte. Approfitto della presenza di due autorevoli membri del Governo per segnalare
queste questioni. Si diceva del lavoro. Oggi non sappiamo quanti detenuti o ex detenuti
complessivamente abbiano imparato un mestiere, abbiano praticato un’attività: manca un
coordinamento tra tutti i soggetti che si occupano del lavoro. C’è un Fondo Sociale
Europeo, per esempio, che prevede un intervento in questi casi, ci sono fondi nazionali, ci
sono programmi operativi regionali, c’è il fondo nazionale politico sociale, ecc. Allora,
avanzo rapidamente al Ministro cinque proposte. La prima: non è il caso di valutare la
possibilità che esista un Commissario Straordinario per il lavoro in carcere che mette
insieme tutti questi soggetti e li coordina? Perché adesso parte il Programma 2014-2020
dell’Unione Europea. In questo programma, c’è un Fondo Sociale Europeo che prevede
risorse anche per questo tipo di materie. Siccome questi fondi si spendono quando ci sono
progetti, non si spendono a caso. Allora, che ci sia un’autorità che coordini tutti e che
proponga progetti per spendere questi soldi, penso possa essere un fatto molto positivo,
anche perché quest’anno scade l’accordo che fu firmato nell’aprile 2011 per un progetto di
collaborazione transnazionale, transregionale, per il lavoro. Ci sono ragioni per valutare
l’opportunità di individuare questa figura di raccordo nel passaggio dalla situazione di
emergenza alla normalità. Seconda questione: il Garante nazionale per i detenuti. Molte
Regioni hanno un Garante regionale, alcuni grandi Comuni hanno fatto un Garante
comunale. Io credo che sia importante, per evitare che queste attività siano disperse sul
territorio, che ci sia un Garante nazionale che faccia anche un’opera di coordinamento e
raccordo tra queste situazioni. Se mi capita di stare in un carcere, con un Garante
efficace, i miei diritti sono più garantiti, dove non c’è nessuno, i miei diritti sono meno
garantiti. In Europa sono 22 i Paesi che hanno un Garante nazionale, quindi non è
un’invenzione. Il terzo dato riguardo il braccialetto elettronico. Ce ne sono 20mila, credo,
più o meno, ma le applicazioni sono di poche decine perché la magistratura in genere
vede con sospetto questa cosa. Per fortuna, a Torino il Presidente dell’ufficio dei giudici,
dei Gip, ha dato prescrizioni perché ne venga intensificato l’uso. Se si intensifica l’uso del
braccialetto elettronico, si risparmiano risorse per quanto riguarda le forze di polizia, che
non hanno bisogno di controllare. Secondo, c’è un uso maggiore delle misure alternative
perché la persona controllata va a casa. Tra l’altro, ci sono delle colonie agricole dove
forse, con il braccialetto elettronico, si possono mandare più persone e quindi alleggerire
la pressione all’interno delle carceri. Quarto caso: estendere il ricorso alle video
conferenze, perché il trasferimento di detenuti comporta molto spesso un dispendio di
risorse economiche: le persone vanno trasferite, non ci sono posti in carcere, ecc. Credo
che dopo il primo grado, si possa stabilire che, tranne casi particolari, il processo si svolga
in videoconferenza piuttosto che in presenza diretta: questo consentirebbe anche una
situazione migliore per tutti. L’ultimo dato è quello della riabilitazione. Oggi si può essere
riabilitati dopo che sono passati cinque anni dalla fine pena. Cinque anni sono tanti. Io
credo che anche un periodo più breve possa consentire una riabilitazione, se questa
persona, scontata la pena, si sta comportando in modo coerente con le regole della
comunità. E quindi, valutare anche la possibilità di accorciare questo termine potrebbe
essere utile. Infine, guardate, la pena è una punizione, sia ben chiaro, non sfuggiamo a
questo dato. La pena è punizione e deve essere punizione ma punizione attraverso la
quale deve passare la riconciliazione tra il detenuto e la società: questo è il punto di forza.
E quindi, le cose di cui stiamo parlando, di cui hanno parlato autorevolmente le personalità
che mi hanno preceduto, hanno un senso se dentro al cuore c’è punizione, sì, ma nel
senso di ricostruire un rapporto. Allora il problema non è soltanto dei detenuti, è un
problema anche nostro, nel modo in cui le guardiamo, queste questioni, perché il primo
punto l’ho colto in un passaggio che facevano tanto il Ministro Cancellieri quanto il Vice
Presidente del Consiglio Alfano: la dignità della persona deve prevalere sulla pretesa
punitiva dello Stato. Una pretesa punitiva che schiacci la dignità della persona produce un
danno assai maggiore rispetto a quello che è stato fatto dalla persona. Qui c’è un punto,
che è il mondo degli ultimi. Ai nostri occhi è tutto uguale, i poveri sono tutti uguali, i
detenuti sono tutti uguali, gli immigrati sono tutti uguali. Ci sfugge il dato che diceva
Angelino: possono essere padre, madri, figli, sorelle, possono aver giocato da bambini
come noi e forse i loro genitori avevano previsto una vita diversa per i figli. Dico questo
perché si tratta di persone, di questo stiamo parlando, la gran parte delle quali ha
commesso dei reati che devono essere puniti, certamente, ma sono dentro una logica che
riguarda anche noi, perché non è che la nostra società abbia dentro di sé soltanto angeli.
Ho notato la stessa difficoltà che vedo quando mi capita di andare nelle scuole e di trovare
un insegnante che mi dice: “Guardi, è molto difficile educare i ragazzi perché, quando
escono da qui, trovano una società che è tutta diversa dai caratteri che noi cerchiamo di
comunicare. La separazione tra quello che io dico e quello che c’è, è un grave problema”.
Guardate che per il carcere è lo stesso, perché il problema della connessione dei valori
che nella società non trovano crea una rottura. Però da questo non deve desumersi una
resa, deve desumersi la capacità di dire la verità. Certo c’è a e c’è b, c’è il bene e c’è il
male, ma la battaglia è che prevalga il bene e non il male. In questo quadro – forse non
sono legittimato particolarmente, ma insomma – ho letto recentemente una lezione di don
Giussani del 1990. Don Giussani, facendo riferimento a una Lettera di san Paolo ai
Romani, dice: “Rinnovate la mente”. E spiega cosa vuol dire, non lo sapevo, non l’avevo
capito. La mente in latino non è la testa, è la misura. Mens mensura, è la misura, rinnovate
la misura con la quale ci si raffronta con gli altri. Ecco, credo che questo sia essenziale
quando parliamo dei carcerati, perché il carcere non riguarda solo chi sta in carcere ma
anche chi sta fuori dal carcere, e certamente nessun miglioramento di fondo ci potrà
essere se non miglioriamo anche noi la nostra visione del mondo, il nostro rapporto con il
mondo nel quale viviamo. Allora, io credo che, come diceva don Giussani, la prima
conseguenza, quando si rinnova la mente, sia una diversa percezione di sé, una diversa
percezione, meno egoistica, di noi stessi come persone che fanno parte di una comunità.
Questo potrebbe aiutarci a fare le cose che sono necessarie per cambiare il carcere.
MICHELE BRAMBILLA:
Abbiamo ancora ampiamente tempo per fare almeno un giro, forse anche due, se
sintetizziamo. Io vorrei riagganciarmi alle ultime parole dette adesso dal Presidente
Violante, perché mi è venuto in mente un tema che apparentemente riguarda poche
persone ma che in realtà riguarda tutti noi, il tema dell’ergastolo. Perché riguarda poche
persone? Perché riguarda tutti noi? Allora, in Italia ci sono due tipi di ergastoli, quelli
semplici, che permettono dopo un certo numero di anni di uscire per lavoro, per altri
permessi, e l’ergastolo ostativo, che è appunto ostativo a ogni possibile scarcerazione:
permesso, lavoro, ecc. Insomma, chi ha l’ergastolo ostativo muore in carcere. Sono 1.400
persone in questo momento in Italia che hanno l’ergastolo ostativo. Perché dico che
interessa tutti noi? Perché è il tema della speranza, dell’attesa: il carcere deve redimere, la
Costituzione dice che deve recuperare il detenuto, ma che possibilità ha di essere
recuperata o di essere redenta, una persona che non ha futuro? Ne ho incontrati diversi,
tre ne ho intervistati in carcere e mi hanno tre risposte diverse. Uno, Carmelo Musumeci,
ha detto: “Penso al suicidio tutti i giorni”. Un altro, che mi pare si chiamasse Cattaneo, mi
ha detto: “Ho paura di uscire, guardo la finestra fuori e non capisco come può essere il
mondo, ormai ho paura, ho 45 anni e sono dentro da quando ne avevo 22 ma sono
un’altra persona: ho avuto l’ergastolo ostativo”. E l’altro, un albanese, invece dice: “In
carcere ho capito che anche con l’ergastolo puoi finire in un buco nero o in una vita di
luce, ho capito che si può finire anche in una vita di luce”. Però il tema della speranza,
dell’attesa. Uno psichiatra mi diceva: “Noi siamo un’attesa, l’essere umano cos’è? E’
un’attesa di qualcosa”. Nietzsche dice: “Noi siamo quello che diveniamo”. Allora,
l’ergastolo non è contro la stessa Costituzione, contro l’idea di una possibile redenzione?
Adesso ci sono le raccolte di firme per abolirlo, non so come andrà a finire. Però è un
tema che fa riflettere sulla concezione che noi abbiamo del carcere, se prevediamo o
meno la possibilità che qualcuno non esca mai, a cominciare dal Ministro Cancellieri.
ANNA MARIA CANCELLIERI:
Certo, il tema è in complesso anche perché l’ergastolo segue sempre a fatti molto gravi,
quindi qui si scatenano poi le vittime, che non possiamo ignorare. Certo che dobbiamo
loro, comunque, la speranza di avere una qualità di vita all’interno del carcere, una
prospettiva anche futura. Sì, dobbiamo trovare un punto di equilibrio perché credo che sia
complicato. Ma sicuramente dobbiamo garantire a coloro che sono all’interno del carcere
di poter vivere questa vita da persone. E’ il minimo che dobbiamo dare loro: e poi, vedere
come vivono, come compartecipano la loro vita in carcere. C’è da vedere se hanno
un’opportunità: dare comunque una speranza, una possibilità, a certe condizioni, tutta una
serie di garanzie, secondo me, potrebbe essere una cosa importante. Vorrei raccogliere le
due idee che ci ha dato il Presidente Violante e che ho trovato molto interessanti. Il
Garante nazionale dei detenuti è una figura significativa perché ci segnala delle cose
importanti. Però, avere uno che a livello nazionale omogeneizzi il tutto, sarebbe ancora più
significativo, anche perché mi sono resa conto che le carceri italiane sono proprio a
macchia di leopardo, abbiamo cose straordinarie e cose pessime. Sarebbe importante se
riuscissimo ad avere un valore medio, o per lo meno livelli discreti condivisi su tutte le
carceri. Abbiamo fatto dei cambiamenti e ne faremo ancora, all’interno del Dipartimento,
perché vogliamo che sempre di più il DAP diventi un luogo nel quale entrano le
esperienze, che ascolta, parla, capisce, ragiona. Quindi, una figura come questa potrebbe
essere di grosso aiuto. Ancora di più, potrebbe essere straordinario per il lavoro, perché
qua abbiamo vari tipi di lavori, alcuni significativi di persone che apprendono un mestiere,
che trovano un guadagno. Poi, ci sono regioni dove il lavoro è facile: in Bicocca, abbiamo
la realtà della Lombardia. E abbiamo invece altri luoghi dove si fanno dei lavori solo per
sprecare energie, che non hanno mercato e che comunque non danno una professionalità
da spendere dopo. Una figura competente che omogeneizzi e non sprechi le risorse, che
sono poche, sarebbe interessante. Noi abbiamo un’esperienza molto buona con il
Commissario per le carceri. Tra l’altro, quando si parla di commissari si parla sempre di
persone che stra-guadagnano: quello di cui parliamo non ha nessun compenso extra. E’
un dipendente pubblico come un altro, che però ha omogeneizzato le istituzioni e sta
cercando di dare valori condivisi su tutto il territorio nazionale: abbiamo ottenuto buoni
risultati. Quindi, raccolgo subito questa idea e ci costruiamo un pensiero perché penso che
sia significativa.
MICHELE BRAMBILLA:
Ministro Alfano, le giro quello che ha detto il Ministro Cancellieri. Se vuole dire una battuta
sull’ergastolo, però mi permetto di riproporre la domanda di prima e cioè: perché chi
diventa Ministro fa così fatica? Perché chi entra in politica in genere fa così fatica a
cambiare le cose in Italia? Perché ci siamo detto tutti che lavorare conviene ai cittadini
perché c’è maggiore sicurezza fuori, conviene ai detenuti perché si redimono, conviene
alle casse dello Stato perché, come ci ha detto Boscoletto, per ogni non so quanto
investito, abbiamo un recupero. Perché tutti questi buoni propositi, alla fine, non solo per la
questione delle carceri, vanno a sbattere contro un apparato di burocrazia che si mette di
traverso di continuo?
ANGELINO ALFANO:
Per risponderle, ricomincio dalla battuta che nel precedente intervento Anna Maria
Cancellieri aveva fatto sul cosiddetto svuota carceri. “Ma quale svuota scarceri, non ha
svuotato un bel niente!”. Ora, siccome la prima proposta sulla materia qualche anno fa la
feci io, l’idea che le sia stata attribuita con grande frode l’etichetta svuota carceri è
esattamente l’idea che regge i conservatorismi: dire una cosa negativa su ciò che stai
facendo, bollandolo con un’etichetta fraudolenta per far sì che quella cosa non si faccia.
Per essere molto chiari, da dove nasce l’intuizione? L’intuizione nasce dal fatto che
abbiamo pensato alcuni anni fa che, se un detenuto che non ha compiuto reati
pericolosissimi, di gravissimo allarme sociale, ha un residuo di pena di un anno, un anno e
mezzo, due anni, due anni e mezzo, e ne ha già scontato un bel pezzo ma gli resta solo
l’ultima parte, l’ultimo miglio, diciamo così, della pena, e gli si raddoppia la sanzione per
l’evasione, quel detenuto lo puoi mandare ai domiciliari. Perché, se gli rimangono da
scontare due anni e tu non gli fai la riduzione ma glieli fai scontare a casa ai domiciliari, e
gli dici che se evade invece di due ne sconta quattro in carcere, e gli hai tolto il movente,
ditemi perché tutto ciò lede la sicurezza che chiama il decreto svuota carceri, creando una
dimensione di ansia collettiva. Allora, cosa si verifica? Siccome le rendite di posizione si
annidano ovunque, attaccare il Centrodestra per esempio il rapporto tra l’allora Ministro
della Giustizia, cioè il sottoscritto, con la Lega, che esprimeva più duramente il bisogno di
sicurezza, giustifica chiamarlo svuota carceri per inserire un cuneo tra Pdl e Lega, e
creare un brand ansiogeno al fine di determinare un danno politico alla coalizione di allora.
Per essere pratici e non indulgere in nessuna forma di politichese, c’è per ogni difesa
dell’esistente, sempre, una ragione corporativa e di rendita di posizione. Allora, ci sono
vari modi per difendere la propria rendita di posizione. Un’altra tecnica, il radicalismo, è
dire che quello che tu stai facendo è troppo poco: è l’eterna disputa tra i riformatori e
rivoluzionari. I riformatori puntano al buono, al meglio, sapendo che in un solo passo
l’ottimo non è possibile e sapendo che col passo successivo, magari, possono centrare il
traguardo dell’ottimo. Chi vuole impedire ai riformatori di riformare, dice che quel primo
passo è troppo poco e ce ne vogliono tre, e a nulla vale la saggezza popolare che non si
può fare il passo più lungo della gamba, se no inciampi. E’ l’eterna disputa tra i riformatori
e i rivoluzionari. E poi in Italia c’è sempre la solita regola, che si è sempre riformatori delle
cose altrui, mai delle proprie: quindi, se vai al convegno di una categoria, trovi la proposta
di riforma dell’altra categoria, se vai al convegno dell’altra categoria, trovi la proposta di
riforme della prima, ma non trovi mai, quando vai alle assemblee, le proposte di
autoriforma. Il riformismo che funziona in Italia è quello degli altri, è l’unico riformismo che
funziona. Io me ne sono accorto e un problemino lo ha avuto anche Anna Maria
Cancellieri che, pure non essendo targata politicamente, ha sempre la wild card più
agevole. In prima fila vedo il grande avvocato Giuggioli: quando feci la riforma sulla
mediazione civile che era un modo, dal mio punto di vista, per deflazionare il contenzioso
civile in modo tale che, prima di finire sul ring di un aula di processo, due cittadini provano
a mediare senza andare in tribunale dove così, di centinaia di cause all’anno, ne finiscono
un po’ meno, apriti cielo! Ho fatto la proposta e ho preso gli applausi di Confindustria, gli
applausi dei commercialisti e i fischi degli avvocati. Dopodiché, ho proposto alcune cose
sulla giustizia penale e mi sono preso i fischi dei magistrati e gli applausi degli avvocati.
Riformare, in Italia è un mestiere molto difficile per le rendite di posizione ma anche per
l’uso che la stampa fa delle etichette fraudolente, al fine di fare una battaglia politica.
Questa è la ragione per cui il riformismo in Italia fa fatica, però il fatto è che il decreto
svuota carceri è in vigore nell’ordinamento italiano, e non ha prodotto né una recidiva né
una fuga, una evasione. Il fatto che dopo tante dispute, la mediazione civile, cioè il
tentativo di conciliazione prima di andare dal giudice, sia nell’ordinamento e in Gazzetta
Ufficiale, che cosa è se non la prova vera che con il coraggio, con la tenacia, con la forza
di difendere le proprie idee, alla fine le cose giuste si fanno? Allora, noi non dobbiamo mai
estinguere dal nostro cuore la speranza che il cambiamento sia lì, a portata di mano. Non
dobbiamo mai farci avvilire dalla battaglia, dalla pugna, da quella grande e inesausta
attenzione tra chi vuole il cambiamento e chi vuole lo status quo. Alla fine, la forza della
storia prevale sulle forze che resistono al cambiamento. Non dobbiamo rinunciare a
cambiare, anzi, dobbiamo perseguire l’obiettivo. Voi avete parlato per categorie, gli
immigrati presenti nelle carceri, coloro che sono a fine pena, la questione dell’ergastolo.
Posso porre a questa platea e a tutti voi una questione: se il 50 % di coloro i quali
finiscono in galera per custodia cautelare, cioè prima di ogni processo, statisticamente
vengono assolti, si vuole prima o poi mettere mano ad una riforma sulla custodia cautelare
in carcere, che riaffermi l’idea che tu in carcere ci finisci alla fine di un processo e sconti la
pena, ma non in via cautelare perché nessun risarcimento statale ti restituirà quella
dignità, quell’onore, quell’idea di te stesso, il tuo rapporto con la società, con la tua
famiglia, i tuoi figli, che ti ha tolto un solo giorno di carcere, nel momento in cui tu poi sarai
assolto? Si può avere il coraggio di prendere questa decisione? La decisione c’è, la norma
non avrebbe bisogno di essere riformata se solo la legge fosse applicata. La custodia
cautelare in Italia viene già evidenziata come estrema ratio, perché quando ti dicono che
devi avere il pericolo di reiterazione del reato, di inquinamento delle prove o il pericolo di
fuga, viene già configurata come estrema ratio. Ma quando tu abusi di questi tre
presupposti, finisci per abusare della custodia cautelare. Allora, gli immigrati, è vero. Gli
immigrati hanno leso il patto con la società nella quale pretendono di vivere. E lo hanno
leso facendo un danno economico in termini di bisogno di sicurezza nazionale, un danno
psicologico in termini di giusto processo, perché viene pagato. Tutto questo è giustissimo.
Quindi, che almeno il vitto e l’alloggio siano fatti pagare allo Stato di provenienza. Ma è
altrettanto vero che se le statistiche evidenziano questa grande sfasatura tra l’uso della
custodia cautelare che è fatta a 100 e solo a 50 si traduce in condanna, non possiamo
regolare meglio il sistema. Non è anche quello un risparmio per lo Stato, una
valorizzazione del diritto alla dignità, all’onore e alla reputazione dei cittadini? Allora, nel
numero e nel menù delle proposte, mettiamoci anche questa, ritengo che sia una cosa
vera e seria. E poi, e mi accingo veramente a concludere, vogliamo riaffermare l’idea che
in Italia vi sono alcune riforme che servono al nostro Paese, a prescindere dalle persone
che potenzialmente ne beneficiano. Vogliamo riaffermare l’idea che l’Italia è un Paese che
ha bisogno di riforme e che, per ogni riforma che serve all’Italia, si deve evitare di fare
l’elenco delle persone che ne beneficiano. Una riforma giusta si fa perché è giusta, e non
perché qualcuno ne beneficia. Vi ringrazio, sono contento di essere tornato qui.
MICHELE BRAMBILLA:
Facciamo concludere il Presidente Violante, gli spunti sono tantissimi.
LUCIANO VIOLANTE:
Mi ha richiamato ad un particolare biografico, permettetemi di dirne un altro. Dopo alcuni
anni di esercizio dell’attività di magistrato, in particolare sulle questioni del terrorismo, fui
chiamato dal Ministro Bonifacio per fare un ordinamento dei magistrati. Non c’era nessun
organismo particolare che si occupasse di terrorismo. E sentii questa conversazione al di
là della mia porta, tra l’usciere capo e un giovane usciere che era appena arrivato. Il
giovane chiedeva: “Questo come lo chiamo?”. E l’usciere capo: “Eccellenza”. Era il Capo
di Gabinetto. “Questi”, che eravamo noi, “chiamali Consiglieri. E questo chiamalo come
vuoi, tanto vanno e vengono”. Una ragione per cui è difficile fare le riforme, è che i Governi
vivono poco. Io ho fatto il conto. Dal 1994 a oggi, abbiamo una durata media dei governi di
18 mesi. Posto che ci vogliono 3, 4 mesi per capire dove stai, è chiaro che un anno
effettivo di lavoro – la crisi di Governo dura in genere un mese e mezzo, il tempo che ci
vuole per lavorare, per capire quali sono gli uomini capaci, per dirigerli, ecc. – è
abbastanza poco. La stabilità del Governo è un dato essenziale per fare riforme, per
governare gli apparati più riottosi e anche per fare emergere gli apparati alla volontà di
fare. Anche perché credo che sia compito di chi dirige un apparato con diverse
personalità, capire quali sono le qualità dell’apparato e non solo i difetti. Perché se non si
fa nulla e ci si limita a denunciare le difficoltà, le incapacità presenti nell’apparato, è chiare
che le persone per bene che ci sono dentro si sentono demotivate. Un dirigente vero fa
sentire gli altri partecipi di un progetto, perché se io sono partecipe di un progetto mi
sacrifico, lavoro di più perché sento che sto realizzando una cosa. Se invece mi sento
schiacciato su un muro di inefficienza, incapacità, faccio meno, faccio poco, faccio nulla. Io
credo che a questo punto occorra rispondere alla domanda di chi ci coordina. Una delle
ragioni per cui è difficile fare le riforme in Italia è che non manca la capacità di governare
ma occorre più tempo. I Governi dovrebbero durare una legislatura, ma se non durano
come accade dappertutto e se non dura la legislatura, durare il più possibile. Perché
questo comporta la possibilità di fare cose che altrimenti, in tempo breve, non si possono
fare. Ora, questa congiuntura nella quale ci troviamo vede i maggiori partiti che,
tradizionalmente avversari, tornano ad esserlo dopo le elezioni, governare assieme.
Potrebbe acconsentire a fare oggi quello che sarebbe impossibile o molto difficile. Io so
che molti degli elettori del Pdl considerano una sciagura questo Governo, e molti del Pd lo
stesso, ve lo assicuro. Però bisogna trasformare le sciagure in occasioni. Potremmo
trovare la capacità di rovesciare il meccanismo e fare in modo che questa sia l’occasione
di fare ciò che, altrimenti, sarebbe difficile o impossibile. Perché in questo modo si
guadagna una carta nei confronti di chi dovrà decidere alle prossime elezioni politiche. Io
credo che dobbiamo tenere conto che soltanto attraverso la stabilità dei Governi si può
avere la capacità di fare quelle difficili riforme cui accennavano prima Angelino Alfano e il
Ministro Cancellieri. Se non c’è stabilità, vi assicuro che il peggio della democrazia
governa, non il meglio.
MICHELE BRAMBILLA:
Sarebbe un grave peccato di omissione, a questo punto, non chiedere all’onorevole Alfano
se questa stabilità di Governo…
ANGELINO ALFANO:
Diciamola così, il mio partito, il Popolo della Libertà, e il suo leader Silvio Berlusconi, da
due anni sostengono Governi che sono guidati ne’ da lui ne’ da nostri esponenti, prima
Monti, poi il Governo di Enrico Letta. Credo che questo sia stato un atto di visione, di
generosità e di grande amore per l’Italia, che sarebbe davvero un peccato disperdere con
scelte egoistiche della parte con cui collaboriamo.
MICHELE BRAMBILLA:
Non facciamo neanche un pronostico?
ANGELINO ALFANO:
Solo con la strofa di una canzone: “Lo scopriremo solo vivendo”.
MICHELE BRAMBILLA:
Bene, ringraziamo il Ministro Alfano, il Ministro Cancellieri, il Presidente Violante e Nicola
Boscoletto. Credo che sia stato un momento molto interessante. Buona giornata a tutti.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

22 Agosto 2013

Ora

11:15

Edizione

2013

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri