UNA COMUNITÀ ALLE PERIFERIE: LA CHIESA “VILLERA” A BUENOS AIRES

Una comunità alle periferie

Una comunità alle periferie: la chiesa “villera” a Buenos Aires

Partecipa Carlos «Charly» Olivero, Sacerdote della parrocchia della Virgen de los Milagros de Caacupé nella villa 21-24 a Buenos Aires. Introduce Davide Perillo, Direttore di Tracce.

 

DAVIDE PERILLO:
Buon pomeriggio e benvenuti. Il nostro ospite di oggi è già stato qui a Rimini l’anno scorso, molti di volti se lo ricorderanno. Era venuto a presentare un libro. Quest’anno è tornato insieme a un gruppo di ragazzi che vivono la stessa avventura che vive lui in questo quartiere alla periferia di Buenos Aires, la Villa 21-24, che è un luogo malfamato, abitato da 60 mila persone, un quartiere povero, periferico, pieni di problemi, di povertà, di prostituzione, violenza, droga. Uno dei luoghi da cui la gente di Buenos Aires tende a stare lontana, un posto che tutti guardano come un problema che non si può risolvere. E invece padre Carlos Olivero, che tutti conosciamo come Charly, in quel luogo ha deciso di andare a vivere, perché ha trovato un tesoro di umanità, ha trovato la possibilità di approfondire, di vivere, di condividere il tesoro che è entrato nella sua vita, la fede, e ha capito che quel posto, come ci racconterà, è un posto dove c’è un oceano di bellezza, di umanità da cui poter scoprire, imparare tanto. Padre Charly è parroco, ha 39 anni e ha iniziato a lavorare nel 2002 e adesso, oltre ad occuparsi della parrocchia, oltre a vivere per strada con il suo popolo, oltre ad accompagnarlo nella scoperta e nell’approfondimento della fede e ad esserne accompagnato, proprio per rispondere a uno dei problemi più grandi che ci sono a la Villa, la droga, tra le tante cose che sono nate lì, ha collaborato anche alla nascita di questa opera, come la chiameremmo noi, che si chiama Hogar de Cristo, che noi potremmo tradurre come focolare di Cristo, la casa di Cristo. Papa Bergoglio, all’epoca arcivescovo di Buenos Aires, l’ha inaugurata nel 2008 e ha dato a padre Charly e ai suoi amici un mandato che è tutto un programma: “Ricevere tutte le vite che troverete lì così come vengono, impegnarsi per loro in un corpo a corpo”. È un corpo a corpo la vita lì e noi ci facciamo raccontare oggi da padre Charly cosa vuol dire per lui, per i ragazzi della Villa 21, alcuni dei quali in prima fila qui, e che potrete incontrare nello stand “La vita e la presenza della fede nella villa 21”.

CARLOS OLIVERO:
Innanzitutto vorrei ringraziare Davide, gli organizzatori del Meeting, gli amici del Movimento, la nostra comunità di Caacupé e tutti coloro che oggi desiderano condividere questa esperienza che ci ha regalato Dio. Il tema del Meeting mi sembra particolarmente suggestivo: “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?” Il poeta si rivolge al suo cuore, che si sente invaso da un desiderio e da un’assenza che lo mette in una fase di ricerca. Oggi noi vogliamo condividere la nostra ricerca e ci sentiamo chiamati dal poeta e dal tema del Meeting. La sua ricerca è la nostra ricerca, non ce ne sono altre: la ricerca della verità, della giustizia, della bellezza, di Dio. Il poeta si rende conto di quell’assenza che ha e all’improvviso si rende conto che il suo cuore sta bruciando. Questi versi mi fanno pensare anche a un altro poeta, che parla del desiderio profondo del cuore, San Giovanni della Croce, che è un maestro quando si mette a parlare del desiderio: “Dove ti nascondesti, in gemiti lasciandomi, o Diletto? Come il cervo fuggisti, dopo avermi ferito; ti uscii dietro gridando: ti eri involato”. Il percorso religioso ci insegna che non è possibile raggiungere Dio, non possiamo soddisfare la sete, questo avverrà in Cielo. La Bibbia è piena di parole che vanno alla ricerca di questa esperienza che oggi condividiamo: “La mia anima ha sete di Te come una terra deserta, arida, senz’acqua”. Questo desiderio che ci mette in cammino e ci spinge a cercare, porta San Giovanni della Croce a scrivere un altro verso molto bello: “Dietro le tue vestigia le giovani scorrazzano in cammino, al tocco di scintilla, al rinforzato vino, emissioni di balsamo divino”. Tutte quelle notizie che il cuore riceve su Dio, tutte quelle notizie che lo accendono, lo fanno ardere, ci mettono alla ricerca con avidità della giustizia, dell’incontro con Dio. Di fronte alla sete che abbiamo, la cultura in cui viviamo ci propone delle soluzioni per soddisfarla con del cibo spazzatura. Capiamo nella nostra vita di tutti i giorni che abbiamo bisogno di una cosa, poi di un’altra: vestiti che ci danno un’immagine di noi stessi, un telefono, un motorino, un’auto. Continuiamo ad avere bisogno di cose e ci muoviamo in un mercato che ci dice che la felicità sta lì, che potremmo soddisfare la nostra sete proprio lì, ma ci lascia sempre il bisogno di qualcos’altro. Non abbiamo mai la certezza del fatto che quello è il nostro percorso. Quel consumismo, che è presente nella nostra cultura e si addentra anche nel nostro cuore, pretendendo di reindirizzare la ricerca verso cose che ci possono dare sazietà, ecco quel consumismo ha anche un altro lato: non solo è un anestetizzante rispetto a quello che può succedere, ma rompe anche la struttura sociale, distrugge la società, soprattutto nei luoghi più poveri. Chiedo agli organizzatori di mostrare le immagini. Questo sistema, che ci spinge a comprare, consumare è quello che fa sì che il passaggio di un calciatore valga milioni di euro; i calciatori valgono tantissimi soldi, milioni di euro, perché in tutto il mondo tutti i ragazzi vogliono usare le scarpe di Messi o la maglietta di Ronaldo. Nel nostro quartiere i nostri ragazzi non hanno accesso a queste cose. Però questo sistema promette loro che è lì che sta la felicità, ha insegnato loro che sarebbero diventati qualcosa se avessero avuto un vestito che li avrebbe fatti sentire diversi, più belli con un marchio da mostrare. Però il padre lavora come muratore, se lavora; la mamma fa l’inserviente, se lavora e non si possono permettere quegli oggetti. Quel messaggio che addormenta i luoghi ricchi, nella povertà genera distruzione, porta a distruzione. Voi non sapete quanti giovani credono a quelle proposte, quanti giovani finiscono poi in tribunale, o in carcere, o finiscono per essere ammazzati o si uccidono per riuscire ad ottenere quelle scarpe, quella maglietta o quel cellulare. È un sistema che ormai non si può più sopportare, dice il Papa, perché quel consumismo e quel desiderio di consumare, di soddisfare la sete con cibo spazzatura, la sete del cuore, ormai lo diamo così per scontato e non lo mettiamo più in discussione. Nel nostro quartiere, nella Villa e in moltissimi altri quartieri poveri, questo fattore sta distruggendo la società. Ci sono morti, il problema del narcotraffico, della vendita delle armi o la criminalità organizzata. Non possiamo pensare che tutte queste cose siano al margine di un sistema che mette al primo posto il guadagnare rispetto a tutto il resto. Papa Francesco, nella sua visita in America Latina, ha fatto degli interventi incredibili, in particolare quando ha incontrato i movimenti popolari della Bolivia. È un testo un po’ lungo ma è importante leggerlo, e dice: “«Si stanno punendo la terra, le comunità e le persone in modo quasi selvaggio. E dopo tanto dolore, tanta morte e distruzione, si sente il tanfo di ciò che Basilio di Cesarea chiamava lo sterco del diavolo. L’ambizione sfrenata di denaro che domina: questo è lo sterco del diavolo. L’ambizione sfrenata di denaro che domina. E il servizio al bene comune passa in secondo piano. Quando il capitale diventa idolo e dirige le scelte degli esseri umani, quando l’avidità di denaro controlla l’intero sistema socioeconomico, rovina la società» schiavizza l’uomo e «minaccia anche questa nostra casa comune”.
Quello che noi viviamo nella Villa ha proprio a che fare con tutto questo. La Villa è l’altro lato di una medaglia che non è lì. Fa parte dello stesso sistema. Nel nostro quartiere c’è questa droga di cui parlava Davide, che si chiama “paco”. A Buenos Aires è chiamata la droga dei poveri, è una droga molto economica, si può comprare con pochi spiccioli, 20 centesimi di euro, veramente poco, una droga molto forte, con un effetto brevissimo che polarizza la vita dei giovani. Essi tagliano tutte le relazioni, non possono infatti condividere il consumo di questa droga con altre cose, quindi rompono le loro relazioni con i loro compagni di scuola, con i famigliari, anche con l’igiene, con i centri per la salute e fanno qualsiasi cosa pur di ottenerne una dose. Ci sono ragazzi che vendono tutti i loro vestiti, e rimangono nudi per riuscire almeno a consumarne ancora un po’. Ragazze che salgono sui camion e vengono sfruttate sessualmente per pochi spiccioli. Pochi spiccioli che servono per poter tornare a drogarsi ancora. È una disperazione che dura una settimana, a volte addirittura dieci giorni, quasi non mangiano, stanno per la strada nelle intemperie. E’ una società che è attraversata dal tanfo del diavolo, lo “sterco del diavolo”. E c’è qualcuno che si arricchisce. Noi capiamo che questo sistema non può più funzionare così. Continuo a condividere il testo del Papa: “Voi nelle vostre lettere e nei nostri incontri mi avete informato sulle molte esclusioni e sulle ingiustizie subite in ogni attività di lavoro, in ogni quartiere, in ogni territorio”. È quello che ha detto il Papa ai movimenti popolari in Bolivia. Sono molte e diverse, come molti e diversi sono i modi di affrontarle. Vi è tuttavia un filo invisibile che lega ciascuna delle esclusioni. Possiamo riconoscerlo perché non si tratta di problemi isolati. Mi chiedo se siamo in grado di riconoscere che tali realtà distruttive rispondono a un sistema che è diventato globale. Sappiamo riconoscere che tale sistema ha imposto la logica del profitto ad ogni costo, senza pensare all’esclusione sociale o alla distruzione della natura? Se è così, insisto, vogliamo un cambiamento. Diciamolo senza timore. Noi vogliamo un cambiamento. E oggi siamo qui per raccontarvi, come una testimonianza, come si uniscono queste due realtà. È un desiderio che ci arde nel cuore la necessità di un cambiamento, perché non sopportiamo più di continuare a vedere questi giovani morire. Nel nostro quartiere le madri e i padri hanno una domanda costantemente sulle loro labbra.
Vorrei raccontarvi l’esperienza de l’ “Hogar de Cristo”, “la casa di Cristo”, che è cominciata nel 2008, come ha raccontato Davide, con la benedizione dell’allora cardinale Bergoglio. Cominciando dalla nostra parrocchia di Caacupè, abbiamo capito che è necessario fornire una risposta e per questo abbiamo aperto un centro di recupero. Ancora prima di cominciare, subito ci siamo resi conto che c’era una complessità immensa. Non si trattava solo di un problema di droga, infatti se avessimo eliminato la droga, i problemi dei nostri giovani sarebbero rimasti gli stessi: un ospedale che non li accetta, una scuola che li espelle e una società che rimane indifferente. Tutti i nostri progetti sono crollati ma in tal modo si è fatto spazio il progetto di Dio. Con un centro di recupero sarebbe stato impossibile rispondere alla complessità: un ragazzo che soffre di tubercolosi e che vive per la strada non poteva essere accolto in un centro di recupero; ma nemmeno l’ospedale avrebbe potuto tenerlo, proprio perché e le sue abitudini di consumo di droga non gli consentivano di avere accesso ad una cura ambulatoriale. Una ragazza con la tubercolosi, con la sifilide o in gravidanza, non andrà mai all’ospedale, ha paura di rimanere sola, continua a pensare al suo consumo droga, e la paura che il piccolo possa nascere con delle malformazioni, anche congenite, la porta a dare tutta la colpa a sé stessa. E lo spacciatore è lì che con la droga offre alla ragazza di partorire nella sua casa, così da poter vendere poi il bambino. Questa è una storia comune tra i ragazzi e le ragazze che sono distrutti dall’esperienza del paco.
Vorrei parlarvi del numero 24 dell’Enciclica Evangelii Gaudium, dove si dice che la Chiesa riconosce che Dio ha avuto un ruolo primario, che ci ha cercato, che ci ha convinto. Ecco perché la Chiesa si propone, esce da se stessa per poter condividere questo amore. Noi andiamo per la strada dove ci sono i ragazzi, passiamo con un furgoncino e con un po’ di mate, la bevanda tipica argentina, e la sera passiamo anche con un po’ di cose da mangiare o con qualche coperta di notte. Andiamo lì per fare amicizia. Quando qualcuno soffre in maniera particolare, perché è stato vittima di attentati – questi ragazzi disperati rubano di tutto, e a volte i derubati si ribellano e per difendersi sparano – ecco, quello è il momento ideale per avvicinarli, quello è il momento in cui noi dobbiamo essere lì con amorevolezza, con affetto, e senza aspettarci nulla. Noi non ci aspettiamo che questi giovani che andiamo a trovare si recuperino, guariscano, no, vogliamo solo essere amici. Non vogliamo dire loro quello che devono fare. Ecco il secondo punto che diceva il Papa: parlava del coinvolgimento. Davide ci diceva prima che si tratta di un corpo a corpo, non c’è un’industria del recupero, noi ci mettiamo il corpo e ci coinvolgiamo nei problemi di quelle persone, perché i problemi delle altre persone sono i nostri problemi. Non possiamo rimanere freddi di fronte a quel dolore. C’è una preghiera eucaristica molto bella che dice: “Signore dacci la misericordia di fronte a tutta la miseria umana, ispiraci il gesto e le parole opportune”. Noi cerchiamo di farci coinvolgere, di donare la nostra vita. Il Papa menziona anche un terzo punto: dice che la Chiesa prima si fa vedere, poi si coinvolge e poi accompagna, perché non possiamo pensare che un problema così complesso si risolva in un unico luogo, nella Casa di Cristo che abbiamo aperto. Tutta la società deve fornire una risposta: l’ospedale deve essere più amichevole, dev’essere possibile ottenere i documenti, la polizia deve capire qual è la situazione, anche i tribunali devono fare altrettanto. E noi diciamo ai giovani: dovete fare il test dell’HIV. Ma chi è che se lo farà mai un test dell’HIV da solo? Tutti hanno una paura da morire, tutti abbiamo paura. Bisogna accompagnare le persone, metterci il corpo, umanizzare il percorso. Nella Piazza Constitucion, una piazza di Buenos Aires, una delle zone più disintegrate, con grande emarginazione, con una stazione ferroviaria molto grande, abbiamo messo una tenda della Casa di Cristo. Lì ci sono molte donne per la strada che vorrebbero avere consulenza ginecologica e io conosco una volontaria ginecologa che era contenta di fornire questo servizio. Nel giro di una settimana, mi ha detto, non ci verrà nessuno, se non c’è qualcuno che le accompagna, che rende umano anche quel percorso. La Guida di aiuto del Governo è fredda, ci sono tanti indirizzi, tanti numeri di telefono, è come se la gente potesse accedere a quelle risposte solo per il fatto di presentarsi lì, fisicamente, a uno sportello. Ci sarà un motivo se le persone sono così. Bisogna accompagnarle. La Chiesa, uscendo, oltre a farsi vedere, accompagnare le persone, impegnarsi, deve anche portare frutto. Ed è questa la cosa più bella che noi abbiamo, il messaggio più importante che ci ha dato Dio. Quando abbiamo deciso di accompagnare qualsiasi persona che si presentasse, come ci aveva detto il Papa, abbiamo deciso di prenderci in carico qualsiasi cosa, bella o brutta che sia, difficile o facile, tutto. Quando abbiamo cominciato a fare così, ci siamo riempiti di persone, giovani, donne, uomini, con la vita distrutta, ma sono venuti tutti nel nostro Centro. Come potevamo noi, eravamo in 4-5, rispondere a così tante necessità, a una complessità così grande? C’era bisogno che altre organizzazioni capissero cosa stava succedendo. Insomma, in qualche maniera, il prestigio sociale che ormai ha assunto il gruppo dei sacerdoti della Villa, ha fatto sì che si convocasse una riunione per invitare altre persone a fare volontariato e ne sono venute abbastanza. Ma i volontari avevano le loro vite, il loro tempo, non potevano essere a disposizione per tutto il tempo che serviva. Allora abbiamo cominciato a chiedere alle stesse persone che avevano chiesto di essere accompagnate, di accompagnarne a loro volta altre. Non serviva farli smettere di drogarsi o fargli trovare una soluzione vera e propria, potevano anche continuare a vivere per strada. A una ragazza che aveva vissuto tanti anni per la strada, alla quale avevamo dato poi un posto dove vivere, abbiamo chiesto di andare ad accogliere un’altra ragazza che stava sempre per la strada e ospitarla nella sua abitazione. A un ragazzo che era rimasto molto tempo in carcere, abbiamo chiesto di andare a trovare altri ragazzi che non potevano più godere della loro libertà. Il risultato di questa operazione è stato la creazione di una comunità. Nel discorso ai movimenti popolari, Papa Francesco parla della rottura del sistema sociale. Ricordatevi a chi sta parlando, agli organizzatori, a persone che fanno riciclaggio di spazzatura, ai Cartoneros, le persone che raccolgono la carta o l’immondizia per la strada, o ai Senza Terra del Brasile. Parlava a tutte le organizzazioni dei più poveri e dei più emarginati nella società, si mette nei loro panni e dice: “Cosa posso fare io? Riciclatore, raccoglitore di spazzatura, di fronte a così tanti disastri? Cosa posso fare io se non ho nemmeno i diritti lavorativi? Cosa posso fare io di fronte alle grandi aziende? Cosa posso fare io dalla mia Villa, dalla mia baracca, dal mio paesino, cosa posso fare?” E lui stesso risponde: “Potete fare molto, potete fare molto. Addirittura vi dirò che il destino dell’umanità in gran misura sta proprio nella vostra capacità di organizzarvi e di trovare risposte alternative”. Questa organizzazione, questa comunità della Casa di Cristo, è la nostra riposta alternativa. Lì non c’è un rapporto verticale, none c’è un soggetto che ha una risorsa mentre gli altri stanno nella povertà. Il requisito per poter essere una comunità è essere tutti uguali ed è avere piena fiducia, rispetto dell’altra persona che ha un dono da dare e da poter condividere. Dio ha molto da donarci attraverso quella persona. Nella comunità siamo tutti uguali, non c’è una logica verticale, come magari a volte c’è, per esempio, nei contesti di assistenza sanitaria dove c’è il medico e poi c’è quello che va dal medico, il malato. Nella chiesa abbiamo solo persone che sono povere e abbiamo tutti qualcosa da dare. Per questo la grande intuizione che oggi abbiamo è che nell’emarginazione Dio ci chiama a fare comunità. La Chiesa ha una responsabilità immensa, perché siamo ovunque, la capillarità delle nostre parrocchie arriva in tutte le periferie. Noi abbiamo intuito che è nell’emarginazione che dobbiamo fare comunità. Nella comunità siamo tutti uguali e se il problema di fondo che noi abbiamo nel nostro quartiere non è la droga, ma la frammentazione sociale, è perché la risposta esistenziale stessa è frammentata. C’è un nostro collega che stava con uno dei ragazzi in ospedale che aveva avuto un’overdose e il giorno dopo l’avevano fatto uscire dall’ospedale anche se bisognava attendere ancora qualche giorno. E il medico gli disse: “Sì, è molto bello quello che voi fate, ma noi ci occupiamo di questo, indicando una parte del corpo, non ci occupiamo di tutta la vita”. Ecco che c’è una frammentarietà delle risposte, una frammentarietà nella società che ci spinge all’individualismo, alla ricerca di comfort e di soddisfare il nostro desiderio con cibo-spazzatura, con cose che non ci saziano. Quando ci accomodiamo, ci chiudiamo bene dietro la porta, e godiamo solo della nostra piccola famiglia, della nostra piccola comunità. Questa frammentarietà è proprio quello che rompe alla base, non rompe al vertice. Jean Vanier, che è il fondatore della comunità l’Arca, un’esperienza molto bella dove c’è condivisione e convivenza in una casa di persone con disabilità, dice che le società sono piramidi e che al vertice si trovano i potenti, ci sta il denaro e sotto, alla base, invece ci sono gli scarti. Il mondo ti propone di salire, di avere più potere, di avere più soldi, invece Gesù ti propone di scendere. Lui ci ha donato la sua natura divina e si è fatto uomo, si è fatto simile a noi. Gesù discende, nell’ultima cena si inginocchia di fronte ai suoi discepoli e lava loro i piedi e quando spiega dice “voi sarete felici se, sapendo queste cose, le porrete in pratica”. La felicità è nella discesa, non è nella salita. Potete avere tutte le cose del mondo, la felicità è nel basso. Attenzione, l’ascensione implica anche uno schema di valori, perché non c’è posto per tutti al vertice, per questo c’è la competizione e nella competizione si produce violenza: due Paesi che lottano per avere il petrolio, per controllare un punto strategico, quaranta operai che competono per essere il capomastro del cantiere. La concorrenza squalifica la fragilità, per questo giudichiamo gli altri, non perdoniamo la fragilità degli altri e ce l’abbiamo così dentro questa cosa, nel cuore, che noi stessi siamo frammentati, non riusciamo accettare la nostra fragilità. Non possiamo nemmeno guardarla. Il percorso di discesa che propone Gesù ci porta in un luogo dove c’è spazio per tutti, dove non è necessario competere, non serve nascondere le proprie fragilità. Lì, nel luogo dove c’è posto per tutti, noi capiamo che vogliamo fare comunità. Quel luogo è anche il luogo in cui noi troviamo delle tracce di Dio, che ci fanno capire che stiamo andando per la strada giusta e qual è la strada. Noi continuiamo a seguire Dio, le sue tracce, a partire da quel desiderio che abbiamo, il desiderio che fa parte del tema del Meeting che ci racconta il poeta, il desiderio di san Giovanni della Croce. Le cose che fanno vibrare il cuore ci confermano che quella è la via da seguire. Sant’Ignazio parlava della consolazione. Noi vogliamo condividere questi due punti. Abbiamo trovato il percorso di Dio nella comunità cristiana e nell’opzione dei poveri. Avevo chiesto a Dio l’opportunità di dire queste cose, di dire che la chiesa è chiamata ad essere comunità nella emarginazione, non a dare quello che avanza, il di più, ad essere fratelli e sorelle nell’emarginazione. Per questo sono qui e sono grato della possibilità che mi avete dato di trasmette questi pensieri. Sono convinto del fatto che è Dio, in questo momento Papa Francesco, che ci danno il quadro per poter parlare di queste cose. Vi ringrazio tantissimo di nuovo. Grazie per avermi ascoltato, per avermi invitato e per avermi dato questa opportunità di condividere questa ricerca del cuore della mia comunità. Una ricerca molto bella e siamo certi che ce l’ha regalata Dio.

DAVIDE PERILLO:
Ringraziamo tantissimo padre Charly. Accettiamo la sfida fino in fondo. Io faccio a voi la domanda che mi è sorta guardandolo, ascoltandolo, o incontrando alcuni dei suoi ragazzi ieri: incontrando una realtà così, non vi viene voglia, non ci viene voglia di andare a vederla, di andare a stare lì? Quanto meno di andare a condividere, come diceva lui, questa esperienza? Non vi chiedo di alzar la mano per rispondere, ma ognuno per sè, ognuno di noi in cuor suo sa se almeno in un momento gli è spuntato questo desiderio, questa attrazione; capite che è una attrazione strana, perché abbiamo visto e ci ha raccontato di che posto si tratta, che posto è. Eppure questo fascino inesorabilmente spunta. Allora, incontrando lui, incontrando i suoi ragazzi nei prossimi giorni, andando a conoscerli, chiediamoci perché. Perché questa attrattiva, perché un posto così pieno di problemi, così carico di difficoltà, di fatica, di dolore, può diventare un posto che attrae, dove uno avrebbe voglia di andare a passare almeno un pezzettino della sua vita? Facciamoci sul serio questa domanda, perché se la prendiamo sul serio possiamo scoprire qualcosa di più della nostra umanità, della potenza che ha il desiderio, il bisogno, il nostro bisogno umano, e chi è Cristo. Uno sguardo così, un desiderio di partecipare, di condividere la vita così, un desiderio di abbracciare l’altro fino a fargli scoprire che quello che ti distingue non è il cellulare o la maglietta, ma quello che ti distingue ce l’hai già ed è il tuo volto che è unico e irripetibile e tu sei amato per questo, uno sguardo così, un abbraccio così, nasce solo per quello che diceva Charly, che ci mostra di continuo il Papa, perché Cristo è presente, per la presenza di Cristo. La chiesa è questo. Non è altro da questo, non può essere altro da questo in qualsiasi condizione si trovi a vivere, operare. Allora uno dei motivi per cui io personalmente, ma credo tutti noi, ringraziamo Charly, è che ci ha fatto capire ancora di più e ancora meglio che cosa ci sta chiedendo il Papa. E’ vero che dalle periferie e dalla marginalità si vede molto di più, si capisce molto meglio chi siamo noi, cos’è il mondo e cosa siamo chiamati a vivere. Soprattutto perché questo fascino irresistibile della possibilità di scoprire le tracce di Dio dovunque siamo, è il motivo per cui siamo al mondo. È il motivo per cui siamo al mondo. Seguire la mancanza, dare spazio alla mancanza che ci ricorda il titolo del Meeting, è la strada per poter scoprire queste tracce di Dio. Grazie a tutti e buon proseguimento. Grazie e buon Meeting.

Data

21 Agosto 2015

Ora

15:00

Edizione

2015

Luogo

Auditorium Intesa Sanpaolo B3
Categoria
Incontri