SPIRTO GENTIL – STABAT MATER di Giovanni Battista Pergolesi

Guida all’ascolto. Relatore Pier Paolo Bellini

 

PIER PAOLO BELLINI:
Allora, benvenuti a questo ultimo incontro del Meeting 2016. Ci siamo lasciati con un appuntamento, avendo iniziato un percorso un po’ particolare, commentando il titolo “Tu sei un bene per me”. Vi dicevo, presentando Gianni Aversano, che la prima cosa musicalmente parlando che mi è venuta in mente è la canzone di Domenico Modugno Tu sì na cosa grande pe’mmé……………………………

Ci sono strane coincidenze: Pergolesi scrive lo Stabat Mater a Napoli, dove era andato a studiare, dove stava lavorando, lo scrive a Pozzuoli, dov’era andato in vacanza per respirare aria buona, perché non stava bene. Napoli la stiamo trattando in tanti modi: i canti napoletani, abbiamo citato Leopardi e tutte le cose profonde che hanno un nesso con questa città in questo periodo. Il testo che adesso possiamo far vedere, il testo di Jacopone da Todi, racconta esattamente quello che succede attraverso lo sguardo della madre, della Madonna. È un latino molto comprensibile, vi ho messo la traduzione ma penso che non faremo fatica a seguirlo. Vorrei farvi comprendere come il modo di scrivere di Pergolesi sia totalmente a servizio della descrizione di quello che sta succedendo: la musica rappresenta una sorta di catechismo per la gente semplice, per far capire, per far comprendere, per far condividere quello che sta accadendo attraverso i suoni. Non lo ascolteremo tutto, ne ascolteremo solo alcuni brani perché lo Stabat Mater è troppo lungo per i nostri tempi. Partiamo dal primo brano: cerchiamo di familiarizzare col suo modo di scrivere, un modo che è attentissimo alle parole. E’ un brano scritto per quartetto d’archi o orchestra d’archi, con un accompagnamento, il basso continuo, e due voci femminili, il soprano e il contralto. Già all’inizio ci accorgiamo di una cosa: che l’obbiettivo di Pergolesi, secondo le tecniche di quel periodo, è farci sentire un dolore, se non altro sentire un disagio o, se volete, un fastidio. In che senso?
Le frecce indicano i punti dello spartito dove entrano le due cantanti, costantemente in dissonanza l’una con l’altra, sono note che picchiano l’una contro l’altra per dare il senso di un fastidio, di un dolore che vedrete tradotto musicalmente in tantissimi modi. Per il momento, vi faccio vedere solo questo: tutte le volte che una voce entra, andando a scontrarsi con l’altra, l’orchestra fa esattamente la stessa cosa: l’orchestra qui è come se fosse il mondo, magari anche quello non umano, la creazione, che partecipa di questo dolore. Ascoltiamo l’inizio fatto dall’orchestra, che poi sarà tradotto in maniera esplicita dalle due voci. Sentiamo questo inizio.

ASCOLTO MUSICA

Sentite tutti questi scontri? Adesso lo ascoltiamo con le voci: è la stessa musica, però tradotta in maniera umana, due donne che parlano. Subito dopo, è come se Pergolesi usasse una telecamera come queste che mi stanno riprendendo. Prende una telecamera e commenta iuxta crucem lacrimósa ai piedi della croce: è come se inquadrasse dall’alto in basso, come fosse lo sguardo del figlio sulla madre.
Poi guardate questa cosa bellissima: vi assicuro che niente è fatto a caso, non sto inventando niente, sono stilemi musicali che in quel periodo venivano assolutamente pensati con questa finalità: questa è una lacrima, scritta, disegnata con le note, è una lacrima che scende, adesso lo sentiamo.

ASCOLTO MUSICA

Un altro elemento, scusate se commento molto, dopo andremo più veloci: guardate questa pagina. Mentre pendeva il figlio dalla croce, dum: questo dum, Pergolesi sottolinea, va fatto sottovoce. E poi guardate, stupendo, il mentre: quella lì è una nota lunga, prima si muoveva tutto. Quanto tempo! Ci costringe a stare lì tutto il tempo in cui quel figlio pende dalla croce. E la seconda voce – anche quella sottovoce e lunga – è di nuovo in dissonanza (una settima, re-do). Una cosa interminabile. Ecco, Pergolesi in questo primo brano vuole che condividiamo quella situazione.

ASCOLTO MUSICA

L’obbiettivo di questo primo brano – se lo raggiungo sono contento – è che non siate sereni, cioè che dopo averlo ascoltato non siate tranquilli, proviate un certo fastidio. Buon ascolto.

ASCOLTO MUSICA

Secondo brano, lasciamo l’immagine: queste opere che vedrete, le ho usate quasi per caso, incontrando questo artista che avevo conosciuto in giovinezza. Si chiama Nicola Sebastio, perché quando abbiamo avuto l’occasione di presentare lo Stabat Mater presso la cattedrale di Comacchio, mi hanno chiesto di tentare un accostamento: non lo faccio spesso, ho sempre molta paura di associare immagini ma a mio parere in questo caso l’eccezione è veramente straordinaria. Sono opere in bronzo che, vedrete alla fine, sono quasi scritte sulla musica. Detto questo, secondo brano, Cujus animam gementem: “la sua anima gemente/ contristata e dolente/ era trafitta da una spada”. Qui Pergolesi sottolinea due punti, due aspetti: primo, questo dolore, gementem; il secondo è il gesto della spada, gladius. E li disegna musicalmente. Guardate come va in alto, anche il ritmo è importantissimo: ta-tà, ti-tì, ta-tà, è come uno che sale una scala, ma una scala di dolore e, quando arriva su in cima, una caduta clamorosa, anche qui un salto di settima. Vi assicuro che cantare queste cose non è facile e sono degli intervalli che in quel periodo venivano guardati con grande sospetto. Questa è proprio l’idea di uno che cade, va fino in cima e cade giù. gemèn-tem, dolèn-tem, cade per terra, letteralmente. Adesso vi faccio vedere un servizio fotografico di come si possa usare la spada per uccidere qualcuno. E Pergolesi ci dà proprio una specie di album di queste modalità. Primo: pertransivit, vado su e vado giù, tararì, tirirà! Secondo modo: col trillo, tì trrrrr! Sentiamo.

ASCOLTO MUSICA

I suoni per far sentire una spada che penetra, in questo caso, invece, scivolando cromaticamente, Re, Reb, Do – ta-rì-rà, lentamente. Due volte. Non basta, guardate qua: ecco, se non stiamo attenti al senso di questi suoni, ci sembrano delle cose assurde, anche un po’ sgradevoli. Perché queste sono delle grida, degli urli: degli acuti in tremolo, in trillo, che sembrano fuori luogo e invece sono veramente degli acuti di dolore, di una spada che trafigge.

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Terzo brano. E qui vedrete come Pergolesi diventa un pittore coi suoni: fa venir fuori delle cose, dei testi, guardandole con una precisione straordinaria. “O, quanto triste ed afflitta/ era quella benedetta/ Madre dell’Unigenito”. Noi renderemmo questo testo in maniera molto superficiale o disattenta, guardate, invece, Pergolesi che cosa fa. Primo: la prima fase dice che è una donna triste e afflitta. Guardate come lo traduce: innanzitutto le due voci fanno un ritmo omoritmico costante, lentissimo, tam tam tam tam, pausa, tam tam tam tam. E’ una marcia funebre. Ma appena ha finito di dire questo…

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Ecco qui Pergolesi che gioca in maniera straordinaria coi tempi, non solo i tempi musicali, proprio i tempi storici. Qui è il presente: questa donna è triste ed afflitta. Poi, guardate, il testo è come se ci riportasse indietro di 33 anni: “illa benedicta”, quello che le aveva detto la cugina Elisabetta: “benedetta tu”. E guardate come la melodia comincia a muoversi, perché si ricorda della felicità di 33 anni prima, quando doveva nascere Gesù: ci riporta a quel momento lì, tattà, tittì, tarì tarìri… Sono proprio quadri di momenti diversi. Pergolesi si sofferma su “Mater”, questa è la matrona, sembra quasi una matrona romana, maaa-ter. E guardate alla fine l’ultimo versetto, lo vedete anche voi, vengono fuori le notine nere, che non portano male: vuol dire che sono veloci, che saltellano. Perché? Perché qui viene fuori l’immagine di Gesù. “Unigeniti”: attenzione, il Gesù bambino, non il Gesù sulla croce. Il Gesù di 25 anni prima, che magari giocava – come dice Péguy – a fare il falegname. Ecco, tre quadri in una sola riga.

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Il brano che ascoltiamo adesso è molto teatrale, ricorda anche un altro Stabat Mater che Jacopone aveva scritto in lingua volgare, in cui ci sono dei dialoghi. Dice: “Maria, cos’hai incontrato per la via?”. Queste due donne dialogano tra di loro e fanno delle domande, se volete, retoriche: esiste un uomo che vedendo una cosa del genere potrebbe non piangere? Se vedesse la madre di Cristo in tanta sofferenza, è un umo chi non piange? Sono due domande retoriche, la risposta evidentemente è no. E la seconda, un contralto, fa la stessa domanda: chi potrebbe non affliggersi guardando la madre pietosa, addolorata, e il figlio? Risposta: nessuno. Queste due dialogano sapendo che la risposta è scontata. “La cosa terribile è che invece è stata proprio la sua gente”, l’ultima terzina che vedete, “quella per cui lui era venuto, a metterlo in croce”. “Per i peccati della sua gente”, sentirete qui come Pergolesi diventa violento, “per i peccati della sua gente lei ha visto suo figlio, Gesù, nei tormenti e alle pene sottoposto”. Una cosa sola, al di là della questione teatrale: sentirete proprio le voci che dialogano tra di loro, un disegno anche qui bellissimo. In un supplizio tanto grande, guardate questo salto, addirittura un salto di un’ottava, un grido lunghissimo, un “tanto” lungo, alto, grande, e poi “supplizio”, che è una discesa a gradini, di uno che rotola. Arriviamo così al momento culminante, insieme al brano finale è uno dei brani più ben riusciti e perfetti della storia della musica. Il momento culminante: “vide il suo dolce nato che moriva da solo finché emise l’ultimo respiro”. Anche il testo è veramente stupendo, perché, guardate, sino a “dolce nato” un bambino che moriva da solo. La durezza di questa immagine: non c’è nessuno sviluppo, non è il bambino che dopo trent’anni e dopo tre anni di predicazione… no, quel bambino è in croce. Ripeto, le immagini che abbiamo visto in televisione sono una cosa simile. Quel bambino “dolce nato” che muore da solo, fino all’ultimo respiro. Ecco, qui Pergolesi fa delle cose stupende, spero di riuscire a condividerle con voi. Innanzitutto, quando dice “morientem”, guardate come lo fa sentire, uno che progressivamente va a spegnersi, costantemente verso la fine, che finisce l’energia. Qui lo fa con il trillo: sentite le ultime energie. Finché arriviamo al “dum emisit spiritum”, e qui è stupendo, in quel dum che avevamo sentito nell’inizio, “dum pendebat filius”, che verrà copiato anche da Mozart vent’anni dopo. C’è una regola, e le regole sono fatte per essere rispettate il più delle volte, a meno che non si voglia far sentire qualcosa di eccezionale. Ecco, qui Pergolesi costringe la cantante a sbagliare, perché non si deve cantare in questo modo, non si può fare: è un errore, ma un errore voluto. Mozart nella Messa di incoronazione farà identico “sepultus est”: se-pul-tus, per far sentire l’ultimo respiro o anche per far capire che non si riesce a dirla, una cosa del genere, tanto è terribile, con questa linea sempre discendente che va a spegnersi. Lo fa anche in un altro modo, gridando: “Vi, lassù in alto, tam tam tam tam, un grido di questa tragedia che si sta guardando. Sembrava finito, non è finito ma si arriva alla fine, finis, quella cosa commovente che Pergolesi scriverà alla fine di questo Stabat Mater, “finis deo gratias”, è finita grazie a Dio. E dopo sarà la sua fine, pochi giorni dopo. Guardate qui come scrive in questa pagina, intanto perdendosi, pianissimo perdendosi, di nuovo quei respiri, dum-e-mi-sit, e poi guardate come si allungano le durate, insopportabili, e c’è questo finissimo tentativo di rialzare la testa, c’è ancora un po’ di fiato. Ci sono molte chiese gotiche che hanno l’abside spostato, non è simmetrica la navata, per far vedere la testa, come viene rappresentata nei crocefissi di Giotto, di Cimabue, la testa di Cristo che muore, lui lo fa coi suoni, Da Victoria lo fa coi suoni, il capo di Gesù che finisce. Un fiato. Un ultimo aspetto. Dura tre minuti ma è come una sinfonia, un capolavoro. Alla fine, l’orchestra non fa solo l’accompagnamento, l’orchestra partecipa di quel disastro: abbiamo ammazzato Dio. E l’orchestra a sua volta – è un po’assurdo, come fa un’orchestra a suonare sottovoce? – ma è perché questa orchestra è tutto il mondo che partecipa di quel disastro, fino alla fine del respiro ultimo. Sentite che razza di efficacia ha questo componimento. Respira anche lei. Qui si chiude la storia di Gesù, il percorso storico di Gesù. Ho messo un’immagine alla fine che spero vi dia la percezione di quello che succederà dopo, perché siamo a metà dello Stabat Mater, non ve lo faccio sentire tutto, ascolteremo solo altri due brani, ma siamo a metà, e qui finisce la storia, dovrebbe finire come ogni storia umana che si rispetti. Questa che vedete è un’opera piccolina ed è di un’efficacia a mio parere straordinaria, quell’energia che solleva la pietra, quell’energia strana che dà vita alle piante, che dà vita ad un uomo morto, ad una storia umana finita. Jacopone e Pergolesi sono molto coscienti della rivoluzionarietà di quello che stanno raccontando. Jacopone lo fa con le parole, Pergolesi con i suoni. Adesso non c’è tempo, ma sarebbe bello rivedere tutto il testo della sequenza dello Stabat Mater. Non ci avete fatto caso, ma fino adesso ha usato solo tempi al passato, solo. Stabat, Pertransivit, Vidit: tutto passato, perché è storia e la storia ha i suoi tempi. Da questo momento in poi, metà dello Stabat Mater è tutto sul presente, come se non ci fosse soluzione di continuità, come se quella vita non avesse avuto come tutte le vite una vita vera. Fac ut ardeat, fa che il mio cuore arda adesso, ora, amando Cristo Dio per piacere a Lui. Da qui in poi si parla dell’oggi e Pergolesi fa la stessa cosa, per cui, “allegro”, che non vuol dire che è una festa, vuol dire che ricomincia il movimento vitale, il ritmo vitale e le due voci cantano in un fugato in cui una voce rincorre quell’altra per dire: “Fa che io possa vivere la stessa cosa di allora”, fa che io di più di lei, una specie di combattimento che ascoltiamo.

ASCOLTO MUSICA

Non è un funerale, siamo andati a un funerale e viene fuori ‘sta roba qua, e addirittura si permette Pergolesi di anticipare una festa, come sentiremo alla fine. Guardate quando dice complaceam: “perché voglio piacere a Lui, oggi io voglio piacere a Lui, quindi fa che io possa amarLo”. E guardate questo piacere come viene trascritto; questa è una tradizione che risale al canto gregoriano, che si chiamava jubilus. Su una sillaba sola mette cinquanta note, perché lo diceva sant’Agostino, lo paragonava agli agricoltori che quando mietono sono così contenti che non riescono più a dire le parole, e dicono solo suoni. Siamo andati a una funerale e adesso c’è una festa.

ASCOLTO MUSICA

Arriviamo all’ultimo brano, anche qui un apice assoluto: già il testo, vi faccio notare alcune cose linguistiche. “Quando corpus morietur, quando il corpo morirà, fai in modo che all’anima sia donata la gloria del Paradiso”. È la sintesi – ho lasciato indietro un parola, amen, di cui parleremo – di tutto quello che abbiamo ascoltato fino adesso. L’idea della morte, tutta la prima parte dello Stabat, “fai in modo adesso”: guardate i tempi linguistici, per la prima volta viene fuori un futuro. Abbiamo visto il passato, il presente, e il futuro: “fai in modo che quando morirò io possa godere della gloria del Paradiso”. Quest’ultimo brano è una invocazione intensissima, è l’uomo salvato, potenzialmente salvato da Cristo, che chiede di poter partecipare alla gloria eterna, con uno struggimento straordinario. Ma la cosa che colpisce di più, e che colpì don Giussani nella sua scelta e nel suo affetto a questo brano straordinario, è che in realtà l’ultima parola non è neanche questo struggimento, non è neanche la pur straordinaria capacità di domanda, ma è quella parola definitiva, “amen”. Questa possibilità c’è, e viene urlata – urlata è sbagliato -, viene cantata con tutta la voce, come ad assicurare che quella parola, “amen”, è una roccia che non potrà essere scalfita da nulla nella storia, nel passato, nel presente e nel futuro. E sentirete con quanta decisione viene detta quella parola definitiva, che è l’inizio della vita, per tutti. Anche le immagini sono a mio parere estremamente efficaci nel descrivere quel che vi ho detto.

ASCOLTO MUSICA

Concludo con una citazione che avrei dovuta fare dall’inizio ma avrei rovinato tutto: “Tutto ciò che ci diciamo, che diciamo come rapporti, come possesso, come gioia, come godimento, come desiderio, tutto ha la morte davanti, ha un limite. Soltanto Cristo toglie questo limite, soltanto Cristo ti salva il rapporto con il padre e la madre, ti salva il rapporto con il ragazzo che ami, ti salva il rapporto con la verità che emerge dal tuo sguardo curioso sulle cose, ti salva la vita che freme in te, il gusto di te stesso, l’amore a te stesso”. Ho scelto questo brano per commentare “tu sei un bene per me”, soprattutto considerando quest’ultima sottolineatura, se volete triste ma esaltante, che don Giussani fa rispetto ai beni della vita, perché un bambino è un bene oggettivo, una madre, un padre, una moglie, un marito sono un bene oggettivo; ma che questo bene perduri non è legato al bene che gli vogliamo e che questo bene resti e possa portare frutto non è frutto del nostro bene, per quanto gliene possiamo volere. E’ la storia che è stata raccontata dentro lo Stabat Mater, che viene raccontata ma che viene rivissuta nella storia del cristianesimo, nella storia di questa possibilità di un bene che vada oltre il limite, che salvi dal limite. Grazie per l’attenzione e arrivederci al prossimo anno, al prossimo Meeting.

Data

25 Agosto 2016

Ora

19:00

Edizione

2016

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Spettacoli