RISORSE, ALIMENTAZIONE E SVILUPPO SOSTENIBILE

Risorse, alimentazione e sviluppo sostenibile

Partecipano: Stefano Berni, Direttore Generale Consorzio Tutela Grana Padano; Massimo Goldoni, Presidente Federunacoma; Maurizio Martina, Ministro delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali; Franco Sotte, Docente di Economia del Territorio e dell’Ambiente e di Economia e Politica Agraria all’Università Politecnica delle Marche; Federico Vecchioni, Amministratore Delegato Bonifiche Ferraresi Spa. Introduce Camillo Gardini, Presidente Compagnia delle Opere Agroalimentare.

 

CAMILLO GARDINI:
Un benvenuto a tutti e un ringraziamento agli autorevoli relatori che hanno aderito al nostro invito, per partecipare all’incontro dal titolo Risorse, alimentazione e sviluppo sostenibile. Per iniziare questo incontro vorrei citare un brano della Carta di Milano prodotta in occasione di Expo Milano 2015, frutto della collaborazione tra diverse istituzioni e enti che operano nel settore. Diverse istituzioni che hanno trovato opportuno proporre la firma di questa carta che dice: “Riteniamo che solo la nostra azione collettiva in quanto cittadini e cittadine, insieme alla società civile, alle imprese, alle istituzioni locali, nazionali e internazionali potrà consentire di vincere le grandi sfide connesse al cibo: combattere la denutrizione, la malnutrizione e lo spreco, promuovere un equo accesso alle risorse naturali, garantire una gestione sostenibile dei processi produttivi”. Ci sembra molto interessante questa frase sintetica, e di particolare attenzione quando parla di un’azione collettiva. Questa è la radice di questo incontro: vorremmo uscire da questo incontro con informazioni maggiori rispetto al grande tema della nutrizione. Ma vorremmo anche mutuare dagli autorevoli relatori un compito che ciascuno di noi può fare. Compagnia delle Opere Agroalimentari, che rappresento, ha realizzato in occasione di Expo un documento che recita: “Il titolo dell’Expo Nutrire il pianeta, energia per la vita può trovare forma adeguata nella definizione che ogni Paese deve poter garantire al suo popolo due cose fondamentali: la prima è l’approvvigionamento alimentare, sia in qualità che quantità, la seconda è lo sviluppo delle economie rurali, la tutela dell’ambiente e la salvaguardia del territorio. All’Expo abbiamo visto che Paesi con anche gravissime difficoltà nella coltivazione di terreni fanno cose impossibili per garantire uno sviluppo rurale e anche una relativa autonomia nell’approvvigionamento delle materie prime. Paesi come Israele, o gli Emirati Arabi uniti. In tal senso, è di fondamentale importanza supportare lo sviluppo dell’imprenditorialità agricola per la costruzione di economie agroalimentari locali capaci di contribuire alla crescita sociale ed economica dei territori attraverso l’offerta di prodotti competitivi su mercati profittevoli”. Quindi prodotti competitivi nei confronti del mercato e capaci di intercettare mercati che danno risultati economici. Spesso consideriamo questi discorsi condividibili, ma lontani. Siamo qua oggi per raccogliere testimonianze per comprendere cosa e come questi discorsi possono coinvolgere ciascuno di noi. Oggi vogliamo conoscere le storie dei nostri relatori. Abbiamo l’opportunità di incontrare diverse esperienze. La prima di queste è del professor Franco Sotte, Docente di economia del Territorio e dell’Ambiente e di Economia Politica Agraria presso l’Università Politecnica delle Marche. È anche direttore di un’autorevole rivista di economia agraria, Agriregionieuropa. Chiediamo di fare un’introduzione tenendo presente soprattutto i rischi che possono esserci quando si parla di questi argomenti.

FRANCO SOTTE:
C’è indubbiamente una nuova attenzione per l’agricoltura, e io non davo assolutamente per scontato che l’Expo si aprisse con Feeding the world, energy for life come tema centrale. Credo che debba essere riconosciuto che questa è una grande novità. Evidentemente la scala dei valori sta cambiando, e in questa nuova scala il primario riprende il suo posto. Ma attenzione ai pericoli. Il primo pericolo è quello di un’immagine indifferenziata dell’agricoltura. Guardiamo ad alcuni dati. Questi sono i dati statistici che abbiamo elaborato sul censimento delle aziende agricole: il 27% dichiara di solo autoconsumare, il 9% di autoconsumare la più grande parte della loro produzione, il 28% ha un valore della produzione medio di tremilasettecento euro annuo. Altre hanno un guadagno sopra i ventimila euro all’anno, mentre le grandi imprese – che hanno un guadagno di centomila euro l’anno – detengono più dei due terzi della terra e producono il 90% del valore. Questo è il dato che vi posso mostrare. Questo ci porta a dire che non abbiamo più una, ma tante agricolture, e d’altra parte altri, che non sono nel censimento e oltre alle aziende censite, hanno relazione con l’agricoltura. Ci sono molte altre realtà di impegno informale in agricoltura e verso la gestione della natura, come gli orti urbani e l’agricoltura sui balconi. Includerei nell’elenco anche tutti quei soggetti che pur non impegnati nella coltivazione o nell’allevamento, hanno un rapporto diretto con l’ambiente e la natura: residenti rurali, ambientalisti, operatori nei parchi, gestori del verde, cultori del paesaggio. È evidente che abbiamo tante agricolture, e in particolare quella delle imprese professionali ha il compito di fornire in modo sostenibile le enormi quantità di alimenti che il mondo richiede. Quella non professionale delle non-imprese ha il compito di coltivare il rapporto tra la natura e la vita senza interessi commerciali e così facendo di farsi anche protagonista di un rapporto di integrazione e mediazione tra gli agricoltori professionali for profit, gli imprenditori e i consumatori cittadini spesso disinformati o male informati sul ruolo dell’agricoltura e degli agricoltori. In questa situazione, occorrono politiche differenziate, una per le imprese e una o più per le non imprese, che riconoscano a ciascuna forma di agricoltura il proprio ruolo distinto ma al tempo stesso fondamentale. Pericolo numero due: una visione bucolica e nostalgica dell’agricoltura. Prendo per tutti il termine contadino, spesso usato per esaltare il ruolo di un’agricoltura sostenibile a misura d’uomo, da cui contadinizzazione o ricontadinizzazione. A me il termine contadino non piace. Partiamo dall’etimologia: il termine contadino deriva da contado, che a sua volta viene da conte e contea, e rivendica il dominio storico del proprietario sulla terra e sugli uomini e sulle donne che la lavorano. Contadino, nel senso etimologico del termine, indica una persona vincolata alla terra che lavorano, e dominate dalla proprietà terriera, cioè dal conte o da altre forme di monopoli. Purtroppo ce ne sono ancora tante, anche da noi. I contadini sono anche portatori di valori, ma molto spesso vivono in condizioni economiche e sociali inaccettabili. Meglio parlare di agricoltori, termine che si coniuga con tanti attributi: agricoltori investitori, della domenica, autoconsumatori, piccoli, giovani, part-time. Salviamo i valori dei contadini ma non dimentichiamo le loro sofferenze. Terzo problema è una visione elitaria e/o un atteggiamento radicale nei confronti dell’agricoltura. Nel mondo, quale dovrebbe essere il soggetto prioritario? Il biologico? Quello che si interessa al biodinamico? Il vegetariano? Il consumatore di prodotti di alta qualità? No, è il consumatore più povero e più disinformato, ignorante, che incontra il venditore di prodotti al prezzo più basso possibile. Quello dovrebbe essere per noi la priorità. L’assurdo è che il secondo deve nutrire il primo senza avvelenarlo in modo sano e adeguato. Questa è la vera priorità. Così desidero interpretare le parole di Papa Francesco nell’incontro che ha avuto con CL il 7 marzo scorso, quando diceva che “la strada della Chiesa (lo dico io da laico) è uscire per andare a cercare i lontani nelle periferie”. Ci sono “i lontani nelle periferie” dal nostro punto di vista? Lo slogan di Expo è Feeding the World, non Feeding my world. Questo significa dire no ad atteggiamenti elitari nell’alimentazione o che non facciano i conti con le potenzialità e i limiti del pianeta. Si può sfamare il mondo in modo sostenibile? E come? Qui ci vuole realismo e conoscenza. Un grande spazio per la ricerca, un grande spazio per il realismo. Innovazione sostenibile è stato un termine di una recente pubblicazione di grande importanza fatta a livello europeo. È una grande responsabilità per la ricerca e per la politica trovare l’innovazione sostenibile, quindi mi sento di dire no a tutti i radicalismi tecnologici e alimentari. E allora, produzioni di massa o produzioni di nicchia? Ampio spazio all’eccellenza alimentare, al biologico, all’alternativo, alle mode alimentari, all’autoproduzione, al no OGM. Il consumatore è sovrano e deve essere informato ed esserlo subito. L’Italia su questo terreno ha un grande potenziale, ma ha anche grandi problemi di competitività. Vendere non è una cosa semplice e questo è lo spazio per gli innovatori di nicchia, per le piccole e medie imprese non isolate, ma in rete. Il mondo si sfama però con le produzioni di massa, con la massima efficienza e con le economie di scala. Questo è lo spaio per le imprese grandi, che non devono essere libere di fare quello che vogliono. Specie se sono multinazionali: devono essere sottoposte a regole sovranazionali, e per questo sarebbe importante un nostro ruolo d’Europa nel WTO, l’organizzazione mondiale del commercio, per definire regole che siano regole condivise da tutti. Ultimo pericolo è l’isolamento dell’agricoltura. Esso è frutto di un approccio settoriale, di contrapposizione con gli altri settori e della storica separatezza anche fisica tra un rurale esclusivamente agricolo e il resto, spiccatamente urbano. Le organizzazioni agricole hanno fatto leva in passato su questa separazione catalizzando l’enorme peso elettorale delle campagne. La PAC in fin dei conti è figlia di questo aspetto. Il peso elettorale dell’agricoltura è da tempo svanito. L’agricoltura oggi trova forza non più nel numero di agricoltori, ma nei legami sistemici tra agricoltura, agroalimentare, sviluppo rurale, ambiente, territori, paesaggio, alimentazione, cultura, salute. Nella convergenza di interessi e quindi nell’alleanza tra gli agricoltori e i cittadini e con i consumatori. Veniamo alla Carta di Milano. Agriregionieuropa, la rivista scientifica che dirigo, ha organizzato un forum di opinionisti agrari per raccogliere i commenti degli specialisti in materia. Sono emerse posizioni diverse che hanno sottolineato pregi, ma anche limiti quel documento. Qualche settimana prima avevo scritto – e forse sono qui per questo – un editoriale per l’informatore agrario, in cui, soppesando pregi e limiti, esprimevo un giudizio positivo e di sostegno all’iniziativa, perché vedevo intelligentemente evitati i pericoli che vi ho detto. L’Expo passerà presto. Elevato è il rischio che l’attenzione all’agricoltura, che questo enorme evento ha indotto, si attenui, e che la Carta di Milano diventerà l’eredità culturale dell’Expo. Essa costituisce un’opportuna iniziativa per formalizzare l’impegno da parte di tutti, cittadini, istituzioni, imprese, governi per una soluzione al problema della sicurezza alimentare, fondata sulla sostenibilità, sulla lotta agli sprechi, la promozione di stili di vita sani. Quindi condivido pienamente l’invito a firmarla e a farcene sostenitori. Grazie.

CAMILLO GARDINI:
Grazie al professor Sotte. Il ritmo dei nostri interventi prevede una successione di filiera, per cui ora lascio la parola a Federico Vecchioni che, come forse molti di voi sanno, è laureato in scienze agrarie, ha fatto il giovane presidente di Camera di Commercio a Grosseto, ed è diventato qualche anno fa, nel 2004, il più giovane presidente di Confagricoltura a livello nazionale. Dal 2014 è Amministratore Delegato della più famosa azienda agricola italiana, Bonifiche Ferraresi, ed è promotore di un progetto di grandissimo interesse per lo sviluppo delle filiere nel settore agricolo e agroalimentare. A lui chiediamo di raccontarci cosa significa fare l’amministratore delegato di un’azienda di questo tipo, che ha alle spalle un peso di coinvolgimento della finanza nell’attività primaria, nella produzione agricola. Successivamente, vorrei chiederle come il suo lavoro contribuisce a creare quelle economie rurali sostenibili e competitive capaci di far diventare lo sviluppo rurale del nostro Paese e degli altri Paesi del mondo una leva per lo sviluppo di tutto il sistema economico e sociale.

FEDERICO VECCHIONI:
Grazie Camillo. Ringrazio il Meeting dell’invito, ringrazio CDO e saluto il Ministro dell’Agricoltura. Ringrazio anche il professor Sotte per l’introduzione, perché alcuni dei suoi spunti trovano piena attuazione in quello che è stato il progetto di Bonifiche Ferraresi nell’ultimo anno. Dico nell’ultimo anno perché è dal 4 agosto 2014 che mi occupo di questa azienda come amministratore delegato, ma che avevo seguito negli anni precedenti per ragioni professionali, perché non si può non seguire quella che è la più grande impresa agricola italiana sotto profilo dimensionale. Bonifiche ferraresi dal 1857 rappresenta una grandissima porzione di terreno italiano. È diventata un’azienda negli anni di proprietà di Banca d’Italia, che circa un anno fa ha scelto di cedere il pacchetto di maggioranza. E in quella occasione si è realizzata credo una delle prime condizioni che venivano ricordate da chi ha introdotto questa tavola rotonda, e cioè l’agricoltura è uscita dall’isolamento. Com’è uscita? Comunicando se stessa. Un’azienda enorme che cura circa seimila ettari di terra italiana e che fino a un anno fa era di Banca d’Italia. Poteva diventare un’azienda di un fondo sovrano cinese. Il mercato avrebbe potuto consentire quello, perché Bonifiche non è sola la più grande, ma è anche l’unica azienda e impresa agricola quotata in occidente. Ed è anche l’unica impresa quotata privata. Ho ritenuto che ci fossero tutte le condizioni per dire di no a questa opzione e che il nostro Paese fosse maturo per dire che gli agricoltori erano nelle condizioni di comunicare quello che avevano fatto in tanti anni di lavoro, di conoscenze di know-how, di preparazione e di progetto. Questa è un’azienda che ha un valore imprenditoriale, ma è una grande impresa che deve diventare un campione nazionale. Quindi non vuole essere solo una piattaforma produttrice di commodities indifferenziate, come diceva il professor Sotte: vuole essere un campione nazionale di filiera. Fare un’operazione di questo tipo per l’agricoltura era ed è ancora indiscutibilmente grande, quando si superano i 170-180 milioni di euro per un agricoltore si parla di cifre irraggiungibili. Per questo, ha dovuto comunicare il progetto non soltanto agli agricoltori ma anche ad un mondo non agricolo, spiegando che c’erano molte occasioni per investire in agricoltura e una di queste occasioni era rappresentata da Bonifiche Ferraresi. A maggior ragione, se questo mondo era fatto di imprenditori d’istituzioni italiane. Oggi Bonifiche è, e rimarrà grazie a questi azionisti, un’impresa 100% italiana sotto il profilo dell’etichettatura alimentare. È un’impresa che non produrrà soltanto prodotti di massa, che sta anche guardando le ipotesi di non fermarsi a questa dimensione ma vuole guardare ad altre regioni italiane, per diventare così un campione della filiera non più nazionale ma europea. Questo è stato possibile ed è possibile perché le conoscenze nell’agricoltura in Italia ci sono. Quando dico campione europeo di filiera, lo dico perché in Italia non esistono i centomila ettari dell’Ucraina: fare diecimila ettari in Italia su filiera significa fare un soggetto che in Europa non c’è. Perché a oggi, tolte le cooperative francesi o qualche realtà dell’est, nel mondo del privato non esiste. E per i consumatori italiani, per la filiera alimentare italiana, questa rappresenta anche un modo di spiegare come la finanza, il mondo finanziario, gli imprenditori non agricoli si siano avvicinati a questa opzione, abbiano acquisito il 60% di questa impresa; spiegare come un mondo di grandi marchi dell’alimentare italiano, nel recentissimo aumento del capitale del 29 luglio comunicato dal mercato, abbiano scelto di investire su questa azienda con un aumento di capitale che ne finanzierà il piano industriale su filiere, come la zootecnia, la cerealicultura, le officinali, il riso. Noi siamo una delle più grandi aziende del delta del Po, siamo la più grande azienda in termini dimensionali per i cereali, siamo un’azienda che oggi indiscutibilmente ha una sua unicità. Questi imprenditori sono imprenditori che evidentemente sono del settore alimentare, perché hanno riconosciuto il valore, e si sono avvicinati alla consapevolezza di quello che diceva Camillo Gardini, cioè che fare un grande brand dell’alimentare oggi non può prescindere dall’avere un bacino di approvvigionamento nazionale. Il grande marchio italiano dell’alimentare deve avere a monte una forte agricoltura nazionale, un bacino di approvvigionamento nazionale che ne garantisca l’origine e le modalità di produzione. Bonifiche vuole essere, vuole diventare questo. Al forum di Cdo dell’anno scorso ho dialogato con la realtà aziendale del gruppo Farchioni, che già avevo avuto modo di conoscere nella mia carriera professionale. In quel forum parlammo della possibilità di fare iniziative insieme, in una logica razionale sana, tra attori della filiera. Su questo voglio fare una delle ultime mie considerazioni. Noi abbiamo vissuto tanti anni nei confronti del mondo del consumo, in una logica in cui l’agricoltore, l’industriale dell’alimentare, la grande distribuzione, non ragionavano in una logica di integrazione, anzi quasi in una logica di antagonismo e di conflittualità. Aver creato, invece, un sistema tra una grande impresa agricola, quotata, insieme ai consorzi agrari, il gruppo Cremonini, il gruppo Farchioni, significa, da agricoltore, aver spiegato che investire in una realtà di queste dimensioni è una buona occasione per realizzare quelli che sono gli obiettivi che l’agricoltura italiana si attende. Chiudo, con una battuta su ciò che chiedeva adesso Camillo Gardini. Come questa azienda ha una ricaduta significativa sul territorio? Un’azienda che vuole diventare non soltanto grande per produzione ma per commercializzazione, innovazione, diventa una locomotiva e diventa anche una piattaforma su cui si appoggiano tanti piccoli agricoltori. Dialogare con la grande distribuzione e con il mercato richiede dimensioni. Avere un partner, un player, di grandi dimensioni come Bonifiche Ferraresi significa avere un alleato che consente, su tavoli di una certa portata, di non essere considerati troppo piccoli per poter dialogare di mercato e di crescita dimensionale. Quindi, in conclusione, l’alleanza di progetti di territorio sta in un’integrazione sulla filiera, ma anche nella consapevolezza che la sostenibilità economica di cui parlavamo in apertura, la sostenibilità ambientale e la sostenibilità sociale guardando all’occupazione, si ottiene con la forza della polverizzazione delle imprese, delle piccole aziende agricole italiane, suffragata e supportata da dei campioni che ne consolidano la forza sul mercato. Per arrivare sul mercato in maniera significativa, oggi servono le dimensioni, non c’è più la possibilità delle vie di mezzo. Ci saranno le imprese familiari, ben condotte, fortissime, dove le famiglie si impegnano in agricoltura al 100%. E poi ci saranno le grandi imprese. Nel mezzo, lo dico anche da agricoltore, faremo fatica a stare. Quindi o ci aggreghiamo da una parte o ci rafforziamo. La coesistenza di queste due realtà economiche è possibile, con politiche differenziate, con un progetto del Paese. Io credo che avere in Italia una realtà come quella di Bonifiche Ferraresi sia una grande occasione per l’agricoltura, sia dal un punto di vista dei miei investitori, ma sarà anche un modo sano per chi fino a oggi ha investito nel mattone, o nello scambio delle monete. Basta aprire il Sole 24Ore ogni giorno per capire che mettere dei soldi nella terra ben gestita e industrialmente capace di produrre profitto è una buona occasione, non soltanto per l’investitore ma anche per il consumatore italiano.

CAMILLO GARDINI:
Ci conforta avere aziende come Bonifiche Ferraresi, ci conforta avere realtà imprenditoriali che sono in grado di fare da driver per l’innovazione e per lo sviluppo nel settore. Magari il secondo giro di tavolo potrà affrontare anche questo tema. La parola ora a Massimo Goldoni, che nasce a Carpi, vicino Modena, nel regno delle macchine agricole e delle, automobili. Rappresenta l’omonimo gruppo che produce macchine operative e trattori per le varie coltivazioni. È presidente di Unacoma dal giugno del 2004, è diventato il presidente di FederUnacoma dal maggio del 2012. FederUnacoma raccoglie tutte le federazioni delle macchine operative, delle macchine trattrici, anche agricole, del nostro Paese. Vorrei dire soltanto che siamo orgogliosi di avere una rappresentanza di questa associazione, perché queste imprese sono leader a livello mondiale e attraverso la loro attività, la loro esportazione, consentono un’economia profittevole nel nostro Paese, e soprattutto uno sviluppo rurale in tanti Paesi nel mondo. La parola a Massimo Goldoni.

MASSIMO GOLDONI:
Grazie Camillo. Buongiorno a tutti. Voglio cominciare con alcuni dati, tanto per rendere nota una cosa che molti di voi non conoscono non essendo del settore. La produzione di macchine agricole italiane è un’eccellenza del Paese perché è la seconda a livello mondiale, siamo dietro soltanto agli Stati Uniti. Produciamo un valore totale intorno ai dieci miliardi di euro, dopo la crisi, mentre prima arrivavamo fino a dodici-tredici miliardi, il cui 70% è esportato. Siamo fautori di un saldo attivo per la bilancia commerciale del nostro Paese di circa cinque miliardi, sei miliardi di euro. Dico questo perché siamo un tipico caso di eccellenza che però è per addetti ai lavori, non è conosciuta da tutti quanti, e come noi ci sono tanti altri settori. Questi settori devono puntare su un certo tipo di strategia, di investimento, per poter portare avanti questa capacità che nasce da molto lontano. La mia azienda festeggia i novant’anni ed è stata messa in piedi da mio nonno e da suo fratello in una piccola officina a Carpi. Avevano cominciato a lavorare ed, essendo agricoltori, pensavano a cosa poteva servire per migliorare la qualità, la sicurezza, l’efficienza del lavoro. Man mano sono cresciuti, hanno cominciato a fare le falciatrici, le pompe di irrigazione. Nel dopoguerra c’è stato il boom economico e quindi l’azienda si è evoluta ed espansa in modo molto veloce. Siamo stati i pionieri dell’esportazione: cinquant’anni fa esportavamo in Africa, quarant’anni fa esportavamo a Cuba, trent’anni fa esportavamo in Russia, quando era ancora Unione Sovietica. Abbiamo fatto delle attività in Cina, abbiamo esportato in Iran, ci sono circa cinquantamila trattori Goldoni che girano in Iran nelle coltivazioni di pistacchi, di caffè, di cotone. Questo per darvi un esempio di come è l’evoluzione di una storia in un settore come il nostro. Come mai il settore si è sviluppato in modo così forte in Italia? Perché abbiamo dovuto sopperire alla necessità dettata dall’orografia del Paese. Da Bolzano fino a Palermo ci sono una quantità innumerevole di esigenze per l’agricoltura di tutti i tipi, soprattutto specializzata. L’Italia ha una capacità eccezionale di produrre qualità e soprattutto specificità, che dobbiamo tutelare, dobbiamo tracciare, dobbiamo salvaguardare, che è quello per cui ci differenziamo da tutti gli altri. Fate conto che il fatturato dell’Italian sounding, cioè di quello che sembra italiano ma non lo è, è all’incirca cinquanta miliardi di euro l’anno. Se noi fossimo in grado di sviluppare, come si sta facendo negli ultimi tempi in modo consapevole, un lavoro di filiera, un lavoro di rete che mette insieme le istituzioni – di questo ringrazio il Ministro Martina per il lavoro che sta facendo e che stiamo portando avanti a tutti i livello – con tutti gli altri attori della filiera. Nel nostro dna di italiani abbiamo una nostra individualità, che in principio è stata la nostra forza. Ed era l’asset principale sul quale abbiamo lavorato e portato avanti la nostra attività negli anni in cui per certe condizioni andava bene in quel modo. Non è più così e non sarà mai più così. Bisogna fare rete, bisogna fare sistema, bisogna fare gruppo, bisogna riuscire a occupare attività che portino avanti in contemporanea tutto il fronte perché è chiaro che abbiamo bisogno gli uni degli altri. Siamo tutti anelli di una catena e se li sviluppiamo nel modo corretto possiamo diventare davvero una locomotiva, un trattore – perdonatemi la citazione impropria – per tutto il resto. Riusciamo ad avere una grande capacità imprenditoriale, creativa e tecnologica, che porta un’innovazione continua dei nostri prodotti. Come federazione, raggruppiamo trecento aziende nel comparto dei motori, dei trattori, delle macchine operatrici, delle attrezzature, della componentistica, del giardinaggio, delle macchine per il movimento terra e delle bioenergie, che è un altro tema che sta affacciandosi negli ultimi anni e che diventerà, secondo me, un altro asset da mettere accanto a tutti gli altri per integrare il processo produttivo. Queste aziende sono per la maggior parte a natura familiare. Molte sono piccole e medie. Si sono battute fino ad adesso sul mercato e spesso hanno vinto le battaglie. Purtroppo di questi tempi rischiamo di non essere più in grado di essere competitivi per una serie di motivi anche tecnici che non sto qui ad elencarvi, e non riusciamo più ad essere competitivi per l’aggressione dei Paesi emergenti che ovviamente puntano sul fattore costo, e quindi bassi prezzi e in parte anche bassa qualità. Ma questa è una cosa che comincia ad essere meno vera di quello che potremmo sperare. Abbiamo fatto delle missioni molto importanti. Siamo andati a Cuba, dove si stanno aprendo di nuovo le attività, e in quel Paese ci sarebbe tantissimo da fare. Siamo andati in Africa, abbiamo creato delle model farm in Congo e in Mozambico, perché dobbiamo insegnare a queste persone a utilizzare le macchine e dobbiamo essere a fianco degli imprenditori agricoli delle realtà come quella di Federico Vecchioni, che è un’eccellenza che si affaccia sul mondo agricolo, per dare gli strumenti per poter competere nel modo migliore allo sviluppo di questo Paese. Lo spazio c’è. Ma dobbiamo convincerci noi e avere un lavoro di gruppo da portare avanti per riuscire a fare il passo in più verso quel successo che ci manca. Purtroppo, e concludo, rischiamo che se questo non viene fatto, e anche molto velocemente, diventeremo terreno di conquista e shopping da parte dei player dei Paesi emergenti che vengono qui a comprare in saldo. Perché noi non ce la facciamo più, per una serie di motivi legati alla crisi del 2008 che considero un vero cambiamento epocale. Questo ci ha messo purtroppo in difficoltà. Se riusciamo a fare un nucleo italiano per portare avanti questi discorsi, potremo competere a testa alta, e credo con successo, su tutti i mercati. Altrimenti rischiamo di aprire le porte ai vari imprenditori, investitori cinesi, indiani, coreani, russi. I mercati sono quelli, il mercato italiano e quello europeo si sta riducendo sempre di più. Dobbiamo presidiarlo ma soprattutto dobbiamo essere in grado di andare sugli altri mercati.

CAMILLO GARDINI:
Grazie. Confidiamo che incontri come questi possano favorire queste reti che tengono le nostre imprese salde legate alla nostra economia. Sono contento ora di dare la parola a Stefano Berni, conosciuto e amico del Meeting da lunga data: Direttore della Federazione Provinciale Coldiretti di Padova; deputato nel Parlamento Italiano; Direttore Generale dell’Associazione Nazionale Viticoltori. Dal 1998, è Direttore Generale del Consorzio per la valorizzazione e la tutela del Grana Padano e anche Presidente del Consorzio dell’Aceto Balsamico. Un uomo impegnato nella valorizzazione di economie rurali profittevoli e competitive. Il Grana e l’ Aceto Balsamico sono due grandissimi prodotti che garantiscono reddito ai produttori e vengono conosciuti e sviluppati in tutto il mondo. La parola a Stefano Berni.

STEFANO BERNI:
Grazie a tutti. A te, Camillo, per l’invito al Meeting, al Ministro e ovviamente a tutti quelli che sono in sala. Volevo meglio argomentare cosa va inteso per sostenibilità, sviluppo e sostenibilità, perché altrimenti a volte si può correre il rischio di ritenere la sostenibilità esclusivamente come una tutela dell’ambiente, un rispetto del territorio e delle sue vocazioni. Per sostenibilità, invece, a mio avviso, occorre intendere la possibilità che le aziende agricole e le imprese, prevalentemente familiari, che presidiano il territorio, debbano avere reddito adeguato per potere continuare a sviluppare la propria attività d’impresa. C’è sostenibilità anche se le imprese riescono ad avere reddito anzi direi che forse è la prima delle sostenibilità. Noi abbiamo visto la Valtellina quando non c’era sostenibilità. Le aziende agricole hanno mollato la Valtellina e la Valtellina è venuta a valle, è venuta a terra perché non c’era più presidio del territorio. Un esempio neanche tanto lontano, che da lombardo ricordo bene. È un esempio eclatante per mostrare che la sostenibilità deve essere vista anche come presidio da parte dell’impresa zootecnica, dell’impresa agricola in generale, dell’impresa familiare sul territorio. Chi mi ha preceduto, a cominciare da Vecchioni, ha sottolineato l’esigenza dell’aggregazione e anch’io credo di poter presentare un esempio: quello del Grana Padano, un’aggregazione che ha dato e sta dando dei risultati. Vi do qualche numero: attualmente ci sono centotrentasei caseifici su un territorio che comprende la Lombardia, il Veneto, il Trentino e un pezzo del Piemonte, più l’emiliana Piacenza. Il Consorzio ha duecento soci, perché oltre ai caseifici ci sono anche gli stagionatori e i confezionatori. Le stalle del circuito Grana Padano, il cui latte va al Grana Padano, sono quattromilasettecento; nel 2014 abbiamo prodotto quattromilioni e ottocentosessantamila forme, di cui quattromilioni e seicentocinquantamila sono diventate Grana Padano. In ogni forma ci sono cinquecento litri di latte; in un chilo di formaggio ci sono quindici litri di latte. Il sistema Grana Padano trasforma due milioni e quattrocentotrentamila tonnellate di latte in un anno, circa il 23% di tutto il latte italiano, e circa il 50% del latte della zona DOP (voi sapete che la Pianura Padana è la zona più lattiera d’Italia). Ci sono quarantamila persone, coinvolte direttamente e indirettamente, che lavorano attorno al sistema Grana Padano. Il latte lavorato dai caseifici supera tremila tonnellate all’anno, cioè si avvicina al 28% di tutto il latte prodotto in Italia. Il 35% di questo latte viene esportato attraverso il Grana Padano, perché vengono esportate un milione e seicentomila forme. Questo ne fa il prodotto DOP in termini quantitativi più consumato sia in Italia che nel mondo. DOP vuol dire Europa, perciò quando ci confrontiamo non ci confrontiamo solo con i colleghi italiani degli altri formaggi o dei prosciutti, ci confrontiamo anche con i colleghi francesi, spagnoli, dei Paesi, insomma, dove le DOP sono importanti. E quindi è il prodotto DOP più consumato al mondo. La produzione lorda vendibile oggi, cioè, proiettata ad oggi, è di circa 1,4 miliardi di euro, legata alle stalle che fanno Grana Padano, che praticamente diventano 2,8 miliardi di euro al consumo. L’attività del consorzio è un’aggregazione delle aziende che serve per fare tutela della DOP, del consumatore, vigilanza sul rispetto delle regole che ci si è dati per produrre Grana Padano e per assicurare il consumatore che quando decide di consumare Grana Padano, ci sia davvero del Grana Padano. Il consorzio si occupa anche della promozione, l’attività promozionale, divulgativa, informativa del consumatore che facciamo in Italia e nel mondo, perché i numeri che dicevo prima si raggiungono grazie alla dinamicità degli associati supportati da adeguate risorse. Non si diventa primi al mondo se non si fanno ingenti investimenti in attività promozionale fuori dall’Italia. Il volume d’investimento del Consorzio Grana Padano all’estero in attività promozionale è di circa dieci milioni di euro, almeno quest’anno. Poi, è importante la gestione del piano produttivo, e cioè la possibilità di produrre secondo quello che dice il mercato, perché uno dei problemi dei sistemi aggregati in Italia, quindi non solo dei Consorzi di tutela, è non avere una regola nella produzione: cioè, hai tante aziende che producono lo stesso e se non c’è un minimo orientamento può succedere, come in passato è successo, un corto circuito. Faccio un esempio: la Coca-Cola ha diversi stabilimenti in Italia, ma ogni stabilimento sa quante lattine deve fare uscire, perché se ognuno liberamente senza regole producesse le lattine che vuole succederebbe un eccesso di stock, di prodotto, che danneggerebbe la situazione e il mercato. Per un prodotto DOP, per cui tante aziende producono la stessa cosa, occorre una regolamentazione delle produzioni in base a quello che si prevede possa essere il consumo nazionale e mondiale, soprattutto per prodotti a lunga stagionatura, che devi mettere un anno o anche più in magazzino. Parlo non solo del Grana Padano o del Parmigiano Reggiano, ma del Prosciutto di Parma, di San Daniele, del Pecorino Romano: tutti quei prodotti che hanno la necessità di avere degli stock per la stagionatura obbligata. Prima Camillo mi chiedeva se questa attività valorizzi il territorio. Io credo di sì. Negli ultimi dieci anni la rimuneratività delle cooperative, quindi la rimuneratività del latte che era Grana Padano, è stata mediamente del 10% superiore rispetto al prezzo cosiddetto di riferimento del latte. Ma soprattutto lo strumento delle DOP è uno degli elementi che consente in Italia di avere il latte più caro al mondo. Molto buono, probabilmente non il più buono al mondo, certamente il più caro al mondo. Questo perché c’è una valorizzazione, una organizzazione di sistema che consente di avere un differenziale medio, che si sta riducendo dopo l’abbandono delle quote latte, con il prezzo del latte pagato alla stalla tedesca o francese, negli ultima anni, di circa il 25%. Poi, se dà lavoro e coinvolge quarantamila persone, ovviamente è uno strumento di valorizzazione del territorio, conferisce valore alle aziende casearie, perché ci sono gli interessi degli investitori esteri, che recentemente cercano di entrare nella gestione di caseifici. Abbiamo però alcuni problemi, e chiudo con questi, perché ci sono cose positive da spingere ma anche quelle da migliorare che vanno raccontate con serietà. Il nostro grande problema, e lo diceva il Professore prima, è la distinzione. Visto che costiamo di più, abbiamo la necessità di poterci distinguere, e di avere quindi un’alleanza con il consumatore. Distinguerci dai similari, i quali sotto mentite spoglie si presentano sulla tavola del consumatore, cercando di assomigliarci. Perché, diceva prima Goldoni, una volta i produttori di similare producevano scarsa qualità, ma questa scarsa qualità si sta sempre più avvicinando alla nostra qualità. Abbiamo bisogno di poterci distinguere. Qui devo ringraziare il Ministro delle Politiche Agricole Martina, perché quello che sta avvenendo è un segnale importante in questa direzione. Il protocollo d’intesa che ha firmato con la grande distribuzione a Expo, per la valorizzazione, la distinzione sugli scaffali nella grande distribuzione dei prodotti certificati, dei prodotti DOP e IGP, rispetto ai prodotti similari che li copiano. Il 50% dei consumatori – da uno studio dell’Università del Piemonte Orientale – che consuma un prodotto similare al Grana Padano, ritiene che quel prodotto non sia un prodotto similare quasi sempre proveniente dall’est, perché non c’è scritto e non c’è l’obbligo di metterlo in etichetta. Il 50% dei consumatori che consumano questi similari ritengono che si tratti di seconde linee di Grana Padano più convenienti, dove non viene apposto il marchio, per un fatto commerciale. Non è così. Quindi la trasparenza nei confronti del consumatore, che è necessaria perché è un valore come la lealtà, passa attraverso la distinzione. Questa è una delle grandi sfide che abbiamo verso il futuro come prodotti di qualità italiana così apprezzati nel mondo.

CAMILLO GARDINI:
Siamo fieri di avere una realtà come il Grana Padano e siamo anche grati a Stefano Berni, alla dirigenza del Consorzio, per il lavoro fatto nella programmazione della produzione, nell’innovazione di prodotto, di processo. Un grande esempio di economia rurale profittevole, capace di essere driver per tutto il settore. Siamo grati della presenza del Ministro Martina. Il Ministro è diplomato all’Istituto Tecnico Agrario di Bergamo, e lo sottolineiamo, perché ha origini e grande affezioni per il settore. È stato nominato consigliere regionale per la Regione Lombardia nel 2010, è stato eletto nel maggio del 2013 sottosegretario nel governo Letta, nello stesso mese gli è stata conferita la delega a presiedere la commissione per il coordinamento di Expo. Il 22 febbraio del 2014 è stato di nuovo nominato come Ministro delle Politiche Agricole nel governo Renzi. A lui la parola.

MAURIZIO MARTINA:
Grazie dell’invito, a tutti voi. Torno volentieri dopo l’anno scorso. Ci torno con la consapevolezza del lavoro enorme che tutti noi abbiamo fatto su Expo, non per la responsabilità che ho potuto esercitare io, ma perché tutti insieme, abbiamo scommesso su un’occasione unica per il Paese, anche quando questa occasione sembrava scivolare via, essere molto complicata e attraversata da tanti problemi. Accanto a quei problemi c’è stata tanta gente che ha tenuto il punto, che ci ha creduto, che ha immaginato che un evento di per sé non fa la differenza per un Paese ma può contribuire a risvegliare quel Paese, a dare un segnale. Expo sta facendo questo. Vedere ad agosto questa grande partecipazione all’evento, quando tutti immaginavano che agosto sarebbe stato il mese della calma piatta, credo possa dare un insegnamento che il Paese deve prendere a piene mani. Quando proviamo a credere in noi stessi, senza edulcorare la realtà ma con la fatica e la passione di chi pensa che l’Italia abbia un futuro, dentro queste scelte e questo progetto c’è una traccia di futuro per il nostro Paese. C’è nella dimensione di un rapporto forte tra un grande evento internazionale giocato su un tema cruciale come questo. È stato detto bene nell’introduzione, e ringrazio per questo: non è un fatto banale che proprio l’Italia, tempo fa, intelligentemente giocò il tema Nutrire il pianeta, energia per la vita in quella competizione internazionale per accreditarsi e accaparrarsi l’Esposizione Universale, cogliendo la valenza politica del tema. Sfida alimentare globale, il grande tema di un rapporto nuovo tra modelli alimentari, nutrizione, sostenibilità, esperienze agricole. Non so se riusciamo noi tutti i giorni a trasferire la potenza politica, istituzionale, che dietro a questo tema si nasconde e che rileva una forza incredibile delle agricolture italiane dentro questo scenario. Non lo so: ogni giorno mi domando se facciamo abbastanza per far capire quanto in realtà il modello agricolo italiano con tutta la sua complessità e anche i suoi limiti abbia in sé delle tracce di futuro formidabile, e quanto Expo in realtà ci stia insegnando. Abbiamo il mondo in casa, e un anno fa proprio qui scommettevo sull’occasione di Expo. Oggi posso dirvi: è un’occasione strepitosa per noi, per capire tante cose. Intanto per capire quello che diceva Goldoni prima, che la qualità del modello italiano noi l’abbiamo, la confermiamo, la rafforziamo, ma non è una nostra prerogativa. Nello scenario globalizzato che ormai abbiamo in casa, la qualità è un grande terreno di competizione tra diversi modelli. Una delle cose più affascinanti, più sfidanti, che misuriamo a Expo è capire che ci sono Paesi che consideravamo emergenti che sono già emersi da tempo, e spesso corrono anche più di noi, e hanno l’ambizione di giocare una competizione con noi proprio sul terreno della qualità. Non è che noi siamo quelli della qualità e loro fanno i Paesi di serie B. Giocano esattamente questa sfida, giocano la sfida tecnologica della ricerca e della innovazione. Sapere che il Brasile è il Paese che oggi in assoluto più investe sul terreno della ricerca agricola, può essere una novità per alcuni, ma è una delle rappresentazioni che Expo ci ha consegnato. Conoscere la forza con cui tante economie emergenti del continente africano stanno investendo sul versante agricolo con la consapevolezza che guardano al fronte agricolo-agroalimentare come un’occasione di sviluppo, e non domandano a noi sussidi. Non domandano politiche di assistenze ma domandano competitività, mercato, organizzazione. Quindi, abbiamo davanti una storia da raccontare che abbiamo il dovere di portare anche oltre il 31 ottobre. Questo è il grande tema che abbiamo oggi e guardiamo con soddisfazione, ai numeri, alla riuscita dell’evento in sé, la grande sfida di far vivere all’Italia un’eredità che vada ben oltre i sei mesi. Questo è il compito che ci stiamo dando dopo aver avviato la macchina e averla messa in carreggiata, parlando di Expo. Le considerazioni fatte fin qui, le condivido tutte. Dal mio punto di vista ci sono sempre i soliti fattori su cui lavorare, che avevamo già identificato anche in conversazioni precedenti. Intanto un punto: credo fortemente che nel tempo della globalizzazione il terreno della distintività è quello su cui dobbiamo giocare tutto quello che possiamo. E non è un elemento di poco conto. Essere distintivi in un tempo come questo, nella capacità di posizionarsi sulla scala globale, è il primo grande tema che abbiamo e questa distintività non dura per sempre. Per essere brutali: non è che visto che abbiamo la grande esperienza del Grana Padano, che per fortuna ci fa riconoscere in giro per il mondo come soggetti forti del sistema, noi possiamo immaginare che si possa tirare avanti sempre allo stesso modo. Giustamente Berni diceva che per fortuna ce l’abbiamo, ma guai a noi se pensassimo di dormire sugli allori. Grana Padano vive la competizione tutti i giorni e sa benissimo che la competizione è serrata. Lavorare sull’elemento della distintività è ancora una partita da giocare tutta. Certamente bisogna far leva su esperienze come le DOP, ma poi, insieme alle DOP, sapere innovare la capacità di essere distintivi nel mondo. Intanto vorrei dire che in questi quindici mesi di lavoro, un po’ di lavoro per riorganizzare gli attori della partita, farli avvicinare, farli lavorare insieme, l’abbiamo promosso. Abbiamo cercato di sperimentare. Continuo a pensare che una leva fondamentale sia quella organizzativa. Abbiamo un modello che in tre assi fondamentali – produttori, trasformatori, distributori – ancora fa poco. Io non sono soddisfatto di quello che abbiamo fatto fin qui. Perché abbiamo seminato delle tracce di lavoro importanti. Ma sono dei tasselli, è ancora tutto insufficiente rispetto alla questione fondamentale che abbiamo, cioè quella di far lavorare questi tre grandi attori di più e meglio insieme. Se non lavorano insieme perdono tutti. Questo è il punto. Il mio punto di osservazione, per il lavoro che faccio, è innanzitutto quello del produttore, ma so benissimo che difendo i produttori se riorganizzo una dinamica virtuosa tra produttori-trasformatori-distributori. So benissimo che i produttori da solo rischiano di non farcela, se non scatta un meccanismo nuovo. Per altro, io sono anche convinto che non dobbiamo per forza scoprire l’acqua calda, abbiamo in giro esperienze straordinarie di interazione tra produzione trasformazione e distribuzione, che potrebbero essere utilizzate fino in fondo come buone pratiche per raccontare che è possibile vincere questa sfida. Dentro il tempo della crisi che abbiamo attraversato riflettere sulla contemporaneità e sulla modernità di alcuni strumenti che qualcuno fino a prima di questa crisi pensava fossero vecchi. Pensate ad esempio a una cooperazione. La cooperazione è uno strumento formidabile e moderno! Riscoprire la questione cooperativa dentro la vicenda agricola e agroalimentare italiana, per me è una grande sfida di futuro, non di passato. Non è solo raccontare cosa hanno fatto le cooperative agricole in questo Paese in tanti anni, ma è anche giocarsi un elemento di modernità, a proposito di come collochiamo il nostro sistema agricolo dentro la nuova scala internazionale. Lì c’è un fattore di modernità su cui bisogna lavorare di più. Alcune crisi di alcune filiere, alcuni momenti delicati che stiamo vivendo, tanto nel latte quanto nella carne – penso alla zootecnia in particolare ma non solo – rivelano il fatto che se lavori di più e meglio su questi strumenti reggi di più l’urto di alcuni momenti complicati. Poi sono d’accordo con Vecchioni: penso che una delle sfide che abbiamo davanti è far vivere, lo diceva anche il Professor Sotte prima, la complessità del modello di impresa che si può radicare ulteriormente nell’esperienza italiana, sapendo che non c’è il bianco e il nero e occorre scegliere tra i due. È nella pluralità di esperienze di impresa che tu fai vivere un modello come questo. Non possiamo discutere nell’anno di grazia 2015 del piccolo e brutto, o del contrario. Io credo che viva la nostra esperienza in un rapporto virtuoso tra piccolo e grande. Il tema è come evolve questo rapporto, quanto il piccolo riesce a vivere un’esperienza di relazione con una grande e quanto anche il sistema della grande impresa possa consolidarsi in un rapporto fecondo, positivo, con il sistema della piccola. Non c’è modello italiano se noi facciamo venire meno questa peculiarità di intrecci. Bisogna reinterpretarlo. Torna la questione organizzativa che richiamavo prima: come noi innoviamo in tante filiere, settori, esperienze questa capacità di armonizzare gli strumenti operativi di questi fatti di impresa. Perché poi qui il tema, a proposito del nostro colloquio, è fare impresa: tornare a mettere al centro della riflessione il fatto che l’esperienza personale, umana, che vive una impresa, di per sé è la premessa per lasciare poi qualcosa oltre te stesso. In questi mesi ho incontrato, tanto al nord quanto al sud, prima di tutto esperienze personali che hanno fatto impresa. Ed è da lì che sono venute fuori le idee più intelligenti. Mi vengono in mente i fratelli Campisi, due ragazzi trentenni siciliani, figli di una famiglia che da sempre fa itticoltura. Sono loro che ci hanno spronato a inventare il credito di imposta sulle piccole imprese agricole. Sono loro che ci hanno detto da Pachino: “Noi abbiamo l’impresa vicino al mare, rimarremo qui per sempre e mi sono inventato la possibilità di lavorare con la rete, con internet: ho bisogno di un sostegno concreto per sviluppare sempre di più questa operazione”. Da Pachino, mandano in giro per il mondo le loro produzioni. Fatturano, fanno impresa. Piuttosto che altre esperienze di gente, in particolare giovani, che credono nell’esperienza agricola, non nella versione bucolica e romantica che talvolta viene rappresentata. Fare oggi agricoltura significa fare fatica. Dopo di che, quello che bisogna rivendicare con forza è che fare una esperienza di impresa in agricoltura in questo Paese può essere una straordinaria opportunità. E chi ci mette innovazione, sapere, voglia di fare, può riuscirci, può essere soddisfatto, può generare un’esperienza umana, può produrre un impresa e metterla al servizio del territorio. Ma guai a noi se la versione fosse quella di chi dice che non si fatica più a fare l’agricoltore. Credo che abbiamo veramente un’occasione: ereditare l’esperienza di questi sei mesi di Expo per costruire un modello entro il quale riconoscere la pluralità dell’esperienza agricola italiana. Mi sono chiari i punti di difficoltà che abbiamo nell’organizzazione, nella difesa del reddito, nella riorganizzazione di alcune filiere fondamentali. Però, penso anche all’occasione, al fatto che abbiamo fatto un record straordinario a proposito di export agroalimentare nei primi sei mesi di quest’anno, toccando i diciotto miliardi di euro. Non è un fatto banale. Vedo le cose che accadono, capisco che ci sono delle questioni delicatissime da presidiare. Stiamo cercando di farlo, ma capisco anche che possiamo avere delle traiettorie di sviluppo tutt’altro che banali. Con l’esperienza di Expo, vorrei riscoprire la capacità di un sistema, quello italiano, che ha dentro di sé, per le persone che interpretano questa esperienza, dei cromosomi fondamentali per reinterpretare il tempo in cui stiamo. È interessante guardare con quale curiosità i centoquaranta Paesi che partecipano ad Expo guardino al modello italiano. È la più bella esperienza che uno può vivere. Capire quanto Cina, Giappone, Angola, Stati Uniti, Brasile, Argentina, sebbene abbiano scale di valori completamente diverse da noi, vengono qui con la consapevolezza che possono imparare un’esperienza molto particolare e unica. Io questa consapevolezza vorrei averla, e vorrei che fosse un patrimonio condiviso. La scommessa è non far terminare questo lavoro con il 31 ottobre. Anzi, se volete, aprire un nuovo cantiere dal primo di novembre. Lavorare di più sull’esperienza agricola italiana dal primo novembre e innestare su quest’occasione unica che abbiamo avuto una politica di medio-lungo periodo. Perché l’altra questione è questa. Un Paese non può costruire un nuovo asse strategico su cui investire se non ha il tempo per lavorare su linee di sviluppo di medio periodo. La questione di come un Paese ha il tempo per se stesso, per interpretare le nuove linee strategiche di sviluppo su cui impostare il suo modello dentro questo tempo, è centrale. Il tema della stabilità politica di un Paese per interpretare queste sfide non è un accessorio della questione anche agricola che abbiamo qui. Pensiamo di poter fare strategia cambiando sette governi in sette anni? Forse una riflessione anche da questo punto di vista merita di essere fatta, perché quello che stiamo vedendo in Expo è anche questo: i Paesi più forti sono quelli che hanno lavorato per tempo su alcune strategie e hanno avuto la capacità di essere continuativi, di scommettere su un piano, su un lavoro ordinato. Questa per me è un’esperienza che Expo fotografa in tutta la sua straordinarietà.

CAMILLO GARDINI:
Ringraziamo il Ministro Martina. Vorrei proporre ai nostri relatori un giro da un minuto ciascuno per dire qual è il compito di tutti i partecipanti, di settore e non di settore, per nutrire il pianeta. La parola a Franco Sotte.

FRANCO SOTTE:
Se riprendo quella frase del Papa a CL, cercare i lontani delle periferie, io ritengo che nella politica agricola europea, non abbia nessun senso pagare per tutti gli ettari lo stesso sostegno. Abbiamo fatto uno studio: più rurale è un comune, meno soldi prende dalla politica agricola e le periferie sono le aree interne, le aree da cui non si trova un giovane facilmente, perché se ne vanno via. Qui ci vuole una nuova politica agricola che discrimini anche sul piano dei territori: c’è qualcuno in questi tempi che ha coltivato i contributi, più che coltivare il profitto e c’è qualcun altro che ha dovuto abbandonare l’agricoltura in aree particolarmente preziose dal punto di vista della sostenibilità, mettendo a rischio la sostenibilità complessiva.

FEDERICO VECCHIONI:
Noi intendiamo proseguire il cammino di promozione e costruzione di una grande piattaforma di innovazione e conoscenza. Lo dobbiamo fare in primis con i giovani a Jolanda di Savoia, dove abbiamo l’estensione più grande della provincia di Ferrara, e realizzeremo un grande campus per i giovani non solo laureati in agricoltura, ma per tutti gli esperti di settore. Questa è la nostra risposta concreta su come proseguire dopo il 31 ottobre. Bonifiche Ferraresi si vuole rendere disponibile fin da oggi perché dopo il 31 ottobre questo cammino di conoscenza, di innovazione, di scambio con tutti i Paesi del pianeta possa proseguire. Lo vogliamo fare in un comune piccolo come Jolanda, perché un’azienda così grande crea ricadute nelle strutture, nelle infrastrutture, nelle persone. Noi stiamo facendo reti irrigue a Cortona, che irrigheranno bonifiche, ma anche altre aziende. Stiamo facendo interventi che riguardano le strade, le scuole. Perché quando una grande azienda investe sul territorio, il progetto è agricolo ma poi ha anche una forte ricaduta sociale. In ultimo, tutto il cammino di innovazione, di conoscenza e di tecnologia, coinvolge i grandi centri di sperimentazione italiana, a cominciare dal CRA. Fare il passaporto molecolare per il riso, piuttosto che georeferenziazione, richiede una grande impresa ma poi essa la mette a disposizione di un tessuto produttivo molto più piccolo che evidentemente avrebbe avuto difficoltà a rendersi disponibile in iniziative di questo tipo. Quindi, il modo in cui poter proseguire dopo il 31 ottobre esiste, e il modo in cui coinvolgere le nuove generazioni in un modo non propagandistico in agricoltura c’è, perché oggi intraprendere in questo settore lungo tutta la filiera richiede competenza e preparazione, anche in grado di garantire professionalmente le giuste soddisfazioni di chi come noi ha creduto in questo settore, e ha portato molti investitori non agricoli a crederci.

MASSIMO GOLDONI:
Io vorrei concludere con una serie di flash, collegandomi a quello che diceva Federico, perché credo che i driver principali sui quali lavorare siano innanzitutto ricerca e innovazione, possibilmente con una integrazione maggiore tra quelle che sono le attività reali delle aziende, quindi la ricerca e lo sviluppo di un prodotto concreto, e quello che avviene negli ambiti di ricerca. L’altro flash è sui giovani in agricoltura: io concordo pienamente con il Ministro Martina quando dice che non è una cosa semplice, non è una cosa che fa bello far l’agricoltore, non è che non si faccia fatica. Però, è uno dei mestieri con le soddisfazioni migliori per quelle che sono le prospettive future, e soprattutto c’è un dato di fatto che è anticiclico per definizione, e quindi non è soggetto alle crisi di aspetti finanziari piuttosto che di altra natura. L’ultima cosa: noi punteremo sulla internazionalizzazione, quello su cui noi abbiamo spinto negli ultimi anni, e punteremo a fare sempre di più un lavoro ponte verso continenti come l’Africa, l’Asia, l’America Latina, dove credo ci siano grandissime prospettive per le nostre capacità e le nostre realtà. Una raccomandazione e una sollecitazione al Ministro a togliere un po’ di burocrazia, a fare un po’ di snellimento a quello che è la nostra realtà quotidiana con la quale ci scontriamo, e tra l’altro in agricoltura c’è il PSR, che credo in Italia meriterebbe ben più veloce applicazione, ma ci sono tutta una serie di problemi che non stiamo ad affrontare. Spero che riusciremo a lavorarci tutti insieme molto meglio.

STEFANO BERNI:
Bisogna cercare di organizzarci meglio. È una esigenza che riduce gli sprechi, riduce i costi e così ci si da una mano vicendevolmente. Occorre pensarsi un po’ di più come sistema agli altri. Noi del Grana Padano abbiamo cercato di farlo: io devo ringraziare sempre i miei soci che, da terremotati nel 2012, hanno deciso di pensare a chi era terremotato più di loro, raccogliendo e distribuendo oltre due milioni di euro per i comuni più colpiti. Adesso, ad Expo stiamo facendo due forme tutti i giorni; quando questo formaggio verrà pronto, le forme verranno vendute e il ricavato andrà all’ospedale pediatrico di Haiti che abbiamo già aiutato quando ci fu il terremoto. Questo ovviamente è un ringraziamento che io faccio ai miei soci, perché da parte mia, da direttore, faccio queste cose ma coi soldi loro, non lo faccio con i soldi miei. E infine coraggio e umiltà. Il coraggio di importare i modelli vincenti, magari quelli che vanno un po’ meglio dei nostri, e esportare i modelli vincenti, senza avere il timore e la gelosia, perché l’informazione è una cosa importante e aiuta tutti. L’umiltà di importare le cose che gli altri fanno un pochino meglio di noi. In questo modo si contribuisce a nutrire il pianeta.

MAURIZIO MARTINA:
Sono affezionato a questa foto che tanti di voi avranno magari già visto: questo è il trattore e il mappamondo che Alcide Cervi ad un certo punto compra per sé e per la propria famiglia, dicendo ai suoi figli e anche ai suoi vicini di casa che avevano un’azienda come lui: “Lo compro io e poi se vi serve lo presto anche a voi”. Io continuo a pensare che dentro a questa immagine ci sia il futuro del Paese, la capacità di un Paese come il nostro di investire sull’innovazione, guardare al mondo, stare con i piedi per terra, essere disponibili a condividere, a mettere in comune alcune scelte, proprio con l’ambizione e la sensibilità che richiamava anche Berni adesso. Se noi riscopriamo il valore di queste scelte dentro il tempo nuovo in cui stiamo, trovando il nuovo trattore, e trovando il nuovo mappamondo, noi abbiamo delle cose da fare e abbiamo un futuro da tracciare per tanta gente che guarda alla esperienza agricola e agroalimentare italiana con tutta la consapevolezza che dentro questa esperienza c’è un pezzo, non solo di economia del futuro di questo Paese, ma di società, un pezzo di nuova società. Un modo nuovo di essere cittadini di questo Paese. Io ci credo, ho visto esperienze straordinarie di ragazzi che in un tempo complicato ci hanno creduto perché si sono visti dentro questa esperienza, si sono riconosciuti, hanno trovato soddisfazione, hanno faticato, ma hanno anche trovato le risposte alle loro domande. Io credo a questo. I problemi non mancheranno, ma penso che questo Paese abbia già avuto problemi negli anni passati ma ne è sempre uscito. Sono convinto che se lavoriamo con questo spirito sull’esperienza agricola italiana, troveremo concretamente una via nuova per dimostrare a noi stessi che il futuro lo costruiamo con le nostre mani.

CAMILLO GARDINI:
Vi invito a visitare la mostra Take care of the seed, nel padiglione A1. Conserva il seme è la testimonianza che la vera diversificazione anche dei prodotti, anche nelle novità, sta nello sguardo, nel guardare la realtà, per cui anche se c’è l’alluvione, se c’è la crisi, se ci sono i competitori che si avvinano alle nostre qualità, la nostra capacità di diversificare consiste nel guardare in modo positivo e salvare il vero valore. Innovare per avere uno sguardo positivo sulla realtà.
Ringrazio tutti i partecipanti e i relatori.

Data

21 Agosto 2015

Ora

15:00

Edizione

2015

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri