POLITICA E ECONOMIA: ESISTE UN RAPPORTO VIRTUOSO?

Politica e economia: esiste un rapporto virtuoso?

Partecipano: Raffaele Bonanni, Segretario Generale CISL; Aldo Bonomi, Direttore di Aaster; Graziano Delrio, Ministro degli Affari Regionali, le Autonomie e lo Sport; Domenico Lombardi, Direttore del Global Economy Department presso il Centre for International Governance Innovation (CIGI), Canada; Corrado Passera, Manager e Politico Italiano. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

POLITICA E ECONOMIA: ESISTE UN RAPPORTO VIRTUOSO?
Ore: 19.00 Sala Neri
Partecipano: Raffaele Bonanni, Segretario Generale CISL; Aldo Bonomi, Direttore di Aaster; Graziano Delrio, Ministro degli Affari Regionali, le Autonomie e lo Sport; Domenico Lombardi, Direttore del Global Economy Department presso il Centre for International Governance Innovation (CIGI), Canada; Corrado Passera, Manager e Politico Italiano. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

BERNHARD SCHOLZ:
Buonasera a tutti, benvenuti a questo incontro su un tema storico di grande attualità, il rapporto fra politica ed economia. Penso che in un tempo in cui la discussione politica, la discussione sull’economia, sul futuro di un Paese, tende ad essere ridotta a due o tre schemi, a personalismi, è importante un momento di riflessione sulle premesse di una politica buona, di un’economia sostenibile e sul rapporto fra queste due sfere, senza che ci siano subito delle riduzioni della complessità inevitabile in queste tematiche. Io saluto il Ministro degli Affari Regionali e delle Autonomie, Graziano Delrio e do il benvenuto a Raffaele Bonanni, Segretario Generale della CISL, ad Aldo Bonomi, Direttore di Aaster, a Domenico Lombardi, Direttore del Global Economy Department presso il Centre for International Governance Innovation in Canada e a Corrado Passera, manager e politico italiano. Da sempre, ma soprattutto dall’inizio dell’industrializzazione, il rapporto tra economia e politica, fra mercato e Stato, è stato caratterizzato da una forte dialettica che aveva come poli estremi il capitalismo selvaggio, da una parte, e uno statalismo fino al totalitarismo, dall’altra. Ma anche del concetto di libero mercato c’erano idee diverse, fra un polo che possiamo pensare rappresentato da Hayek, la scuola austriaca, da una parte, che faceva leva soprattutto sulla stabilità monetaria, con un mercato molto, molto libero, e la scuola keynesiana, che chiedeva forti interventi soprattutto in tempi di recessione. La domanda cruciale è sempre la stessa: che cosa deve fare la politica, come deve intervenire, per quanto deve intervenire, per quanto dobbiamo lasciare i diversi player del mercato alla loro libertà? Una specie di terza via è stata rappresentata dall’economia sociale di mercato, anche questa in questo momento in forte cambiamento: concettualmente viene dalla Germania, ma in Italia è stata recepita da Einaudi, come sapete meglio di me. Il dibattito su questi temi si è fortemente accelerato anche a livello internazionale con l’inizio della crisi, finanziaria prima, economica dopo, nel 2007, 2008, e non solo la sinistra ma anche altri nello spettro politico hanno cominciato a chiedere maggiore regolamentazione soprattutto dei mercati finanziari per evitare speculazioni pericolose con effetti devastanti per l’economia reale. La proibizione della vendita allo scoperto e la famosa Tobin Tax sono solo le leve più famose sulle quali si è discusso. In Europa, questo problema ha avuto un’accentuazione molto particolare in relazione al debito pubblico di molti Stati soprattutto dell’eurozona. Il debito pubblico, sul quale bisognerebbe molto riflettere, soprattutto riguardo alle cause che lo hanno creato, ha esposto gli Stati ai mercati finanziari, cosa che nessuno si augura, soprattutto in queste dimensioni, ma è un dato di fatto che chi fa un debito si espone ai mercati finanziari. Di fatto, gli Stati hanno dovuto rendersi conto della relativizzazione, per essere eufemistico, della loro sovranità. Il fatto che il Governo italiano abbia ricevuto una lettera dalla Banca Centrale Europea è solo il sintomi più conosciuto del fatto che uno Stato deve tener conto di criteri che prima, nella sua sovranità, forse lo potevano interessare di meno, soprattutto quando cercava di compensare questo debito stampando soldi. Infatti, in vari modi sono stati ricercati rimedi, dallo stampare soldi fino ad un’austerità quasi totale, a seconda delle scuole: chi preferiva la politica e la filosofia della Bundesbank tedesca, chi preferiva la filosofia e la politica della FED. E qua di nuovo abbiamo un ampio spettro di discussione su come la politica e le banche centrali devono intervenire. Le discussioni su questi temi evidentemente possono essere infinite, vi ho accennato solo per introdurre il nostro incontro che comincerei con una domanda ad Aldo Bonomi, osservatore acuto e riconosciuto del sistema imprenditoriale italiano, soprattutto per la sua capacità di differenziare bene fra i diversi territori, fra i diversi settori. E’ famosa la sua definizione del sistema imprenditoriale italiano come “capitalismo molecolare”: in diverse pubblicazioni, ha diagnosticato una specie di declino di questo sistema che però porterebbe a una nuova ripresa. La mia domanda è: quale è stato il rapporto tra questo vecchio sistema e la politica e quale dovrebbe essere, più virtuosamente, il nuovo rapporto tra questo sistema delle piccole medie imprese, fortemente radicate sul territorio, e la politica?

ALDO BONOMI:
Rispetto al tema e al rapporto tra economia e politica, dico subito che, almeno da vent’anni a questa parte, abbiamo un rapporto unilaterale dell’economia che dà indicazioni alla politica. Per quanto riguarda poi il territorio e il capitalismo molecolare, un economista che io stimo come Claudio Napoleoni diceva che tra economia e politica bisogna mettere in mezzo la società. Questo è il punto vero: in questi venti anni, la dimensione della società non è stata presa in considerazione. Fatta questa premessa, rispondo alla tua domanda. Che cos’è il capitalismo molecolare? Prima di tutto, sono 6 milioni di partite IVA, di questo stiamo parlando, di imprenditori. 6 milioni di imprenditori che stanno nella parte bassa dell’albero del capitalismo. In cima, c’è il capitalismo delle reti. Spero, durante la tornata di discussioni, di poter discutere con uno che questo capitalismo delle reti ben lo conosce, Passera ne è stato un protagonista. Quando dico capitalismo delle reti intendo dire che in cima ci sono le banche, le autostrade, le ferrovie, Telecom. Il vertice del capitalismo italiano, piaccia o non piaccia, è fatto da alcuni grandi gruppi che, attenzione, non sono più gruppi manifatturieri e fordisti: se avessimo discusso di questo vent’anni fa, era chiaro cosa dovevamo mettere in cima. Dovevamo mettere la Fiat, la Pirelli, l’IRI. Quindi, in cima c’è il capitalismo delle reti. Sotto abbiamo, dal mio punto di vista, 4.000 medie imprese che sono l’ossatura del capitalismo italiano, che hanno fatto un po’ di internazionalizzazione, che hanno tenuto sotto in questi anni, e messo al lavoro, anche durante la crisi, 6 milioni di capitalisti molecolari che rimandano alle piccole imprese, artigianato diffuso, che ovviamente sono quelli che hanno prodotto e che abbiamo raccontato come gli artefici dei distretti, ad esempio. Sono partiti dal sottoscala, dalla comunità locale, distretti produttivi, piattaforme produttive: il vero problema è capire ciò che resta di questo capitalismo molecolare. Tu mi hai provocato dicendo che io l’ho raccontato e ne sto raccontando adesso la crisi. Perché la crisi non è solo una crisi economica, sarebbe facile citare il numero di fallimenti delle imprese, delle attività commerciali, delle attività diffuse, in questi ultimi anni di crisi. Come sarebbe facile citare il dato che abbiamo: 3 milioni e mezzo di senza lavoro, e rimando a Bonanni. Questi numeri ci aiutano ma il problema non è qui. Io credo che si stia distruggendo, per dirlo in “sociologhese”, non solo il capitale economico ma anche il capitale sociale. Cioè, quella dimensione di coesione per cui c’era la voglia di fare impresa e si andava avanti. Perché, guardate, se vengono meno quei 6 milioni, non si parla più né della filiera delle medie imprese e manco del capitalismo delle reti: banche o grandi attori dei servizi non riescono più a produrre profitti, per capirci. E il declino di questo modello, lo vedo nel fatto che non basta più il campanile, non basta più la comunità locale, non basta più il capannone: e ci aggiungo anche la quarta “C”, il soggetto delle rappresentanze di cui vorrei dialogare con te. Non basta più la Compagnia delle Opere per fare rappresentanza e accompagnamento, non basta più la CNA, la Confartigianato, la Confcommercio: parlo di una dimensione di crisi delle rappresentanze che non riguarda solo il sindacato. Quindi, il problema è che nella crisi si è colpito il capitale sociale e per ricostruire il capitale sociale ci vogliono anni. Molto spesso noi pensiamo a provvedimenti economici giustamente sul breve, sull’urgenza, ma il vero problema è che se viene meno quella dimensione comunitaria di territorio, di capitalismo di territorio, che aveva prodotto questo, è a rischio un tema fondamentale, se usciremo e attraverseremo questa crisi, essendo ancora il secondo Paese manifatturiero d’Europa. Questo mi pare un punto nodale di politica industriale. In questi mesi, ci sono state discussioni ferocissime, ci sono ancora oggi, che condividono l’urgenza che riguarda lo spread, il capitale finanziario: ma il vero problema è capire se abbiamo una politica industriale orientata a questi temi. Finisco dicendo che non credo che la crisi sia solo un passaggio. Se qualcuno pensa che la dobbiamo attraversare per tornare alla situazione precedente, io lo escludo. Credo che la crisi sia una metamorfosi che riguarda tutti noi che siamo da questa parte del tavolo. Perché non c’è dubbio che la mia metamorfosi sia di raccontare il capitalismo di territorio e il rapporto del territorio con i flussi, con i grandi processi di cambiamento. Ma mi pare che non stia bene nemmeno il capitalismo delle reti, che ci sia un deficit di modernizzazione, in questo Paese. Lo dico in maniera molto chiara, non si può pensare che il problema sia la difficoltà del capitalismo molecolare e semplicemente il capitalismo delle reti come rendita, ad esempio. È un discorso che dobbiamo affrontare. La modernizzazione del capitalismo delle reti di questo Paese è fondamentale. Altrettanto credo ci sia metamorfosi anche nel sistema della rappresentanza. Chi rappresenta chi? Credo che questo sia un altro grande tema che non riguarda solo Bonanni, che ovviamente ha il problema di ciò che resta della classe operaia, di ciò che resta dei dipendenti pubblici, ma quella rappresentanza di 6, 8 milioni che stanno fuori. Chi rappresenta chi? Aggiungiamoci anche 5 milioni di nuovi cittadini che non hanno rappresentanza e voce, sto parlando dei soggetti migranti. C’è un tema di rappresentanza. Quindi, il problema tra economia e politica è ben più complesso dell’intervento della politica che mitiga l’economia per proteggere la società. Mi pare che siamo dentro ad una metamorfosi tale per cui anche la crisi della politica è una crisi profonda, dentro questo meccanismo.

BERNHARD SCHOLZ:
Bene, grazie. A questo punto, Raffaele Bonanni, il tema è già chiaro: cosa vuol dire fare rappresentanza oggi? E aggiungo, vista la discussione attuale, quanto chi vuole fare rappresentanza può e vuole definire autonomamente le regole, e quanto lo Stato deve intervenire su questo?

RAFFAELE BONANNI:
Bonomi poneva questo problema, la realtà delle rappresentanze è davvero molto più complessa che negli anni ’60, anche se le rappresentanze non sono così disgregate e spappolate come teoricamente si può sostenere. Perché molti del lavoro parautonomo, anche molti delle partite IVA, almeno quelli che, più che essere autonomi, sono costretti ad esserlo, non per libera scelta, si sono organizzati col sindacato e abbiamo fatto accordi importanti, abbiamo trovato soluzioni soddisfacenti, nonostante i Governi. Mi ricordo che con la Fornero avevamo detto di cercare, in tutti i modi, di fare norme che facessero la differenza tra le vere partite IVA, che sono quelle delle grandi professionalità e possono contrattare la propria condizione, dalle partite IVA fatte per obbligo, per prendere 500, 700, 1000 euro. E poi, gli immigrati, che noi rappresentiamo abbondantemente. Solo la mia organizzazione ne rappresenta ben 380.000, ben organizzati, che pagano le tasse, che firmano la delega al sindacato, gente che non lavora in nero. La rappresentanza è molto diversificata. Mi si chiede: perché l’autonomia delle parti? Perché è un valore in sé, che le realtà organizzate abbiano la loro libertà e la loro autonomia, soprattutto nelle situazioni complesse di democrazia, dove la questione non può risolversi esclusivamente nella gestione diretta dei Governi o della politica. Perché anche la politica più efficace non ce la farà mai, anche il politico più efficace non ce la farà mai a tenere testa a fasci di richieste che provengono dalla realtà delle nostre comunità: ognuno ha esigenze specifiche, come diceva Bonomi. L’unico modo per farcela è disporre di tutte le realtà politiche, da una parte, e di associazioni dall’altra, che, attraverso una responsabilizzazione che porta al sussidiario e ad un’autogestione dei problemi, possono smaltire le questioni, venire incontro alla complessità delle amministrazioni e soprattutto creare soggettività sociali, un anticorpo importantissimo per la nostra società attaccata da populismo e dall’idea di scaricare le responsabilità e affidarle ad un singolo. L’autonomia delle parti è importante. Bernard diceva che abbiamo avuto sempre un aiuto da parte della politica. No, la politica, meno funziona e più diventa invadente. Più funziona e più il rapporto è regolato con i soggetti organizzati, perché ha talmente padronanza del proprio ruolo che ha bisogno di un ausilio. Più volte mi sono soffermato su questo, quando si è fatto il Governo Monti. I partiti che fecero questa strana coesione appoggiarono il Governo ma non diedero nessun uomo. Ecco, io dicevo nelle assemblee con gli amici: né trebbiano né vogliono far trebbiare, non vogliono dedicarsi direttamente al Governo e non vogliono che i soggetti sociali abbiano un ruolo: questo comportava addirittura una fuoriuscita totale dall’ambito della responsabilità, almeno visibile. Non hanno lavorato per i soggetti sociali, perché avessero la possibilità di esprimere la loro libertà e la loro autonomia: questo accade da diverso tempo e corrisponde al periodo di maggior decadenza della politica. Sono due cose come l’uovo e la gallina. Volete alcuni esempi? Le vicende del lavoro, le norme, le regole del mercato del lavoro. Sono questioni delicatissime, per conoscerne la portata bisogna davvero avere molta esperienza: ma come è possibile che, almeno gli ultimi 5, 6 Governi, siano arrivati dicendo che le norme precedenti facevano schifo e che avrebbero provveduto loro a farne di nuove?. Ogni volta abbiamo scoperto che quelle norme non facevano al caso della realtà del lavoro. Ognuno ha ideologizzato il rapporto con quelle norme. Vai a vedere, a latere, tutte le norme costruite con i cosiddetti accordi interconfederali, con le parti, e così via: non solo non fanno scandalo, non solo regolano meglio il lavoro ma addirittura resistono nel tempo, nessuno dice che sono norme superate. A Giovannini abbiamo detto di non occuparsi dei problemi da solo, che se ne doveva occupare insieme alle parti sociali. L’abbiamo detto a Letta e lui ha capito benissimo che il problema è quello, vedremo a settembre cosa sapremo fare, a partire dalla vicenda di questa cosa particolare che è l’Expo, che chiede una risposta e che potrebbe essere anche un terreno sperimentale per le altre questioni. C’è stata sempre una tendenza che nega la libertà e l’autonomia delle parti, ma da lì, in momenti come questi, deriverà una forza importante per rigenerare ogni soggetto capace di esprimere la realizzazione del bene comune, fino ad arrivare alle vicende della rappresentanza, fatto delicatissimo. Ora sento, un’altra volta, lamenti o addirittura minacce: adesso interveniamo sulla legge sulla rappresentanza. Ma come, intervenite sulla legge sulla rappresentanza? Proprio mentre le parti sociali, dopo 60 anni, hanno fatto un accordo interconfederale per stabilire chi rappresenta chi e cosa farne della rappresentanza? Dopo un accordo di tal fatta, si ritorna un’altra volta sulla legge: noi siamo contrarissimi, per più ragioni che dirò, siamo contrarissimi e la contraddizione maggiore viene dal fatto che la legge sulla rappresentanza la voglia la Fiat. La vuole Marchionne che, nella sua perenne lotta con la Fiom, vuole una soluzione specifica alla sua questione. La Fiom – per parlare dei soggetti che non lavorano per l’economia, per un bene comune e dei soggetti liberi e autonomi – che adesso sconfessa l’atteggiamento che ha avuto appena 18 anni fa sull’articolo 19 e si rimangia tutto. Così come la Corte Costituzionale, che ne ha infilata una sull’altra negli ultimi sei mesi, rovinando la sua credibilità, a conservazione di alcuni che ritengono che il Paese viva solo di diritti astratti, senza tener conto di nessun dovere concreto. Per quanto ci riguarda, stiamo continuando a fare accordi con la Confcommercio, con la Confcooperative, con gli artigiani e con i servizi, con cui abbiamo firmato proprio prima di andare in ferie. Spero che nessuno si infili in questa storia, tentando di scavalcare le parti sociali e di infilare dentro, ancora una volta, le vicende ideologiche. Saranno portatori non di esigenze generali, il mondo del lavoro non è fatto dalla Fiat, il mondo del lavoro italiano è fatto da una miriade di piccole aziende, il lavoro italiano, come diceva Bonomi, è una cosa sterminata: figuriamoci se ci dobbiamo affidare ad un casino interminabile tra la Fiom e la Fiat o addirittura alle disquisizioni e alle sentenze della Corte Costituzionale. Ne usciremmo malissimo. In più, parliamoci chiaro, diventa un terreno pericolosissimo per la politica e per il lavoro, perché ci sarebbe un’ingerenza che rovinerebbe ogni autonomia. Ve lo immaginate, se doveste regolare così le cose che vediamo ogni giorno nel Paese, nel mondo del lavoro? Ogni giudice, senza alcuna considerazione per la giurisprudenza consolidata, metterebbe in piedi un ingorgo senza fine. Possiamo regolare benissimo da soli, con molta concretezza e con molta responsabilità: a quel punto saremmo invece esposti ad una perdita gravissima delle autonomie. Io credo che le parti debbano continuare a fare quello che stanno facendo e che i politici più avvertiti debbano aiutarci a farlo. Il primo giorno di Meeting, ho seguito il bellissimo messaggio del Presidente della Repubblica, di cui sono stato molto orgoglioso: ha ringraziato tutte le associazioni del mondo cattolico per la loro vitalità e per la loro capacità, in autonomia, di concorrere al bene comune. La liberà, l’autonomia è questa, non il contrario, non andare sotto tutela, perché ci ribelleremo comunque. La Cisl ha lavorato sempre per l’autonomia e la libertà di ciascuno, figuriamoci se in momenti come questi ci andiamo a mettere nelle mani di chi non sa regolare neanche la propria rappresentanza: stiamo ancora aspettando la legge elettorale che non sanno fare, coloro che chiedono a noi di farsi regolare da loro. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Bene, so che vi metto tutti sotto tortura dandovi tempi e spazi limitati, però non ho scelta. Domenico Lombardi, affrontiamo un tema dolente, il tema dell’euro. Tutti l’hanno applaudito, o meglio, la stragrande maggioranza l’ha applaudito quando è arrivato, tutti pensavano che sarebbe stato un grande beneficio, poi abbiamo scoperto che crea comunque certi vincoli. Cosa significa questo per la governance dell’eurozona? Ci sono veramente i cattivi al Nord e i bravi al Sud, o viceversa, a seconda del punto di vista?

DOMENICO LOMBARDI:
Innanzitutto, bisogna capire com’è il rapporto tra economia e politica per cercare poi di inquadrarlo nel contesto dell’eurozona. Cosa fa l’economia, intesa come il ventaglio di attività economiche cui Bonomi si riferiva prima? Per esempio, definisce il perimetro dell’autonomia che la politica ha nel formulare e finanziare le politiche. E’ chiaro che se un Paese ha accesso al mercato a costi sostenibili, accettabili, è più efficace nel raggiungere i propri obiettivi. D’altro canto, se invece un Paese ha difficoltà a reperire le risorse, perché il gettito non è un crescita, perché non ha accesso al mercato a costi sostenibili o addirittura questo accesso è bloccato, come nel caso di alcuni Paesi dell’eurozona, è chiaro che la politica non ha margini, infatti in casi estremi c’è la troika che supplisce, auspicabilmente in via temporanea, alla sovranità di importanti scelte politiche. Quando ero ancora un giovane economista, avevo appena cominciato in Banca d’Italia, e studiavamo l’eurozona, la moneta unica, naturalmente l’attenzione tendeva sempre a concentrarsi su quelli che potevano essere i vantaggi, la riduzione della vulnerabilità nazionale a crisi valutarie, e l’Italia naturalmente era stata soggetta a crisi valutarie in passato: la possibilità di conseguire una più efficace stabilità dei prezzi, e per questa via dei tassi d’interesse più bassi, e quindi di creare un unico mercato finanziario a livello europeo che potesse consentire il finanziamento a tassi d’interesse più bassi rispetto a quelli che storicamente abbiamo avuto. Questo, naturalmente, pagava il prezzo di alcuni vincoli, a cui mi sembra non sia stata data sufficiente attenzione. Inizialmente le politiche monetarie venivano centralizzate, le politiche del cambio venivano centralizzate: l’Italia non ha una politica del cambio idonea alla struttura del settore manifatturiero. L’euro lasciò spazio alle politiche strutturali, e quindi vedevamo la Germania – per tornare alla sua domanda dei buoni e dei cattivi – che ha saputo profittare della moneta unica, adattando meglio le proprie istituzioni, la propria governance, ha saputo cogliere questa possibilità. L’Italia invece non lo ha saputo fare e la conseguenza è stato un divario di competitività che si è sempre più allargato: all’inizio dell’introduzione della moneta unica, l’Italia ha perso circa il 20, 30% di competitività. Su questo, spesso gli economisti tendono a sottolineare la mancata competitività delle istituzione nel mercato del lavoro: io credo che questo sia un po’ riduttivo, che ci sia la necessità di un approccio di governance un po’ più complesso, là dove l’Italia deve riguadagnare competitività non solamente dal punto di vista delle variabili macro ma della governance in generale. E’ questa la grande lezione che l’euro ci pone, la grande sfida che, finora, non abbiamo saputo cogliere con molta efficacia. Andando avanti, abbiamo due scelte, due opzioni: la via maestra è promuovere delle riforme che allineino l’Italia agli standard alti dell’eurozona, quindi, riguadagnare quella competitività persa, uscendo da quella fase emergenziale. Quando il Governo Monti si è insediato, l’Italia era ovviamente sull’orlo della bancarotta, quindi ha dovuto prendere delle decisioni giustificabili in quel contesto. In quel momento, in Italia, il rapporto debito- PIL ereditato era del 120%, qualche anno prima era del 105%: oggi l’Italia viaggia con un rapporto debito-PIL superiore al 130%, questo dà la misura del problema che è ristabilire le politiche di crescita, ritornando al capitalismo molecolare cui si accennava in precedenza, ridando forza all’economia. Questa, naturalmente, è la strada più difficile. L’alternativa forse più semplice, che spero noi alla fine riusciremo a non adottare, è la più ovvia, proseguire su una strada di austerità, su una squadra di rigore fiscale che oggi ha portato l’economia a una situazione di contrazione. L’anno scorso, il PIL si è contratto di oltre il 2%, quest’anno si contrarrà di un altro 2%. Ovviamente, in queste condizioni è difficile immaginare lo spazio per la politica, è difficile immaginare che la politica riesca a dare risposte efficaci e a finanziare le esigenze che la situazione pone. Vorrei infine sottolineare un altro aspetto: nella misura in cui riusciremo ad adottare una agenda di riforme basata sui problemi dell’economia reale, potremo sederci al tavolo europeo e cercare di ottenere una soluzione maggiormente ordinata della crisi europea. Quello che abbiamo avuto finora è che essenzialmente la risposta alla crisi è stata una risposta che è pesata unicamente sulle spalle delle economie debitrici: questo è esattamente il contrario di quello che ha spiegato Keynes quasi un secolo fa, laddove Keynes, grande economista britannico, metteva proprio in guardia dall’avere questo aggiustamento unilaterale perché si sarebbe risolto in un contesto deflattivo, di caduta della domanda aggregata generalizzata: è quello che sta succedendo nell’eurozona. Allora, se riusciamo a invertire questa tendenza, a guadagnare ulteriore credibilità, sarà più facile sederci al tavolo con l’economia del nord Europa, cercando una soluzione maggiormente bilanciata rispetto a una crisi che è una crisi dell’euro, è una crisi dell’eurozona e non semplicemente una crisi dell’Italia, della Grecia, del Portogallo o della Spagna, anche se queste economie hanno naturalmente degli elementi di vulnerabilità propria. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Evidentemente, adesso si imporrebbe la domanda a Corrado Passera su cosa farebbe un keynesiano: la lascio come sottofondo e aggiungo una osservazione che hai fatto nel resoconto dell’anno politico. C’è scritto: “Abbiamo cercato di non seguire una politica industriale di stampo dirigista. Non è infatti più immaginabile che sia lo Stato a decidere su quale settore, addirittura su quali imprese, puntare per irrobustire il suo sistema produttivo”. Mi sembra un bel cambiamento di visione rispetto a tutta la politica precedente.

CORRADO PASSERA:
Posso dire prima una cosa sul Meeting? Vengo da una mostra che probabilmente avete visto tutti, quella sul recupero dei giovani di quell’organizzazione di Pesaro che si chiama Imprevisto. Lì ho capito che emergenza uomo non vuol dire uomo in crisi, come pensavo, ma uomo che emerge, uomo che ce la fa, uomo che resiste, uomo che supera problemi irrisolvibili. E’ una mostra assolutamente da vedere. Allora, politica industriale e politiche economiche. Nella sintesi che faceva Bernhard sull’attitudine che la politica deve avere, c’è proprio questo: politica economica non è sostituirsi agli imprenditori, decidere dove si investe, dove non si investe, in quali settori, in quali imprese. E’ creare le condizioni di contorno, mettersi nei panni degli imprenditori e capire quali sono le condizioni che dipendono dalla politica, che sono tantissime, lo sapete e lo sappiamo: le regole e i controlli, il costo fiscale, dove il fisco colpisce e non colpisce, il costo dell’energia, il costo amministrativo per gestire una azienda, il costo del credito e la disponibilità di credito. Sono tutte cose che dipendono molto da scelte politiche, dal fare la formazione nel modo giusto, che può essere lo strumento più formidabile di politica economica, allo spingere o meno le infrastrutture, all’avere un sistema di giustizia che funziona. Sono strumenti di estrema necessità in una visione di politica economica dove, come diceva prima Scholz, non è lo Stato a decidere dove e in che modo investire, ma è lo Stato a creare le condizioni di contorno per cui arrivino investimenti dall’estero, nascano nuove aziende – vedi il tema delle startup -, si rafforzano le aziende che ci sono. Ovviamente, alcuni di questi interventi sono di settore e non c’è stato il tempo, in un anno, di andare di settore in settore, ma in tanti settori si è anche andati a livello di dettaglio. Quindi, politica economica è tutte queste cose, una responsabilità forte perché vuol dire, innanzitutto, io politica mi prendo la responsabilità o la corresponsabilità della crescita o dello sviluppo sostenibile, perché so che tutte queste cose dipendono soprattutto da me e non dalle singole aziende. Bilancio della politica, in questa visione, molto negativo negli ultimi dieci anni, lo diceva anche prima Lombardi: è così, è sotto gli occhi di tutti, noi consuntiviamo un vero fallimento dal punto di vista del creare le condizioni di competitività nel nostro Paese. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, non vado certo a ripeterli, però concentriamoci su un numero: 9 milioni di persone in disagio occupazionale. Noi ci parliamo molto spesso, giustamente, dei disoccupati che sono la punta emergente di questo disagio, però poi dobbiamo sapere che ci sono molto disoccupati che non cercano lavoro e non sono calcolati come disoccupati. Ci sono molti apparenti occupati, soprattutto ci sono tantissimi occupati che hanno un lavoro insufficiente per vivere. Allora, l’area del disagio occupazionale diventa molto, molto più ampia, stiamo parlando di un numero che qualche anno fa, all’inizio della crisi, era già allarmante, 5 milioni, oggi è di 9 milioni. Se lo moltiplicate per il numero medio che uno ha di familiari e di persone che gli vogliono bene, ecco, allora, troviamo che la quasi maggioranza del nostro Paese è in uno stato di grave sofferenza, di paura per il futuro. E quando un Paese comincia ad avere, nella sua maggioranza, paura del futuro, beh, allora, nella migliore delle ipotesi, si rallenta tutto, nella peggiore delle ipotesi la storia ci dice che può succedere molto di più – come diceva Bonomi – che una crisi economica, è una crisi di fiducia, di funzionamento delle istituzioni democratiche, è una crisi di identità, perché poi identità è immaginarsi nel futuro e decidere che cosa si vuole essere. In questo momento, questa dominanza della paura, dell’incertezza, crea anche un grande problema di identità. Cosa di cui al Meeting, negli anni passati, ci siamo parlati, perché questo è uno dei pochi luoghi dove c’è la capacità di guardare alle dinamiche della società in profondità: questa crisi sta crescendo, che fare? Qual è la strumentazione a disposizione, sempre parlando di politica economica, per affrontare questa situazione in un’ottica di comunità, non soltanto di aspetto tecnico finanziario? Certo, non abbiamo più gli strumenti del debito libero, perché ci siamo già ubriacati di debito e non c’è più spazio. Certo, non abbiamo più le vie facili delle svalutazioni competitive perché ci è precluso, probabilmente dovremmo gestire meglio la moneta a livello europeo, ma questo è un altro discorso. Si può affrontare la crisi, si può affrontare l’emergenza, si può gestire il mercato in un momento specifico, ma con la sola austerità certamente non se ne esce. E quindi, il Paese ha bisogno, come ci siamo detti tante volte, di un intervento massiccio a breve termine, per invertire il trend, che vuol dire redditi disponibili soprattutto per le famiglie a più basso reddito, vuol dire riavviare il meccanismo degli investimenti perché il calo del PIL è soprattutto negli investimenti pubblici e privati, creare dei meccanismi facilitanti per inserire più facilmente persone nelle imprese, sbloccare la crisi del credito. Adesso non abbiamo il tempo di entrare, però la prima area di responsabilità della politica è un intervento molto più massiccio di quello che si sta vedendo negli ultimi 12, 18 mesi, a breve termine. Poi c’è da mettere in moto o accelerare le molte riforme in parte avviate, in parte ancora da avviare, dal fisco all’istruzione, dalla giustizia a quello che si è fatto nell’energia: ma il piano delle riforme lo conosciamo, certamente non lo vediamo accelerare. Terzo, mettere mano al problema dei problemi, che è il non funzionamento della nostra democrazia, dei nostri processi decisionali, perché poi alla fine quel che tiene insieme tutto è il funzionamento delle istituzioni, dalla legge elettorale al federalismo, dal funzionamento delle Camere – che secondo me dovrebbero essere solo una e non due -, al funzionamento della pubblica amministrazione in generale. C’è tantissimo spazio, tutte cose fattibili, perché poi la somma delle cose da fare non è la somma di cose impossibili, sono tutte cose alla nostra portata. Una metariforma che tocca sia la democrazia sia l’economia del nostro Paese é quella che riguarda il grandissimo mondo del Terzo Settore, della sussidiarietà, dell’auto-organizzazione. Tra gli obblighi, o meglio, tra le qualità di una politica economica che guarda lontano c’è quello di facilitare l’auto-organizzazione, il supplire da parte delle comunità, vedi nell’istruzione, vedi nella formazione professionale, ma questo può valere in tanti settori, insomma, aprire, lasciare spazio. Non lo stiamo facendo chiaramente, da tanti mesi, almeno dodici, non facciamo quasi più nulla di rilevante: ci stiamo anche perdendo l’occasione delle larghe intese, prima sotto forma di Governo tecnico e adesso, ancora di più, come Governo politico, che ha un grandissimo supporto e che quindi ci si aspetterebbe in grado di affrontare le cose difficili che le singole parti e le parti separate non potrebbero affrontare. Per ora, questo non è successo, vorremmo che succedesse, io penso che il Governo di larghe intese sia potenzialmente una grandissima opportunità, per ora assolutamente non sfruttata, anzi, ogni giorno sotto ricatto e ogni giorno sempre più occupata di cose che non hanno a che vedere con il bene comune. L’Italia può uscire da questo settore, è uno dei grandi Paesi esportatori del mondo, non mi sentirei di fare questo discorso se non avessimo 500 miliardi di esportazioni dimostrate, quindi capacità di esserci nel mondo. Abbiamo chiesto e fatto tutti insieme, come cittadini, degli enormi sacrifici che non vanno dispersi, grazie ai quali oggi tutto tiene. La troika di cui parlava il professor Lombardi, prima ce la siamo evitata per un pelo, e ce la siamo evitata per una singola cosa, perché abbiamo dimostrato al mondo che sapevamo lavorare insieme, Governo, Parlamento e parti sociali. In un momento mirabile, come in altre occasioni che sono successe nella nostra storia, l’Italia è stata sistema, capace di lavorare insieme, ha reagito a un momento di assoluta difficoltà. Con questo spirito, però, adesso c’è da fare tutto il resto, non se ne vede ancora abbastanza traccia, tutti dobbiamo spingere in questa direzione.

BERNHARD SCHOLZ:
Signor Ministro, ho trovato in un suo libro questa affermazione: “Una forza di responsabilità che deve indurre gli amministratori pubblici ad andare oltre i tagli e i risparmi di giornata, per costruire progetti che consentano di guardare al domani, anteponendo il lavoro e la fiducia alla paura che immobilizza”. Si chiede alla politica una funzione progettuale, una visione. Cosa vuol dire per lei costruire progetti in politica?

GRAZIANO DELRIO:
Sì, grazie. Intanto sono contento che lei sia uno dei pochi che ha comprato il mio libro un anno fa, o l’ha letto un anno fa, quindi, grazie per questa simpatica domanda. Cosa vuol dire? Credo che dobbiamo dire con molta chiarezza, anche se scandalizziamo l’amico Bonanni, che la politica ha un primato sull’economia. La politica viene prima dell’economia e della tecnica, perché la politica ha un obiettivo che è molto di più del Governo, delle leggi che regolano la casa. Economia significa leggi che regolano la casa, l’amministrazione della casa. La politica ha come destino e come obiettivo l’uomo, nel senso del suo progetto di vita e delle relazioni che ha con gli altri uomini. La politica ha come orizzonte e come importanza il fatto di creare opportunità per ognuno, cioè di fare in modo che ognuno possa correre la corsa della vita con tutte le sue potenzialità, non è importante quante sono. Nello stesso tempo, ha il dovere di creare convivenza e capacità di relazione, perché l’uomo non è un animale fatto per stare solo ma è un animale fatto per la convivenza sociale. E’ la relazione che lo rende protagonista, che lo fa crescere. Quindi, se la politica è questo, è chiaro che qui si può parlare anche di politica economica perché, se hai questa premessa e cioè che l’uomo è il tuo obiettivo, è evidente che il PIL di una Regione dell’India è importante. Ma la politica non si occupa semplicemente di quell’indicatore, la politica si occupa della storia della donna che abita nel villaggio dell’India, vuol dire che tu devi dare a quella donna la possibilità di accedere a una buona istruzione, di educare i suoi figli, di avere un lavoro dignitoso, di ottenere rispetto da suo marito. E voi capite che tutto questo è molto più che l’economia. E’ la volontà di costruire un progetto che dica a questa donna: sono al tuo fianco per il tuo progetto di vita. E allora può succedere, e succede, di avere Paesi che hanno una crescita economica molto importante, ma dove manca la libertà religiosa, la libertà educativa e la libertà di pensiero. E’ questo il tipo di progetto che noi vogliamo per la politica, semplicemente che vi siano centinaia di milioni di persone capaci di produrre prodotto interno lordo a prezzo dell’inquinamento, di città che non si vedono più perché soffocate dall’inquinamento, a prezzo della mancanza di libertà? Questo è un elemento su cui bisogna cominciare a riflettere. Con tutto il rispetto per gli economisti, sono convintissimo che, per esempio, noi non possiamo non discutere di spread, perché se invece che pagare 83,8 miliardi di euro di interessi sul debito, l’anno prossimo ne pagheremo 90 o, al contrario, di meno, è perché lo spread è cresciuto o calato. Quindi, è assolutamente importante, lo diceva benissimo il prof. Lombardi prima, che ci sia un’attenzione ai fatti economici ma, come in qualsiasi buona famiglia, è chiaro che il fatto economico è rilevante ma non è tutto, e la politica si occupa del tutto, senza avere la pretesa di incarnare lo spirito del mondo, la ragione costruttiva, senza aver l’idea di costruire sistemi complessi, sempre perfetti e così via. Ma credo che una politica deve avere una visione più orientata, con idee molto precise. Per esempio, penso che si debba insistere nella politica degli spazi pubblici. La politica della scuola è una politica di spazio pubblico, e io faccio una domanda a cui gli economisti devono rispondere: quanto è il valore economico dell’investimento in educazione? Obama, nel suo ultimo discorso alla nazione, ha detto: “Per ogni dollaro che investiamo in educazione, ne risparmiamo 7”. L’educazione è un grandissimo valore economico, possibile che l’educazione non sia al centro del dibattito politico? Possibile che discutiamo tutto il giorno di Imu? E c’è un premio Nobel del 2000 per l’economia, James Heckman, che ha fatto di questa teoria sull’educazione in età prescolare una teoria economica. Ha vinto un premio Nobel dicendo che l’educazione in età prescolare è così importante nello sviluppare le capacità delle persone, nel trasformare, quindi, la società, che è un fattore economico decisivo. Quando ero Sindaco, abbiamo fatto ricerche proprio per dire che quando il sistema educazione è centrale in una comunità, questa comunità ha molte più possibilità di sviluppo. E questo si inquadra bene con quello che diceva Corrado Passera prima, cioè che le politiche industriali e le politiche economiche non sono fatte per dire alla gente cosa deve fare. Il tessuto delle piccole e medie imprese italiane, credo, non è stato determinato da un legge ma paradossalmente da una crisi, cioè dalle crisi. Le crisi delle grandi industrie in certe città emiliane hanno determinato che la gente ha tirato su le maniche e si è messa lì a pensare a come dar da mangiare alla sua famiglia ed ha creato una piccola impresa: ha provato a capire, ci ha messo la sua intelligenza, la sua fantasia. E la politica deve fare in modo che quel giovane imprenditore non debba pagare un dazio altissimo per poter fare impresa. Ma non è che l’occupazione la facciamo con le defiscalizzazioni, l’occupazione la facciamo se ci sono persone che rischiano e vogliono fare impresa. Perché questo è il punto. Poi, è chiaro che la Germania ha fatto un programma serio, nel 2007, in cui ha ridotto di oltre 10.000 gli obblighi formativi per le imprese e in 4 anni ha risparmiato quasi 10 miliardi di euro. Ha fatto un altro programma per la fatturazione elettronica e ha risparmiato 4 miliardi di euro. E’ evidente che abbiamo dei grandissimi margini di miglioramento, da un punto di vista dell’efficienza e della qualità, però io voglio continuare a sostenere la tesi che sosteneva Keynes che ho citato prima: “Noi abbiamo bisogno di una politica che si occupi di efficienza e di efficacia”. E questo è fuori discussione. Non c’è nessuna filosofia politica, nessuna teoria politica che ci esima dal nostro lavoro di rigore quotidiano sui conti, su come facciamo le cose, su come gestiamo i processi. Abbiamo bisogno di efficienza e di efficacia. Poi Keynes diceva: “Però c’è un secondo elemento che deve essere l’oggetto vero della politica, che è la vita quotidiana delle persone”. E’ la passione per la vita quotidiana che ci entusiasma, che ci dà forza, è l’idea di trasformare la vita di quella donna che abita nella mia città, che mi appassiona. Mi appassiona il pensiero che lei ha una madre non autosufficiente, che si sente debitrice verso quella madre, sa che quella madre ha avuto un ictus e si sente debitrice perché è la madre che l’ha fatta studiare, cavolo! Non c’era una legge che glielo imponga, ma quella madre lì ha fatto sacrifici per mandarla all’università e io mi sento debitore, dice questa donna. E allora, cosa fa per stare vicino a quella madre, se manca un sistema sanitario, un sistema di assistenza sociale? Rinuncia al suo lavoro, interrompe le relazioni con le amiche, divorzia dal marito, trascura i figli. Questa è la politica. Noi dobbiamo creare le condizioni perché quella madre possa avere di fianco a sé un Comune, un sistema sanitario, una rete di relazioni amicali, un Terzo Settore che l’aiuta, nella difficoltà della vita, a continuare a pensare alla sua vita. E non pensare che debba rinunciare a tutto, per un debito giusto che ha verso sua madre. Quando parliamo di visione, diciamo che dobbiamo avere passione per questa vita quotidiana. Il terzo elemento che diceva Keynes, molto importante, è il tema del talento. Dobbiamo smettere di avere paura delle persone, la nostra politica è ossessionata dalla paura delle persone, lo dico a Corrado, che è stato uno dei migliori Ministri con cui io ho trattato quando ero dall’altra parte della barricata. Quante volte abbiamo combattuto contro una politica che imponesse solamente regole, norme? Qualcuno pensa di essere liberale e pensa che Einaudi, quando parlava della democrazia delle regole, intendesse che dovevamo mettere una regola per ogni cosa, e quindi ogni volta che arriva un politico deve fare la sua riforma della scuola, la sua riforma della sanità. Non dobbiamo essere ossessionati dalle regole. Gli italiani hanno bisogno di una politica che cominci a trattarli come uomini liberi e responsabili, che non si preoccupi solo delle norme. Io ho raccontato, scandalizzando una platea di amministratori, un episodio che mi è successo in un ospedale di una grande città italiana. Allora, sono andato a trovare un amico e ho trovato, in questo grande ospedale di questa città italiana, sporco lungo le scale, le panchine rotte, i fili degli ascensori che venivano fuori. Quella roba lì non la discipliniamo noi! Lì c’è un contratto di servizio per un appalto di pulizia, di sicuro, perché è un grande ospedale di una grande città, ma la persona che va a pulire deve avere la sua responsabilità individuale. E’ chiaro che le regole servono per controllare ma non c’è nulla che può sostituire la responsabilità individuale. Non c’è nulla che possa sostituire il talento di una persona. Noi abbiamo bisogno di questa politica che si occupa di efficienza e di efficacia, di vita quotidiana e anche del talento delle persone, per aiutarle, per promuoverle, non per costringerle dentro a una serie di regole che poi nessuno fa applicare. Vi do una notizia, molte norme che vengono scritte e approvate dai Governi non vengono applicate mai. Quindi è inutile continuare, proviamo ad applicare quelle che ci sono, a farle funzionare, proviamo a evitare che ogni legge abbia 18, 58 decreti attuativi. Io ho proposto la riforma, l’ennesima -ma perché la loro è stata bocciata sennò non l’avrei proposta – su tutto il sistema istituzionale, province, città metropolitane, comuni, ecc. Però ho avuto uno scontro iniziale con il Parlamento perché è priva di decreti attuativi: può partire domani mattina, se l’approvano, e questo spaventa. Non faremo mica sul serio? Aspettiamo, ci vorranno almeno una cinquantina di decreti attuativi per poterci prendere 2 o 3 anni di tempo e riproporla al prossimo Governo. Ecco, allora, i motivi per cui dico che ci vuole visione ma soprattutto passione, passione per la nostra comunità e passione per le persone che la abitano.

BERNHARD SCHOLZ:
Infatti abbiamo un sistema di norme che ci paralizzano reciprocamente e che fanno lavorare avvocati, tribunali a gogò, senza creare nulla di buono. Allora, visto che il tempo vola, mi permetto di fare a tutti una stessa domanda alla quale rispondere. Riguarda il tema di questo incontro: visto che Keynes è stato citato abbondantemente, lo cito ancora una volta io, anche se evidentemente siamo tutti d’accordo che non si tratta di applicare Keynes come salvezza di tutti i problemi, però qualche considerazione importante che ci serve anche oggi va fatta. Scrive nel 1936: “Le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo è governato da poco altro. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto”. Evidentemente adesso anche il nostro discorso si riallaccia a qualche economista defunto, però mi interessa sapere quali sono, rispetto alla vostra esperienza – in parte lo avete già detto – idee nuove che ci permettano di superare questo momento, uscire da vecchi schemi, da personalismi, da una riduzione della complessità, dando però traguardi che permettano a ognuno di noi di assumersi quella responsabilità di cui avete parlato. Perché penso – ed è l’unica osservazione personale che mi permetto di fare – che se non usciamo, se non ci convinciamo che ognuno di noi deve contribuire a un percorso nuovo, diverso, se ognuno aspetta sempre che un altro faccia un passo, non ce la faremo. Di questo sono profondamente convinto, quindi mi interessa molto, anche a proposito di educazione formazione, che ci sia un popolo che prenda più coscienza di sé e dei problemi reali, ma trovi anche strade da percorrere per contribuire a questo cambiamento. Partirei di nuovo da Aldo Bonomi.

ALDO BONOMI:
Tre risposte telegrafiche. Ho un grande desiderio che cambi la cultura della rappresentanza ma – certamente non tranquillizzo Bonanni – nel senso che venga codificata dall’alto e che ci sia una legge sulla rappresentanza. Non possiamo più pensare che le nostre forme di rappresentanza sono basate sul maschio adulto bianco con l’impiego a vita, dobbiamo prendere atto che abbiamo a che fare con 9 milioni di disagiati, donne e uomini indebitati, ma non per lo spread, indebitati davvero, flessibili, precari, depressi, rancorosi e poveri. Allora, la rappresentanza deve cominciare a funzionare perché se non funziona, se pensiamo solo alla rappresentanza dei garantiti e dei codificati, non ci siamo. Questo mi pare un primo punto di politica keynesiana. Secondo punto: stiamo tutti discutendo sulla metamorfosi, sulla crisi, però ci sono in giro idee su cui confrontarci. Molto schematicamente, c’è chi ritiene che siamo alla fine del modello capitalistico e dice che bisogna tornare alla decrescita serena, io dico che quello che mi preoccupa oggi non è la decrescita serena per pochi ma la recessione per molti, problema drammatico di cui dobbiamo occuparci. e discutere rispetto a questo. C’è chi dice “chissenefrega del debito, mica l’abbiamo fatto noi”: sappiamo tutti che chi paga non sono quelli che stanno sopra ma quelli che stanno sotto. Però c’è un dato importante nella radicalità di questa crisi: riguarda il 99% rispetto al 1% perché colpisce quelli che erano una volta i ceti medi, gli impiegati, colpisce tutti da tutti i punti di vista, e bisogna incominciare a ragionare. Come se ne esce? Come se ne esce, sono le ipotesi keynesiane che tu hai evocato. Non credo alla soluzione tecnocratica e burocratica bruxelliana. E non credo che se ne esca con la morfina tecnocratica che dice: tranquilli, aggiustiamo un po’ di punti e tornerà tutto a funzionare come prima. Credo che il problema sia cominciare a ragionare dentro la crisi. Ho sentito evocare intorno a questo tavolo il termine sviluppo sostenibile, mi pare l’abbia usato Passera: lo condivido, cominciamo a ragionare di questo. E vorrei scomporre e ricomporre la parola retorica che usiamo ormai tutti quanti, tra economisti, sociologi, sindacalisti: green economy. Che cos’è la green economy? In primo luogo, è il capitalismo che incorpora il concetto del limite: questo non significa il capitalismo che non produce profitto ma solo che tiene conto, ad esempio il capitalismo finanziario, del concetto del limite, un capitalismo industriale che tiene conto del concetto del limite. Per capirci, Bonanni, siamo tutti colpevoli fortissimamente di aver voluto l’Italsider a Taranto, è una responsabilità collettiva del ’900, però oggi non c’è dubbio che mantenere Taranto significhi fare un capitalismo che incorpora il concetto del limite e che non costringe al dualismo drammatico “lavoro o morte”, ci siamo capiti? Questi sono i punti, quindi: green economy, il capitalismo che incorpora il concetto del limite, la nostra Tennessee Valley, per citare il modello keynesiano, 6 milioni di imprenditori molecolari con cui dobbiamo fare la riconversione delle piccole imprese, l’artigianato, ecc. In più, e ho finito davvero, un secondo punto, perché se dobbiamo lavorare per questo non c’è dubbio che abbiamo un altro problema, un sistema formativo e produttivo per cui i giovani non intrecciano più la dimensione del lavoro, e questo è un altro grande problema. Do per scontato, drammaticamente, che abbiamo 2 milioni di giovani che né studiano né lavorano, è un problema di welfare, però ne abbiamo altrettanti che fanno gli smanettoni, che hanno lavorato, che hanno competenze. Non riusciamo a farli conoscere, a farli incrociare con il capitalismo molecolare manifatturiero. So benissimo che Passera, quando era Ministro, ha cercato in tutti i modi di alimentare questo discorso della startup, ma il problema è l’intreccio tra chi viene avanti nella innovazione e il capitalismo manifatturiero. Ultima battuta per Delrio, sono d’accordo che la politica debba avere una visione, sono d’accordo anche sulla radicalità della tua visione, e quindi che la politica debba avere la radicalità di dire che la green economy è un futuro possibile per la donna, per l’uomo, una sobrietà nei consumi, un nuovo modello. Non chiedo alla politica di fare interventismo, le chiedo la visione, però chiedo anche un’altra cosa, una governance dolce, non una governance dall’alto. Sappiamo tutti che bastano alcuni provvedimenti molto dolci, che toccano alcune regole, per cui ad esempio se fai un provvedimento per la manutenzione della crisi urbana, hai un modello di sviluppo che incomincia a produrre alcune cose in un settore che noi trascuriamo come quello dell’edilizia. Allora, governance dolce, da una parte, visione strategica radicale. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Raffaele.

RAFFAELE BONANNI:
Un capitalismo che abbia il senso del limite, certo, un capitalismo che sappia strutturarsi in modo tale che Paesi avanzati – e il nostro lo è e spero rimanga tale – sappiano utilizzare l’avanzamento precedente, quindi che maturino ancora di più di fronte alla maturazione già avuta nei decenni prima. Però dobbiamo essere sinceri, il capitalismo avanzato e la green economy dove nascono? E come pensare che a Taranto, se chiudiamo, la bonifica diventerà facile? Se si chiude Taranto, bonifiche lì non se ne avranno, resteranno le scorie e le pestilenze prodotte dalla fabbrica e dall’arsenale che ha almeno 120 anni. Il problema è sempre lì, ora ci deve essere un capitalismo interessato a investire in un luogo per evolversi e per evolvere la realtà circostante. Allora, ritorniamo indietro. Sono 20 anni che in questo Paese non ci si occupa dei fattori principali che riguardano lo sviluppo con tutte le molecole di questo mondo, con tutte le realtà piccole e così via ma, come mi insegni, professore, non esiste una cosa piccola se non c’è una cosa grande che funzioni. I grandi investimenti del Paese non ci sono più, gli investitori internazionali – e siamo in un agone mondiale – non ci sono più. L’altro anno, in Italia, hanno investito solo 12 miliardi di dollari, la Svizzera ne ha molti di più, il Regno Unito 5 volte in più. Perché non si investe in Italia? Perché le aziende devono mantenersi in piedi con un costo dell’energia un terzo più alto dei maggiori concorrenti. Allora, due sono le cose: o paga lo Stato, e non va bene, oppure va sotto e non va bene lo stesso. Però a nessuno è passato per la testa – e questo riguarda gran parte delle produzioni – di fare un piano nazionale, di correggere i monopoli che ci sono di fatto, di diversificare le fonti di approvvigionamento, e così via. Avete sentito mai un politico occuparsi di questo aspetto? Il sistema dei trasporti è un sistema squinternato, vogliamo fare la discussione? Noi usiamo 7 volte in meno degli Stati Uniti il trasporto per vagoni ferroviari, con tutto quello che significa per un Paese come il nostro che può assomigliare solo al Cile. Una giustizia lentissima, Berlusconi, dalla mattina alla sera, ma qui un contenzioso fra un’azienda e l’altra si risolve in sette anni quando, nel Regno Unito, finisce in tre mesi. E poi i servizi comuni costano un botto, perché abbiamo ancora una regolazione di presenze sovietiche nella municipalizzazione. E così sulla formazione, sull’istruzione, su tutti fattori dello sviluppo. Chi se ne occupa? Sono vent’anni che nessuno se ne occupa. Abbiamo perso, per unità di prodotto, più di 10 punti: costa 10 punti in più per cento costruire un prodotto in Italia, mentre i nostri concorrenti europei hanno addirittura messo in atto il meccanismo inverso, quindi siamo out, sempre di più, resistono alcuni in qualche nicchia nelle esportazioni, però noi siamo un grande popolo di realtà che producono, siamo manifatturieri. I tedeschi – non per parlare della Germania, ce l’hanno tutti con la Merkel – hanno messo a posto tutto nel corso degli ultimi dieci anni, ma perché non te la prendi con questa vacanza, con questo lungo periodo sabbatico della realtà politica, che ha solo litigato nel nostro Paese, lasciando incustoditi tutti i fattori dello sviluppo? Non c’è cooperazione tra potere centrale e locale, guarda, potrei continuare fino alla fine. Dopo di che, tutte le versioni che si dicevano vanno benissimo, ma senza una struttura centrale che garantisce i ritmi dell’economia, dove andiamo? Andiamo in nessun posto. Questo è il dilemma. Allora, rioccuparsi di questo significa avere un personaggio che è espresso davvero dalla gente, che abbia la fiducia della gente: perché non si va a votare? Si va a votare per modo di dire, poi, non sai mai chi è il tuo rappresentante di territorio. Ma che responsabilità potrà avere costui, quale passione lo può muovere? La passione di pensare alla buona salute non del territorio ma del suo gerarca. La politica è regolatore fondamentale a che l’economia non impazzisca, ma deve essere sana. Chiudo dicendo che noi, a Letta, abbiamo posto questo problema ed è un prodigio che imprenditori e i sindacati, sottolineo, tutti i sindacati principali, siano d’accordo per fare un grande patto. Questo Governo nasce senza una base programmatica, come sapete, solo per la spinta del Presidente della Repubblica, che Dio ce lo salvaguardi! Dovessero fare da soli, farebbero solo guai. Sulla vicenda fiscale, è incompatibile la questione fiscale con una realtà civile come quella italiana, è incompatibile non dare responsabilità: si scaricano i costi sulle famiglie, si spengono i consumi e le aziende, si crea un’ingiustizia gravissima. Bisogna dimezzare, tagliare della metà le tasse sul lavoro, bisogna tagliare della metà le tasse su chi investe, non il cuneo fiscale, perché dare soldi alle imprese senza alcun vincolo significa che può succedere come è successo a un’azienda come Indesit, che fa i soldi, li divide tra gli azionisti e poi se ne vanno. Dimezzare le tasse su chi investe e su chi reinveste i proventi, i dividendi: questo è il punto. Io ero convinto, fino a poco tempo fa, Bernhard, che bisognava prima fare questo e poi correggere la spesa pubblica. Mi sono reso conto del contrario: siccome ci sono delle politiche economiche che stanno là a succhiare i soldi della spesa pubblica centrale e soprattutto locale, allora il problema è solamente tagliare le tasse e poi mettere mano a tutta la spesa, ristrutturare – requisito fondamentale per un Paese moderno come il nostro – le istituzioni e le amministrazioni. La struttura amministrativa è incompatibile con le realtà europee, noi saremo sempre sotto, se manteniamo una simile struttura. Quindi, tasse e ristrutturazione del sistema amministrativo e istituzione vanno di pari passo. Vedrai, professore, la passione nuova che verrà fuori quando le famiglie pagheranno meno tasse, quando vedranno le loro istituzioni funzionare di più, vedrai quale fermento ci sarà nel Paese! Oggi siamo solo attoniti perché non ce la facciamo più, i servizi sono scarsissimi e nessuno investe in Italia. Ma perché dovrebbero investire in Italia? Il lavoro non si fa per dei crediti, si fa per gli investimenti degli investitori italiani ed esteri.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Domenico Lombardi.

DOMENICO LOMBARDI:
Grazie, sarò brevissimo. Il Ministro Delrio parlava di spread, sono un economista e non resisto alla tentazione di dare due numeri. Dall’inizio della crisi, la Germania ha risparmiato 40 miliardi di euro rispetto al servizio del proprio debito; noi invece abbiamo subito un aggravio di 180 miliardi di euro dall’inizio della crisi. Questi sono numeri, il problema è che dietro a questi numeri c’è una realtà che questa crisi rischia di consolidare, cristallizzando la differenza tra Paesi in surplus e Paesi in deficit. L’Italia è in equilibrio in termini di avanzo corrente, vicina all’equilibrio dal punto di vista del bilancio, però poi, a causa delle sue vulnerabilità strutturali, è di fatto assimilata ai Paesi in deficit. Ecco, io credo che la crisi stia ridefinendo il nesso tra sovranità e stabilità, nel senso che, per i Paesi del nord Europa, questo nesso è sinergico. Lo vediamo per esempio nel progetto dell’unione bancaria, nel fiscal compact o in altri vari strumenti che sono stati predisposti laddove, in realtà, gli altri Paesi del nord si implicano ma lo fanno amplificando la loro sovranità, intesa come capacità di incidere e di plasmare le regole. Invece, i Paesi in deficit si integrano e però perdono la loro sovranità. Rispetto a Taranto, i Warrant prevedono, per alcuni di questi Paesi, un trade off tra cedere sovranità per ottenere maggior stabilità, però le regole sono di fatto scritte da altri. Credo che se la politica non si riappropria di questo spazio siamo condannati a un antieuropeismo dilagante, dalle conseguenze irreversibili e incalcolabili, ad una morfina tecnocratica che naturalmente porterà ad una ulteriore eclissi della politica. L’esperienza di vita vera della politica legata all’economia – ne accennava Bonanni – è stata forse l’esempio più concreto di come l’Italia ce la possa fare o si possa velocemente rimettere a posto. Politica energetica: non c’era un piano da 28 anni, anzi, si ipotizzava ancora, nei calcoli e nei numeri, che ci sarebbe stato il nucleare. Quando si affronta un problema di questo genere, non ti aiuta nessuno, non è di interesse di nessuno, come diceva Bonanni giustamente, sono cose talmente complicate, lunghe, articolate, che veramente nessuno ti dà retta. Ti trovi 170 miliardi già impegnati per incentivi fuori mercato su certe energie, ti trovi mercati importantissimi come quelli del gas che sono ben poco aperti: allora puoi, come politica, dire “va beh, non lo tocco perché tanto qui non porto a casa niente di utile”, oppure dire “schiena dritta, ci proviamo a fare scendere il costo dell’energia che da anni continua a crescere, cominciamo ad aprire mercati chiusi”. Come sapete, prima ci siamo messi a posto gli incentivi sulle rinnovabili, non rinunciando agli obbiettivi europei di energia, anzi, andando oltre, però smettendola di strapagare operazioni che erano puramente finanziarie. Mercato del gas: separare l’ENI da SNAM non è mica stata una cosa ovvia, aprire il mercato del gas, creando meccanismi di immagazzinamento, riaprendo i tubi con il resto del mondo. E’ stato difficilissimo, si sono messi tutti di traverso. Adesso ci sarà un grande gasdotto che passa dall’Italia: abbiamo dovuto lavorare sottoterra e sott’acqua per mesi e mesi, andare a rimettere in moto investimenti che, in taluni casi, non erano nell’interesse delle grandi aziende, perché avrebbero portato efficienza e concorrenza e quindi prezzi più bassi. Abbiamo lavorato su questo per un anno e mezzo, il Ministero ci ha messo l’anima, è stato un progetto in cui tutti gli aventi interesse e tutti gli attori del mercato hanno potuto portare il loro contributo. Ma alla fine l’Italia si è data, dopo 28 anni, una strategia energetica nazionale che non solo sta cominciando a far scendere i prezzi, non solo ha riportato il prezzo del gas all’ingrosso a livello europeo, quando era oltre il 20% sopra, ma ha messo in moto quel grande mondo della green economy che per l’Italia potrà essere motore di crescita. Quindi si può, bisogna tenere la schiena dritta, bisogna avere una visione di medio periodo, perché nel breve non paga, anzi, ti fai tanti nemici. Però si può. L’unica cosa che ci portiamo dietro è che è venuto chiaramente meno il dogma che lo sviluppo nasca dalla contrapposizione degli interessi o degli egoismi. Grazie per avermi invitato per la prima volta, in dieci anni, senza un titolo davanti. L’ho molto apprezzato. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Così si capisce che più dei titoli ci interessano le persone. Io, signor Ministro, sono mortificato di chiederle la sintesi, ma…

GRAZIANO DELRIO:
La passione per la realtà quotidiana implica anche che alle 20.30 si faccia presto. Rispondo telegraficamente alle idee nuove: come mi pare sia stato detto bene dal dottor Lombardi, noi abbiamo bisogno di più Europa, adesso. Una grande idea nuova. Sono stato recentemente al museo De Gasperi per la lettura De Gasperi a Pieve Tesino. Noi abbiamo bisogno di più Europa, abbiamo bisogno dell’Europa dei nostri padri fondatori, di un’idea di Europa nuova, diversa, perché siamo comunque ancora – non dobbiamo deprimerci troppo – la prima manifattura per valore aggiunto rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. Siamo un grande progetto di inclusione di popoli, un grande progetto di culture, siamo ancora i custodi del più grande patrimonio di storia dell’umanità. Ho discusso qualche giorno fa con i miei figli perché sono tutti innamorati dell’America: a me, l’America, dove sono stato per lavoro, mi fa un po’ schifo, come città. Come cavolo fai a stare bene a Detroit o a Fort Worth o a Dallas? Non c’è una piazza dove puoi sederti. Abbiamo bisogno di avere più coraggio sull’Europa, l’Europa non può essere solo quella dei padri fondatori, deve essere quella dei figli fondatori. Se potessi, direi ai miei figli: prendete in mano l’Europa, rifatela vivere come un grande progetto di nazioni che si sviluppano insieme, con questa grande capacità di fare rinascere, in Europa, una nuova stagione di umanesimo e di relazioni, di scambi, e tutto quello che ne consegue. La seconda questione di una grande idea nuova di questo Paese è la manutenzione. Questo Paese ha bisogno di manutenzione, abbiamo bisogno di concentrarci non solo sulle visioni ma anche sulle manutenzioni. Quando decidiamo una cosa, poi questa cosa va seguita. Abbiamo deciso di abolire – Corrado, ti ricordi? -, con la spending review, la gran parte degli enti intermedi di Province, Regioni, Comuni, così facciamo contento Bonanni, sono circa 6, 7.000. Poi, in realtà nessuno si mette lì a fare quel lavoro! Se non facciamo un po’ di manutenzione quotidiana con disciplina e rigore, perdiamo, tutte le decisioni che prendiamo, non contano più nulla. E quindi nasce poi il cinismo verso la politica, perché il cinismo nasce dal fatto che la politica non realizza le cose che promette. In secondo luogo, perdiamo miliardi dai Fondi europei. Noi rischiamo di perdere ancora miliardi dai fondi europei perché, quando c’era la Cassa per il Mezzogiorno – era un organismo di tecnici invaso da politici, è diventato un organismo inutile ed è stato giustamente abbandonato – noi usavamo i Fondi europei come li usa la Polonia. Adesso rischiamo di perdere, da qui al 2015, 30 miliardi di euro. Ce lo possiamo permettere? Quindi, abbiamo bisogno di gente che si mette lì a lavorare tutti i giorni, a fare i progetti, la rendicontazione e ad accettare la disciplina della vita, che è svegliarsi al mattino e dire: oggi faccio il mio dovere. Questa sarebbe una vera rivoluzione.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Vi ringrazio per l’attenzione e penso che saremo tutti più capaci di fare manutenzione. Grazie.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

22 Agosto 2013

Ora

19:00

Edizione

2013

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri