PER NON VIVERE ASTRATTAMENTE. Reading su Pasolini

Partecipa Davide Rondoni, Poeta e Scrittore. Introduce Davide Perillo, Direttore di Tracce.

 

PER NON VIVERE ASTRATTAMENTE. Reading su Pasolini
Ore: 15.00 eni Caffè Letterario A3
Partecipa Davide Rondoni, Poeta e Scrittore. Introduce Davide Perillo, Direttore di Tracce.

DAVIDE PERILLO:
Buon pomeriggio, benvenuti a quest’incontro. Se siamo qua oggi, è per un motivo molto semplice perché pochi, pochissimi intellettuali, direi pochi uomini, hanno saputo leggere quello che gli stava accadendo intorno, hanno intuito, letto l’emergenza uomo come ha fatto Pasolini. Abbiamo presente tutti i suoi scritti, abbiamo presente le Lettere luterane, abbiamo presente gli editoriali del Corriere, abbiamo presente la mutazione antropologica che è riuscito a leggere in quello che stava accadendo alla realtà, come se l’uomo stesse cambiando i suoi connotati. Abbiamo presente quell’espressione bellissima perché sintetica, lucida e tragica, con cui ha contrassegnato l’emergenza uomo che vedeva attorno a sé, l’omologazione, come se tutto portasse a livellare il desiderio, l’Io, la persona, a rendere tutto uguale. Ecco, Pasolini è stato, direi è, perché è di un’attualità impressionante, un uomo che ha letto e legge la condizione in cui siamo, l’emergenza uomo, come pochi altri. Il momento di oggi è un aiuto a cercare di capire, ad entrare, ad avere qualche chiave di lettura che ci permetta di guardare la realtà, per quanto possibile, con gli occhi che Pasolini aveva, ad accorgerci anche noi, un po’ di più, che cosa sia quest’emergenza uomo. E lo facciamo con un ospite che evidentemente non ha bisogno di presentazioni, Davide Rondoni. Gli cedo la parola perché ci aiuti ad entrare nel lavoro di Pasolini ma soprattutto nel suo sguardo. Grazie.

DAVIDE RONDONI:
Grazie a Davide Perillo. Certo che parlare dopo pranzo di Pasolini non sarà facile, soprattutto sarà più difficile ascoltarle, per cui spero che i pochi appunti che proverò a dare di una lettura possibile di questo grande autore siano almeno come piccoli semi, piccole finestre che si aprono: poi ognuno si farà il suo viaggio in Pasolini che, come tutti i poeti – e Pasolini fu principalmente un poeta, lui stesso affermava questa cosa, pur avendo fatto sia cinema che narrativa e altro – ha un mondo. La parola poesia, come sapete, viene dal greco poieo (ποιέω), fare, e non solo perché i poeti fanno un’opera, nel senso che fanno una poesia come un altro fa una sedia o una bottiglia, cioè fa una cosa che poi rimane, mentre lui va via, muore, scompare, la cosa rimane. Ma poieo (ποιέω) significa che c’è un aspetto creativo analogo, non simile, naturalmente, a un mondo. Mentre l’unico che crea il mondo, che è il buon Dio, lo crea da zero, il poeta, poieo (ποιέω), crea ma partendo da qualcosa che esiste e da cui deve trarre l’ispirazione. Mentre Dio si auto ispira, il poeta ha bisogno dell’ispirazione, deve prendere il fiato da qualcos’altro, per creare qualcosa che, appunto, è come un mondo, perché qualsiasi poesia leggiate, di qualsiasi autore, è tendenzialmente inesauribile, non solo perché è inesauribile la biografia della persona che l’ha scritta che, come la biografia di tutti, è un mistero. Nessuno di noi può essere leggibile fino in fondo, per fortuna, ma anche un verso, un’opera d’arte creano sempre un mondo, per cui di un’opera d’arte, che sia di Michelangelo o di uno alle prime armi, se è minimamente un’opera d’arte, se ne può parlare tanto come di un mondo intero, perché appunto crea un mondo. E Pasolini ha creato un mondo dentro cui si può stare tanto, si può viaggiare tanto, dentro cui si può viaggiare e tornare, ricominciare. La prima cosa è che Pasolini continua: giustamente Perillo diceva è, non era. Non c’è cosa peggiore per un autore, diceva Pasolini, che non essere capito. Non “esser ascoltato”, perché si può anche durare, come ascolto, ma se non si è capiti, se non si è compresi, se non si è affrontati, puoi anche esistere nelle biblioteche, per quello che vale. Ecco, Pasolini sicuramente è uno degli autori che non sta fermo nelle biblioteche, a differenza di altri autori, anche importanti del Novecento Italiano, che magari li hanno messi nelle biblioteche, stanno lì e stanno abbastanza bene. Pasolini deborda dalle biblioteche, continua a provocare, continua a esistere. E questa sua forza di provocazione la si vede, secondo me, da una cosa che lo accomuna a tanti altri grandi autori, sicuramente al più grande di tutti che è Dante, e il nome non è casuale perché, chi ha letto un po’ di Pasolini, sa che Dante contava molto per lui. Addirittura Pasolini scrisse in terzine dantesche molte sue opere, in endecasillabi, prese proprio la forma di Dante. La questione che rende Pasolini attivo, una voce che ancora si ascolta, è perché Pasolini continua a portare una contraddizione. Portare una contraddizione per un autore non è portare un discorso contraddittorio, non è appena portare un discorso contro qualcuno ma è vivere una contraddizione, è essere una contraddizione. Un autore che continua a essere in qualche modo provocante, stimolante, suggestivo per quello che si vive, anche dopo anni che è morto, evidentemente ha una forza di contraddizione che continua ad essere viva. E la forza di contraddizione di un autore non è appena il suo discorso, è tutto quel mondo che dicevo prima, che non è contradditorio appena perché ha delle contraddizioni interne. Chiunque abbia letto lo Zibaldone di Leopardi, vede quante contraddizioni ci sono. Baudelaire ha scritto I fiori del male, che è una contraddizione già nel titolo. I grandi autori portano una contraddizione ma la portano perché la vivono, perché la soffrono, non appena perché la sanno e la ripetono. E Pasolini è uno di questi autori, è una contraddizione, non appena ne parla. Questi autori risultano sempre, come si dice in maniera a volte retorica, “contro il potere”, non appena perché alcuni di questi hanno anche svolto un’azione agonistica, a volte anche politica, direttamente contro il potere. Pasolini secondo me appartiene più a questi secondi che ai primi, nonostante una certa lotta politica che agli esordi circondava la figura di Pasolini. Pasolini, come tanti altri importanti, è contro il potere perché il potere tende ad eliminare proprio la contraddizione. Per il potere, qualsiasi potere – politico, economico, tecnologico, ecclesiastico – ha un solo modo per affermare se stesso fino in fondo: negare che ci siano contraddizioni. Per questo, il potere si propone come affidabile, come padrone, dice: “Se stai con me, non ci saranno più contraddizioni, se segui quello che io ti propongo, non sentirai più contraddizioni”. I poeti servono per dire: “No! Le contraddizioni ci sono! Continua ad esserci contraddizione”. E’ il motivo per cui, per fare esempi che tutti conosciamo, Leopardi, pur non essendo come sapete un’attivista politico, è sempre un antidoto al potere. Perché Leopardi continuava a mettere in scena una contraddizione insanabile nella vita dell’uomo, nel momento in cui il potere del momento, sia quello ecclesiastico di tipo spiritualista sia quello di tipo positivista, sia quello di tipo relativista, tendeva ad affermare invece che ci avviavamo verso un periodo senza contraddizioni, in cui la scienza e una certa filosofia avrebbero appianato le contraddizioni della vita. Un autore diventa contro il potere anche quando non fa quasi niente: pensate alla sorte capitata ad alcuni grandi autori, penso all’Unione Sovietica ma non solo, anche al povero Pound, che è stato l’ultimo prigioniero di guerra fatto dagli americani, l’unico prigioniero che gli americani hanno fatto nella seconda guerra mondiale. L’hanno tenuto in manicomio per venticinque anni – quindi, i vari imperi si assomigliano, in questo senso – perché, per l’esistenza stessa della sua opera, continuava a mettere in scena una contraddizione che il potere non sopportava, perché il potere non è, non può essere contraddittorio. Pasolini, invece, mise in campo nella sua opera, nella sua stessa figura, nel suo stesso corpo, questa contraddizione. Per questo risultava, non insopportabile al potere: io l’ho anche scritto, scatenando qualche reazione dei pasoliniani, perché Pasolini scriveva sulla prima pagina del Corriere della sera, ed è difficile che un autore che dà politicamente fastidio scriva sulla prima pagina del Corriere della sera. Il potere su questo sta molto attento, a chi fa scrivere in prima pagina e a chi non fa scrivere. E quindi, né Pasolini né Testori, per esempio, un altro autore che scriveva in prima pagina sul Corriere della sera, erano fastidiosi a un livello superficiale e politico. Ma quello che hanno rappresentato, come opera e come figure, ha portato una contraddizione al potere che pure li lasciava scrivere, dava loro dei posti di lavoro. Ha portato una contraddizione di cui quel potere lì nemmeno si accorgeva. Perché non era una contraddizione di tipo politico, non era di tipo piattamente polemico, dialettico. Fosse stata così, poteva starci: il potere dimostra la propria forza anche quando ti fa fare la parte del protestatario. Dice: “Bene, tu fai la parte di quello che protesta”, e te lo fanno fare. Su questo, sia gli americani che i russi sono fortissimi: pensate all’esempio che tutti hanno visto in cronaca, i famosi film anti-americani che vincono l’Oscar. Per cui, Moore fa tutta la polemica antiamericana, i fucili, le pistole, ecc. e gli americani cosa fanno? Bravo! Bravo! Sei nostro! Perché se il potere ti dà il premio, ti dà la prima pagina, cosa succede? Dice che in qualche modo puoi starci, c’è anche la tua parte. Ma nel caso di Pasolini – citavo Testori, si possono fare altri esempi – la contraddizione portata non era a quel livello. Infatti, mentre i potenti del tempo sono muti, non ci dicono più niente, Pasolini continua a parlarci. E uno dei modi migliori per capire Pasolini, è andare a vedere la mostra sull’agricoltura che qua hanno fatto i nostri amici di Euresis. L’altro giorno me l’hanno spiegata: se voi guardate quella mostra, alla fine c’è un grafico dove vedete che il rapporto con l’agricoltura, nei millenni della storia dell’umanità, è rimasto più o meno sempre uguale fino agli anni ’50, che sono esattamente gli anni in cui Pasolini inizia la sua questione. Perché il rapporto con la terra, che era una cosa importante, definitiva, definitoria del lavoro umano, è stato più o meno simile. Chi di noi ha genitori o nonni di una certa età, può veramente documentare questo fatto, che ad un certo punto è cambiato il mondo. Per millenni è sembrato uguale a se stesso, poi è cambiato. E questo cambio avviene storicamente, esattamente negli anni ’50, quando cambia un certo modo di coltivare, di sfruttare la terra, ecc. Pasolini diventa adulto, da ragazzo che era, esattamente in quel momento e capisce che sta cambiando il rapporto con la realtà. E c’è il suo articolo, il più famoso che abbia scritto, il famoso articolo delle lucciole dove esattamente dice questa cosa: dice che coloro che avevano il potere, cioè la responsabilità di gestione dell’Italia in quel momento, i democristiani, non hanno capito niente. Non hanno capito questo cambiamento. Continuavano, secondo lui, anche con l’appoggio della Chiesa che manovrava le masse rurali, secondo la sua idea marxista. Sapete che Pasolini era uno di famiglia cattolica, che poi ha abbracciato il marxismo, con una serie di problemi, anche perché era stato accusato di pedofilia, diremmo oggi, quindi il Pc lo aveva cacciato e gli aveva tolto l’insegnamento in Friuli, insomma, una vita contraddittoria. Qualche mese fa ero negli Stati Uniti, all’Università di Yale: siccome si parlava di letteratura e impegno, a un certo punto ho detto: “Bene stiamo parlando di un pedofilo. Cosa facciamo, continuiamo o smettiamo? Pasolini era pedofilo perché era uno che andava a raccattare i ragazzini nella stazione di Termini, li pagava, un po’ come facevano i preti nei confessionali, uguale, sfruttando la sua posizione. Cosa facciamo, continuiamo a parlarne oppure, siccome è un pedofilo, lo buttiamo via?”. Capite che l’ambiente si è un attimo fermato, però il problema rimane. Parlavo di Pasolini e di questo suo articolo, Le lucciole, dove lui si scaglia più chiaramente, lucidamente, usando questa metafora: gli anni ’50 sono un periodo in cui scompaiono le lucciole. L’uomo è cambiato, nel rapporto con la natura, per cui quello che sembrava far parte del panorama normale, le lucciole di sera nei campi, non ci sono più. In realtà sono tornate, per esempio a casa mia ci sono, ma Pasolini vede questo cambiamento e scrive: “Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento nei potenti democristiani: in pochi mesi essi sono diventati delle maschere funebri. E’ vero, essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera beata luce di buon umore quando non si tratta dell’ammiccante luce dell’arguzia e della furberia – e qui tutti capivano di chi stava parlando Pasolini, Andreotti, Fanfani, i potenti di allora -, cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili, in cui galleggiano i flatus vocis delle solite promesse stereotipe. In realtà, essi appunto sono delle maschere. Son certo” senti che pezzo tremendo “che a sollevare quelle maschere non si troverebbe nemmeno un mucchio d’ossa o di cenere. Ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice, oggi in Italia c’è un drammatico vuoto di potere, ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo e esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale né infine un vuoto di potere politico, in un qualsiasi senso tradizionale, ma un vuoto di potere in sé”.
L’accusa che Pasolini porta è dire: voi che avete in mano il Paese, avete in mano il potere in Italia, non capite cosa sta succedendo, anzi, proprio perché non lo capite, seguite l’onda – traduco – dell’affermazione di un potere totalitario e omologante, che è il potere di stampo tecno-consumistico, per cui l’imperativo è alla gente: consumate, siate felici perché consumate. E Pasolini, occultamente, diceva: voi venite dalla tradizione cattolica, avete il Vangelo in tasca, andate a messa, e non capite questa cosa, non vedete questa cosa, non la interpretate perché sotto questa maschera non c’è più niente. Sono parole molto dure, massimaliste, si potrebbe dire, a cui non a caso però, dopo un po’ di tempo, non molto prima di morire, Giulio Andreotti, che era una delle maschere polemiche di questo attacco di parole di Pasolini, rispose in un recente articolo su una rivista romana, dicendo: “Pasolini aveva ragione”. O meglio, aveva ragione perché, dice Andreotti, “in un modo massimalista, al quale però noi rispondevamo con un altro massimalismo”, e questo riguarda quello che accennavo all’inizio, del potere che dà i ruoli anche ai contrastanti. Andreotti e altri hanno detto: “Di cosa diceva Pasolini sul Corriere della Sera non ce ne fregava niente. Per noi Pasolini era uno che andava fuori dalla caserma, prendeva i ragazzini, chiuso il problema, non esisteva”. Cioè, al potere di allora, per quanto uno urlasse dalle prime pagine del Corriere della Sera, non gliene fregava niente di quello che diceva, perché i problemi per loro erano altri. E questo accade spesso, che uno scrittore parli, dica delle cose e non lo ascoltano, giustamente, secondo loro, perché sono occupati a fare altro, e dopo quarant’anni dicono: “Ah però, cavolo…”. Infatti, Andreotti dice: “Noi rispondevamo con un massimalismo perché a questa sua accusa – naturalmente molto più articolata, io adesso la sintetizzo – noi rispondevamo con un altro massimalismo che è invece il progresso economico del Paese”. Come a dire: Pasolini, cosa rompi le balle, che qua la gente finalmente c’ha la lavatrice in casa!. Tant’è vero che Andreotti, da ragazzo intelligente quale era, nonostante fosse colpevole, secondo me, di una gravissima mancanza culturale dell’Italia, Andreotti e tutti i suoi consimili democristiani, i cui figli governano la Rai di oggi, producendo lo schifo che producono, chiusa la parentesi, che se andate a vedere i cognomi della establishment della Rai, fa abbastanza impressione: Andreatta, Del Noce, Leone: come mai sono lì? Vabbè, chiuso il problema.

DAVIDE PERILLO:
Si diceva, Pasolini?

DAVIDE RONDONI:
Paura, eh? Ed è solo l’inizio! Dicevo, rispondeva Andreotti: “Noi avevamo questo massimalismo che è il massimalismo del progresso”. Ma Andreotti acutamente dice: “perché per me” e qui scattava anche un problema generazionale, va tenuto presente “la lavatrice in casa corrispondeva al fatto che pensavo alle mani di mia madre screpolate per come lavava i panni”. Quindi Andreotti associava il fatto che più lavatrici, meno mani di donne screpolate e mani di sua mamma screpolate. In questo senso c’era una retorica, chiamiamola, in senso positivo, del progresso, lo sviluppo, che sembrava almeno altrettanto forte, anzi, più forte di quello che Pasolini diceva: Attenzione, non state capendo come il mondo sta cambiando. I potenti di allora si adagiarono in questo trend per cui il progresso era un miglioramento della vita, ma Andreotti tardivamente, ma almeno onestamente lui (altri non l’han fatto), ha detto: “Pasolini, però, in qualche modo mi stava ricordando che non di solo pane vive l’uomo”. Quindi, il poeta pedofilo ricordava al vecchio cattolico democristiano che non di solo pane vive l’uomo. Se n’è accorto un po’ dopo, ma è così. Questo aspetto polemico ha un aspetto che sorprende molti osservatori, allora e ancora oggi, perché Pasolini cosa fa? Rispetta quelli che in quel momento sembrano prender su le bandiere e poi qualcuno anche le armi, ma in quel momento solo le bandiere, per contrastare appunto i vecchi matusa democristiani dell’assetto del potere italiano e nel mondo, non solo in Italia, cioè il ’68. Pasolini si rivolge ai sessantottini dicendo: non capite niente, la vostra rivoluzione, che sembra essere contro questo potere, lo stesso contro cui anch’io mi sto scagliando, la vostra rivoluzione non fa altro che perpetuare quel potere. E lo fa in maniera molto violenta, molto forte, molto acuta. Vi leggerò un pezzo della poesia, perché Pasolini capisce appunto che in realtà questa rivoluzione di stampo borghese – borghese vuol dire che non nasceva veramente dalla gente ma da certe élite culturali dei figli di papà, lui li chiama così in maniera molto violenta, facendo naturalmente arrabbiare i sessantottini, che sono quelli che hanno preso poi il potere in Italia negli ultimi 30 anni, questo va detto. ai quali i vostri genitori hanno delegato il compito di far finta che tutto cambi per rimanere tutto come prima. Queste parole ascoltate oggi fanno impressione perché, se noi vediamo come la cosiddetta ansia di autenticità si è risolta in zero dopo il ’68, uno può dire che è stata la sconfitta del ’68. Qualcuno invece – Pasolini direbbe così – che è stata esattamente la realizzazione del ’68, cioè la debolezza culturale del ’68, che ha prodotto non più autenticità ma, come sanno bene gli insegnanti, i professori e anche gli alunni giovani, più burocrazia, perché paradossalmente l’esito del ’68 è stata più burocrazia. L’aveva già detto allora, in una poesia esattamente del ’68 che vi leggo, dove dice, parlando dei sessantottini che avevano fatto una certa manifestazione a Valle Giulia, a Roma: “Io sto dalla parte dei poliziotti”. Questo scandalizzò, perché l’intellettuale di sinistra schierato che stava con i poliziotti invece che con i giovani sessantottini, era una cosa contraria a qualsiasi previsione e principio. E Pasolini dice a questi ragazzi: “Adesso i giornalisti di tutto il mondo, compresi quelli delle televisioni, vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio goliardico) il culo. Io no, cari. Avete facce di figli di papà. Vi odio come odio i vostri papà, buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo, siete pavidi, incerti, disperati. Benissimo, ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte con quei poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti, perché i poliziotti sono i figli dei poveri. Vengono da suburbie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene il loro modo di essere stati bambini e ragazzi, le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui a causa della miseria che non dà autorità. La madre incallita come un facchino, o tenera per qualche malattia, come un uccellino. I tanti fratelli, la casupola tra gli orti con la salvia rossa, in terreni altrui lottizzati, i passi sulle cloache, gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari.”. Eccetera, eccetera. Qui, come una specie di botta nei denti all’intellighentia di quel momento, tutta invece molto prona ad applaudire al ’68, Pasolini fa questa poesia molto lunga, andatela a leggere, perché è molto bella, dove dice una cosa molto forte. Vi leggo questo brano: “Parlando chiedete tutto a parole, mentre coi fatti chiedete solo ciò a cui avete diritto. A parole chiedete tutto, mentre nei fatti chiedete solo ciò a cui avete diritto, da bravi figli borghesi. Una serie di improrogabili riforme, l’applicazione di nuovi metodi pedagogici, o il rinnovamento di un organismo statale. Bravi, santi sentimenti! Che la buona stella della borghesia vi assista! Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti della polizia, costretti dalla povertà a esser servi, e ubriacati dall’interesse dell’opinione pubblica borghese con cui vi comportate come donne non innamorate, che ignorano e maltrattano lo spasimante, mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso per combattere contro i vostri padri, ossia il comunismo”. Da comunista a questa rivoluzione para comunista del ’68, Pasolini dice: avete messo da parte esattamente la cosa che la contraddistingue, cioè il comunismo. Che evidentemente non è il comunismo leninista ma è il comunismo tradizional-popolare di Pasolini. E possiede quest’accento (chi ha orecchie per intendere, intenda). Dice: “Spero che l’abbiate capito che fare del puritanesimo è un modo per impedirsi la noia di una azione rivoluzionaria vera”. Fare del puritanesimo: bisognerebbe fermarsi a ogni verbo, mi fermo solo poche volte. Chi è il puritano? E’ quello che pretende la perfezione e dice di avere le mani pulite, per usare un gergo che tutti capiamo, è come dire: quelli sono la casta, io sono quello pulito, quelli sono i ladri. Fare del puritanesimo è un modo per impedirsi la noia di un’azione rivoluzionaria vera, perché l’azione rivoluzionaria vera è noiosa, nel senso che ti obbliga a sporcarti le mani, a mettere le mani in pasta, a sentire l’attrito della realtà. Non è un’azione romantica, la rivoluzione, è un’azione noiosa, cioè ti obbliga a sporcarti le mani, e quindi fare del puritanesimo è un modo per evitare la rivoluzione, di fare la rivoluzione veramente. E infatti noi abbiamo visto in questi anni tutta la retorica puritana della società italiana che non ha prodotto un cazzo di cambiamento. Cioè, ha prodotto un sacco di giornali, un sacco di cose e ha prodotto qualche cambiamento politico di superficie. Prendete l’ultimo caso: l’onda Grillo, cos’ha prodotto? Un governo Pdl-Pd. Una strana, strana rivoluzione, no? E non è ancora finita. Il puritanesimo evita la noia della rivoluzione vera, e poi sentite questo pezzo, lo leggo senza fermarmi a commentare, sperando che andiate poi a rileggere e a fermarvi. Dice: “Oh, generazione sfortunata! Cosa succederà domani se tale classe dirigente, quando furono alle prime armi non conobbero la poesia della tradizione” cioè questi manifestanti che saranno la classe dominante domani e sono diventati classe dominante ieri e oggi “cosa sarà di loro che non hanno conosciuto la poesia della tradizione né fecero un’esperienza infelice” come quasi tutti nelle scuole italiane fanno un’esperienza infelice della poesia della tradizione “perché senza sorriso realistico” tenete in mente questa espressione “gli fu inaccessibile, e anche per quel poco che la conobbero dovevano dimostrare di voler conoscerla, sì, ma con distacco, fuori dal gioco!”. La conoscenza dell’arte e della tradizione, ma come con distacco dicendo: sì, non mi riguarda più, la posso studiare ma non ci appartengo, non la discuto, non la metto in questione, io, so cosa ne dicono i critici, so cosa ne dicono i manuali ma non io! “Oh generazione sfortunata, che nell’inverno del ’70 usasti cappotti e scialli fantasiosi e fosti viziata! Chi ti insegnò a non sentirti inferiore? Rimuovesti le tue incertezze divinamente infantili, i libri, i vecchi libri passarono sotto i tuoi occhi come oggetti di un vecchio nemico. Sentisti l’obbligo di non cedere davanti alla bellezza nata da ingiustizie dimenticate, fosti in fondo votata ai buoni sentimenti”. I buoni sentimenti sono quelli a cui tutti fanno riferimento, anche oggi. A me capita spesso, girando in luoghi dove si insegna la letteratura: l’importante è la passione. Questa continua evocazione dei buoni sentimenti: non è vero! L’importante non è la passione, non che sia sbagliata, la passione, ma non è l’importante perché non basta, la passione. La passione di per sé anzi può produrre un sacco di fregnacce. I buoni sentimenti sono la cosa a cui ci si appella quando non c’è rapporto con la cosa. E Pasolini l’aveva già detto: “Fosti in fondo votata ai buoni sentimenti, da cui ti difendevi come dalla bellezza con l’odio razziale contro la passione, venisti al mondo che è grande eppure così semplice, e vi trovasti chi rideva della tradizione. E tu prendesti alla lettera tale ironia infinitamente ribalda. Questi giovani trovarono chi rideva della tradizione”, cioè i loro padri, i loro maestri, e questi maestri già ridevano della tradizione prima del ’68. Loro non hanno fatto altro che prendere alla lettera quella irrisione, l’hanno portata fino in fondo ma era già prima: chi conosce un po’ di storia della letteratura, dell’arte, della politica, le sa queste cose. E’ ben prima del ’68 che inizia un distacco dalla tradizione, un’irrisione della tradizione, erigendo barriere giovanili contro la classe dominante del passato, la gioventù passa presto! “Oh generazione sfortunata, arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia, senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere, e che non si gode senza ansia e umiltà. E così capirai di aver servito il mondo contro cui con zelo portasti avanti la lotta”. Hai servito con zelo il mondo contro cui pensavi di lottare! Pensate a quando Ratzinger dice: “Viviamo in un Occidente che comincia a odiare se stesso”. E’ questo che la poesia ha capito: c’era una generazione prima del ’68 (gli anni ’50, appunto) che ha cominciato a odiare se stessa e la propria tradizione, e ha dato in carico, diciamo così, ai propri figli di fare il lavoro sporco, di far finta di fare la rivoluzione per continuare questa irrisione, per sostituire alla bellezza l’organizzazione, per sostituire alla forza e anche alla demenza di fronte alla bellezza, per sostituire con questo la democrazia. Era esso che voleva far piazza pulita del passato: il suo “Oh, generazione sfortunata! E tu obbedisti disobbedendo”. Era una apparente disobbedienza ma stavi obbedendo! Era quel mondo a chiedere ai suoi figli di aiutarlo a contraddirsi per continuare. Vi troverete vecchi e senza l’amore per i libri e la vita: perfetti abitanti di quel mondo rinnovato attraverso le sue reazioni e repressioni. Sì, è vero, ma soprattutto attraverso voi, che vi siete ribellati proprio come esso voleva. Poi, sentite: “Automa in quanto tutto”. Automa in quanto tutto vuol dire un mondo in cui ci sono ideologie che presumono di legger tutto. Non rimane fuori niente, non c’è la contraddizione, non c’è il segreto: leggo tutto, e per questo tutto è automa, cioè automatico, è prevedibile. Ci sono libri, come i libri di quegli anni – sto per scrivere uno strano libretto, tra gli altri che scrivo di strani sull’amore, che è un grande tema -, se andate a leggere alcuni libri degli anni ’70 sull’amore, tipo Roland Barthes, il famoso Frammenti di un discorso amoroso, vedete che c’è la preoccupazione, in quanto detentori di un discorso che era quello storicista-marxista, che presumeva di leggere tutto, anche la società nelle sue estreme periferie. Applicano la stessa cosa al discorso sentimentale, all’affetto, all’amore, all’eros, producendo disastri infiniti. Lo leggerete, se vorrete. Automa in quanto tutto, cioè automatico e prevedibile in quanto tutto. Sentite che bello: “Non vi si riempirono gli occhi di lacrime contro un battistero, con caporioni, garzoni intenti di stagione in stagione, né lacrime aveste per un’ottava del ’500, né lacrime intellettuali, dovute alla pura ragione”: non lacrime di buoni sentimenti ma lacrime di giudizio. La commozione vera è quella del giudizio, non quella della commozione che passa dopo un minuto. Non avete lacrime intellettuali, cioè di giudizio, cioè di esperienza vera. L’esperienza è il giudizio, non è quello che passa sulla pelle: non aveste commozione, non aveste lacrime intellettuali, non riconosceste i tabernacoli degli antenati nelle sedie dei padri-padroni dipinte, ecc., irrigiditi contro tutto ciò che non sapesse di buoni sentimenti. E finisce: “Povera generazione calvinista!”. Si rivolge agli italiani, evidentemente provenienti dal mondo cattolico come tradizione abbandonata. “Puri – noi siamo i puri, voi no – povera generazione calvinista, come all’origine della borghesia, fanciullescamente pragmatica, puerilmente attiva, tu hai cercato salvezza nell’organizzazione, che non può altro produrre che altra organizzazione”. Bellissimo! Bellissimo e tremendo. Per chiunque di voi viva in qualsiasi ambiente, sembra che il problema sia sempre organizzativo. Come quelli che vengono al Meeting la prima volta e dicono: “Ma qual è il segreto del Meeting?”. Pensano che sia un principio organizzativo. “Come fate ad avere questi ragazzi con voi?”, come se fosse un problema organizzativo. “Quale organizzazione avete?”, perché tutti pensano che la vita dipende dall’organizzazione. Il problema è la scuola che non funziona? E’ un problema di organizzazione. L’università non funziona? E’ un problema di organizzazione! Si parte sempre lì e si finisce lì, producendo, come vediamo, sempre più democrazia. Non se ne può più. Tutti i tentativi di miglioramento, siccome sono ispirati a un principio organizzativo dalla vita, producono solo altra organizzazione, con cui la burocrazia giustifica se stessa e continua a soffocare la vita. Per questo Pasolini ha avuto un passo in avanti come alle origini – annotazione interessante, molto, per chi fa storia – della rivoluzione calvinista; nel ’68 c’è un altro passo in avanti di questo tipo. Per cui, foulard colorati, scialli meravigliosi, autenticità: il prodotto è più burocrazia. Una strana faccenda. Ma per andare più avanti, perché non voglio annoiarvi, questo è il punto che in qualche modo Pasolini contesta al ’68, creando un certo scandalo e obbligando tutti, se così si può dire, a leggere questo fenomeno in modo diverso. Trova pochi alleati, in questo, anzi, una parte naturalmente dell’ intellighentia di sinistra si scatena contro di lui. Per dare alcuni nomi, i signori che rispondono al nome di Umberto Eco, Calvino, Sanguineti. Quelli che poi hanno dominato la letteratura italiana, le accademie, non sopportavano Pasolini, Pasolini non doveva esistere, per questi signori. Perché appunto il principio organizzativo che questi avevano portato persino nella poesia non sopportava che ci fosse uno che nel 1970 scrivesse in terzine dantesche. Non esisteva, non poteva esistere. Allora questi signori, che sono quelli che hanno dominato e che dominano ancora in buona parte la cultura italiana, avevano nei confronti di Pasolini un atteggiamento tremendo, tremendo. Da dove veniva – così facciamo il secondo passo importante, “Le lucciole” nel ’68, che procede verso l’omologazione e non contro – questa questione? Pasolini aveva capito che stava succedendo qualcosa di importante, di epocalmente importante, millenni di rapporto con la realtà erano andati in crisi, stavano cambiando. Ma quasi nessuno parlava di questo. Nel ’54, anno significativo, evidentemente, succede che Pasolini scrive una lettera a un importante poeta cattolico, Carlo Betocchi, poeta enorme, il cui libro di poesie più importante si chiama Realtà vince sogno, si potrebbe parlare molto di questo, uno dei maestri in ombra della poesia italiana. Ma Pasolini prende Betocchi come interlocutore in un epistolario molto bello. Nel ’54, c’è una lettera in cui Pasolini, che veniva da una cultura cattolica, poi marxista, chiede a questo poeta – Realtà vince sogno – “cosa vuol dire essere realisti oggi”. Chi sa un po’ di storia della cultura, sa che sono gli anni in cui dall’Unione Sovietica arrivavano le grandi teorizzazioni sul realismo, chi ha un po’ di queste nozioni può inserire questa apparente pulce dentro un quadro in cui il realismo sovietico nella pittura, nell’arte, nella letteratura, era un grande tema mondiale, non solo italiano. Pasolini si rivolge a Betocchi, non a caso, non a Umberto Eco ma a Betocchi e gli chiede “cosa vuol dire essere realista”. E c’è uno scambio molto bello tra i due. A me ha sempre colpito questa coincidenza, lo dissi allora a un vecchio amico, perché don Giussani lo stesso anno, nel ’54, entra al Berchet, che era la scuola laica più importante di Milano, il liceo più importante, da cui uscivano le teste pensanti di Milano e, dovendo fare lezione di religione, sorprendendo tutti, parte dicendo “realismo”. Cioè, intendiamoci, cosa vuol dire essere realisti in questo momento, in cui Pio XII girava con la tiara e il popolo cattolico sembrava dominare l’Italia con la Democrazia Cristiana, il popolo comunista sembrava altrettanto forte, organizzato, in cui sembrava che tutto fosse abbastanza chiaro, in cui sembrava chiaro cosa fosse essere realisti, cosa fosse essere pragmatici, cosa fosse essere operatori di nuova società, cosa fosse il progresso. In un momento in cui sembrava che tutto fosse chiaro, alcuni dicono: qui non è chiaro invece cos’è il rapporto con la realtà, c’è qualcosa che non torna, c’è qualcosa che si sta rimettendo in questione. E don Giussani, che veniva dai seminari cattolici più tradizionali, da Venegono, Milano, la tradizione ambrosiana, non è isolato. Don Giussani ha sempre raccontato di un humus in cui queste cose venivano fuori nelle discussioni con i suoi amici, così come Pasolini evidentemente non era isolato, ma discuteva con alcuni, evidentemente in maniera più geniale di altri, capiscono che bisogna ridiscutere cos’è la nozione di realismo, non è chiaro, non è pacificato. Capiscono il nervo scoperto, che non si sa più cosa vuol dire il rapporto con la realtà, cioè l’uomo, per cui è inutile essere religioso se non sei realista, è inutile pensare di fare la rivoluzione se non hai il sorriso realistico. Non sto ad attardarmi su questo ma in pochi capirono questa genialità, tra gli altri, appunto, Pasolini. Ci sono pagine commoventi, andatele a vedere, quando Pasolini parla del retro delle ginocchia dei suoi compagni, con un’evidente sessualità di tipo omosessuale, quando parla di una carnalità irraggiungibile: “Il mio problema, il problema della mia vita l’ho cominciato a capire quando, osservando il retro delle ginocchia dei miei amici, sentivo sorgere in me lo struggimento per una carnalità irraggiungibile, e tutta la mia vita sarebbe stata attraversata da questo senso di qualche cosa di carnale ma al tempo stesso irraggiungibile”. Scusate, un po’ azzardando ma non troppo, che cos’è la traduzione possibile di una carnalità irraggiungibile se non il mistero dell’incarnazione? Solo un pazzo come me forse può dire questo, ma è così, perché cos’è la carnalità irraggiungibile che Pasolini sentiva nelle ginocchia convesse dei suoi compagni? Solo il mistero dell’incarnazione, all’opposto e positivamente. Ma così sentiva questo struggimento, e da lì parte tutta la sua carica poetica e politica che, unite insieme, lo conducono a questa ed altre questioni. Ma a che punto lo portano, soprattutto negli ultimi anni? A mettere in questione questo che lui chiama, prendendo l’espressione da un famoso libro del passato, il “tradimento dei chierici”. In Italia, dice, c’è un tradimento degli intellettuali, che guidano la gente – giornali, televisione, intellettuali, università -, tradendo la realtà: stanno prendendo in giro la gente. Lo dice verso la fine della sua vita, anzi, nel discorso che avrebbe dovuto fare al momento della sua morte. Voi sapete che Pasolini morì orrendamente, ci sono ancora tante cose aperte sulla sua morte: di fatto, la sua morte fu orrenda, qualcuno dice cercata ma fu orrenda. E Pasolini, nella sua opera, parla spesso di qualche cosa di orrendo che lo aspetta, perché, come dice uno dei suoi amici più cari che è Gianni Scalia, la cifra di Pasolini, come lui stesso diceva, “è una disperata vitalità”. Ma quando non sei più giovane, passa la vitalità e rimane la disperazione. E Pasolini questo lo sentiva, ne era l’icona, ne diventò l’icona anche fisica. E a un certo punto non poteva che gettare la sua disperazione da qualche parte, ma su questo tornerò alla fine. Come dicevo, Pasolini riconosce questa crisi del rapporto con la realtà e questo tradimento dei chierici: è l’ultimo discorso che doveva fare, il giorno dopo la sua morte, al congresso dei radicali. Qui occorrerebbe un po’ di nozione, Abruzzese potrebbe darvela, sull’Italia di quel momento, su cosa significavano i radicali, ma adesso non importa: in quel discorso, Pasolini, in maniera sorprendente, anche con una certa violenza, arriva a dire una cosa che adesso vi riassumo perché il discorso è molto lungo e molto complicato. Naturalmente, il mio è un invito a entrare nelle complicazioni e non ad uscirne, e quindi vedrete anche da soli la natura di queste cose. Però, in quel discorso, Pasolini arriva a dire un’espressione molto forte: “C’è stato questo tradimento dei chierici”. Lo dice ai radicali, quelli delle battaglie del divorzio, dell’aborto, Pasolini era contro l’aborto, si dichiarò contro l’aborto in quel momento perché capiva che l’aborto era una vittoria della borghesia, non era una vittoria dei poveri ma una vittoria della borghesia che stava riducendo l’umano al servizio dell’economia, per cui l’aborto era una vittoria borghese, tanto è vero che andò dai suoi amici dicendo “voi festeggiate questa vittoria”, anzi, lo disse addirittura del divorzio, pur essendo giustamente a mio avviso a favore del divorzio, perché non si può obbligare due a restare sposati ma l’aborto è un’altra cosa, per legge, intendo. Diceva: guardate che è una vittoria borghese, cioè una vittoria che va incontro a un’idea del desiderio della vita (l’aborto, ma lui diceva anche il divorzio) di fatto borghese, non è un problema dei poveri, il divorzio, è un problema dei ricchi. E andò dai radicali, che erano i grandi campioni di queste battaglie, dicendo: c’è stato un tradimento dei chierici, state attenti, perché useranno le parole vostre libertarie, cioè le vostre richieste di riconoscimento dei diritti, per una forza omologante del mondo. Quello che lui chiamava il tecnofascismo, non usava un altro termine. L’amico Magatti oggi l’ha chiamato il tecnonichilismo ma è uguale, cioè l’omologazione al servizio di un’idea tecnica della vita, organizzativa, automatica. L’idea che la vita è solamente un problema organizzativo da sistemare, che poi c’è il DNA, le cellule, il link sul computer o l’ideologia è lo stesso principio, un principio appunto organizzativo, automatico, economico nel senso delle forze economiche. Questo principio, diceva Pasolini, userà le vostre battaglie e le vostre parole libertarie, cioè dei vostri diritti e della libertà, per imporre se stesso. Dio sa come ha ragione! E dice addirittura, e qui ebbe un gran un colpo di genio: “Tant’è vero che i prossimi chierici”, cioè i veri chierici del futuro, i veri preti del futuro, “saranno progressisti”. I chierici dell’omologazione, quelli che un tempo sarebbero stati l’inquisizione spagnola, per avere un’immagine molto semplice, i vecchi preti che volevano tener sotto la gente, dice Pasolini, “saranno dei preti progressisti”, cioè si presenteranno con il nome delle parole del progresso e terranno la gente in questa omologazione di tipo tecnofascista. Io penso che chiunque di voi abbia in mente anche solo qualche faccia dei predicatori televisivi che ci hanno angustiato in questi anni, capisce cosa intendeva. Appunto, i nuovi preti sono questi, sono i progressisti che non sono progressisti per niente. Usano parole libertarie per asservire la vita a un’idea, di fatto, di tipo tecnocratico. Perché in realtà non gliene frega niente della vita! Quando il mio amico Benigni mi raccontava che lui e Santoro hanno lo stesso agente, ti fa capire che le prediche di Santoro in televisione non sono politica, sono spettacolo, infatti ha regalato tre punti di voti a Berlusconi. Cioè, recita una parte usando le parole della libertà, del progresso, ma in realtà sta facendo un’altra cosa. Stanno facendo soldi, intanto, molti soldi, e soprattutto stanno omologando il pensiero della gente a un pensiero unico che è appunto quello tecnocratico. Il problema non è Berlusconi o non Berlusconi, è un’altra cosa, un altro livello, che Pasolini aveva capito dicendo: a quel livello lì vi porteranno usando le vostre parole libertarie. Perché, finisco, questo pensiero apparentemente progressista, apparentemente libertario, in realtà antropologicamente non è diverso, non ha una diversità rispetto all’omologazione culturale di tipo tecnocratico, oggi diremmo anche finanziario ed economico. Tutti sanno che, non a caso, Marx era un economista, cioè non aveva un altro principio sulla vita. Per cui, è come se la realizzazione di oggi fosse questa. Pasolini in una poesia che si chiama proprio, se non sbaglio La realtà, scritta in una raccolta del ’64, fa una specie di riassunto di molte delle cose che vi ho detto prima, poi finisce dicendo: “Questo può urlare un profeta che non ha la forza di uccidere una mosca, la cui forza è nella sua degradante diversità”. Pasolini capisce che il suo destino è che ciò che lo mette da un’altra parte rispetto all’omologazione è una diversità, ma alla fine è una diversità degradante e questo fa tremare, perché Pasolini sapeva che era vero. La sua diversità era degradante, non la sua diversità in quanto omosessuale di per sé, ma come poi ha vissuto la sua diversità, lo sapeva benissimo che era degradante. E infatti Testori, che è un altro grande genio dello stesso periodo, quando Pasolini muore, scrive una cosa molto bella, molto umana e molto personale, perché dice in che cosa consisteva la diversità di Pasolini, che è degradante, non perché sia schifosa ma è degradante perché è come una domanda, come dice Pasolini stesso, è un urlo senza fine, una domanda senza fine, ed essendo senza fine, alla fine non può stare su, perché tu l’aria non l’abbracci, non puoi continuare ad abbracciare l’aria, a un certo punto questo abbraccio degrada, cioè cade. E’ degradante non appena perché può essere degradante per il fisico, la morale, l’anima, la faccia, quel che ti pare, non è che ti degradi in questo. Ti degrada se l’abbraccio con cui cerchi di soddisfare la mancanza – Testori lo dice meglio di me -, se non c’è una risposta, degrada. Non so se ho reso l’idea, spero. Testori dice, alla morte di Pasolini: “Quando ci si alza dai tavoli delle cene, perché gli amici non bastano più, quando non basta più nemmeno la figura della madre e si conosce il momento in cui dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo, come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro, di trovare un qualcuno, quel qualcuno che ci illuda, forse pure per un solo momento, di poter distruggere, annientare quella solitudine, di poter ricomporre quell’unità lacerata e perduta”. La diversità di Pasolini sta nell’avere continuato a mettere in scena questa unità mancante, questa mancanza. A tutti i livelli: non essersi affidato al potere per rispondere a questa mancanza, non essersi affidato ai soldi per questa mancanza, non essersi affidato all’economia, non essersi affidato nemmeno al sesso per coprire questa mancanza, perché non bastava, non basta. E infatti dice, in una poesia meravigliosa con la quale vado a finire, questo non più cattolico, marxista, un po’ pedofilo, sicuramente devastato nell’anima e nel corpo da tante cose, meglio di tanti altri ci dice cos’è il cristianesimo. Lui che, mentre faceva Il Vangelo secondo Matteo, famoso, bellissimo film, scriverà ad un frate con cui si consultava su come fare la cosa: “Io sono bloccato in un modo che solo la Grazia può sciogliere, sono bloccato”. E c’è un’altra poesia, che vi consiglio di leggere, che si chiama appunto Un affetto e la vita, dove vedete questo amore bloccato. Però nella poesia di cui vi dicevo scrive: “l’unica altra diversità possibile”. Oggi siamo in un’epoca che Pasolini non si immaginava nemmeno, un’epoca di omologazione tale che nemmeno lui immaginava, potentissima, di un potere tecnocratico, economico e fascista, non come i fascisti di una volta, che erano della buona gente, in fondo, molti di loro erano buona gente, ma fascista nel senso dell’obbligo, dell’imperio, molto più potenti di quello che Pasolini pensava. La diversità, appunto, oggi può essere o quella lì, quella mancanza che diventa degradante, oppure la diversità che Pasolini qui mostra di avere intuito in una poesia. Non a caso, una volta don Giussani mi disse che aveva intravisto Pasolini in aeroporto, non si erano mai parlati, non si erano mai conosciuti. E Giussani mi diceva: mi è sempre rimasto per tutta la vita il cruccio di non essermi avvicinato, di non essere andato. La poesia la scrive mentre sta facendo Il Vangelo secondo Matteo. C’è una prima parte dove lui mette in scena se stesso sugli aerei, lo scrittore di successo che gira, che beve champagne. Poi c’è un cambio, dalla prima alla seconda parte, che dice: “Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto in ogni mio intuire ed è volgare questo non essere completo, mai fui così volgare come in quest’ansia, in questo non avere Cristo”. Lui scrive questa cosa perché stava cercando l’attore per impersonare la figura di Cristo e non lo trovava, non trovava l’attore, poi trovò questo spagnolo che ha fatto solo quel film. Non trovava la faccia giusta, per questo diceva: io non trovo Cristo, non trovo la faccia. “Mai fu così volgare come in quest’ansia, questo non avere Cristo, una faccia che sia strumento di un lavoro non tutto perduto nel puro intuire in solitudine”. Questa, secondo me, è un’espressione sintetica bellissima, perché uno può capire cos’è Cristo solo se ha in mente Cristo come faccia di un lavoro, cioè non Cristo come una soluzione ma come “faccia di un lavoro che non sia perduto in un puro intuire in solitudine”. “Amore con se stessi senza altro interesse che l’amore, lo stile, quello che confonde il sole, il sole vero, il sole ferocemente antico, sui dorsi di elefanti e i castelli barbarici, sulle casupole del Medioriente col sole della pellicola pastoso, sgranato, grigio, biancore da macero e controtipato, controtipato con altrettanta fisicità che nell’ora in cui è alto e va nel cielo, verso interminabili tramonti di paesi miseri”.

DAVIDE PERILLO:
Davide, ti ringrazio molto di questo percorso perché è un percorso che apre tante porte, tante finestre in cui sarebbe bello e sarà bello entrare. Sicuramente pone problemi e non li risolve, è un’apertura e già questo è bellissimo, perché fa appassionare. Ma tra le tante domande che apre, ce n’è una che forse è più potente, o perlomeno io sento più potente, di fronte a un uomo così, di fronte a un grido così, a una contraddizione così, come la chiamavi tu: che cosa può abbracciare questa contraddizione? C’è qualcosa, c’è qualcuno che può accogliere, abbracciare un grido così? E attenzione, non risolverla, non scioglierla, non farla evaporare, ma che cosa può abbracciare un’umanità così? Cioè che cosa può rendere Pasolini ancora più compagno di cammino di quanto già sia? C’è qualcosa che può rendere Pasolini ancora più Pasolini? Un’umanità così, un’intensità così, una passione così, ancora più potente? Non che risolva il problema, ma che lo abbracci? Davanti a una questione di questo tipo, davanti a una domanda così, noi non possiamo barare, non si può rispondere con formule astratte, non si può rispondere con parole che non siano appunto esperienza. Perché la realtà reclama, è la realtà che grida, è il mondo di Pasolini intero che grida di fronte a questa mancanza. Allora, esiste qualcosa che può abbracciare un’umanità così? Noi possiamo rispondere a questa domanda soltanto se ci guardiamo intorno e vediamo se troviamo intorno a noi qualche sorriso realistico, come quello che dicevi tu, qualche faccia che abbia traccia di questo sorriso realistico. Se vediamo accadere qualcosa di questo tipo, se guardandoci intorno incontriamo qui qualcuno che è capace di leggere la realtà con quelle lacrime di commozione, che non sono sentimentali ma sono frutto di un giudizio, di una comprensione vera del reale. Guardiamoci intorno e vediamo se vediamo accadere queste cose, guardiamoci intorno e vediamo se intravediamo qualche faccia che, come ricordavi tu, sia “strumento di un lavoro non tutto perduto nel puro intuire”. Perché se intravediamo qualcosa di questo tipo, Pasolini ci diventa ancora più caro, perché ci aiuta a scoprire noi stessi e quello che abbiamo intorno. Grazie, buona serata e buon proseguimento.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

23 Agosto 2013

Ora

15:00

Edizione

2013

Luogo

eni Caffè Letterario A3
Categoria
Testi & Contesti