MISERICORDIA ED ESPERIENZA DEL PERDONO. RICOSTRUIRE UN MONDO NUOVO

Misericordia ed esperienza del perdono. Ricostruire un mondo nuovo

Misericordia ed esperienza del perdono. Ricostruire un mondo nuovo.

Partecipano: German García-Velutini, Presidente Banco Venezolano de Crédito; Oliverio González, Imprenditore, Messico. Introduce Fernando De Haro, Giornalista.

 

FERNANDO DE HARO:
Salve. Benvenuti a questo incontro sull’America Latina. Io non parlo italiano, parlo spagnolo, dunque avrete uno svantaggio ma anche un vantaggio, perché non parlerò molto. I giornalisti parlano sempre troppo. Questo incontro è dedicato alla misericordia, il titolo è Misericordia ed esperienza del perdono. Ricostruire un mondo nuovo. Abbiamo sentito in questi giorni che il cuore del Mistero è misericordia, perdono. Al cuore del Mistero manca il cuore dell’uomo, ma non possiamo essere banali. La parola con cui comincia il titolo di questo incontro è assolutamente impossibile: perdono, misericordia. E’ letteralmente impossibile, soprattutto se stiamo parlando di cose spirituali, ma anche della storia. Solo un avvenimento gratuito, qualcosa di imprevedibile consente di avere esperienza di questa parola impossibile: misericordia. Siccome è una parola impossibile, bisogna farne esperienza. Ieri Carrón diceva: non è la natura che salva, è qualcosa che accade, è qualcuno che ti chiama. Vediamo se questa mattina possiamo avere esperienza di questa parola, ascoltando i nostri ospiti. Vediamo cosa accade. Abbiamo con noi German Garcìa-Velutini, Presidente del Banco Venezolano de Crédito. E’ un uomo con una grandissima esperienza aziendale. Viene dal Venezuela, racconterà la sua esperienza. Oliveiro González, imprenditore, viene dal Messico. Dunque, partiamo dalla situazione dell’America Latina che ha un grosso problema, la violenza. Vediamo adesso un video per capire qual è la situazione normale di tanta gente a Caracas, a Messico di Jefe, in America Latina. Cominciamo con questo video che è forte.

Video

Adesso abbiamo una visione generale, possiamo toccare con mano come questa violenza colpisce, German.

GERMAN GARCÍA-VELUTINI:
Grazie, Fernando, e grazie al Meeting di Rimini per averci invitato. In particolare, vorrei ringraziare tutte le persone qui presenti, per essere con noi a condividere l’esperienza che abbiamo vissuto. Anzitutto, vorrei chiedere un favore, come cittadini europei e italiani. Sono stato un paio di giorni al Meeting e ho assistito a varie conferenze: in tutte si parla dell’Italia, dell’Oriente, dell’Iraq, della Siria, un po’ dell’Africa, decisamente lo sguardo è rivolto verso il mondo musulmano. L’Italia, la Spagna, il Portogallo nel passato si sono rivolte all’America Latina con molti emigranti che hanno forgiato il Paese. Vi chiedo di rivolgere ancora il vostro sguardo da quella parte e di considerare quello che avete visto anche nel video per rendervi conto di quello che viviamo noi latino-americani in Paesi che sono molto più violenti anche di quelli del Medio Oriente. La mia storia è quella di un rapimento. Sono un bancario, ho lavorato in banca per 35 anni, sono Presidente di una piccola banca con una lunga tradizione. Quest’anno celebriamo il novantesimo anniversario. Negli ultimi diciott’anni, ho ricoperto la carica di Direttore e Vicepresidente di un sistema di scuole dei padri Gesuiti che si chiama Fe y Alegrìa, Fede e allegria, che è nato in Venezuela, ha compiuto i 90 anni ed è presente in tutta l’America Latina. Il 25 febbraio del 2009 stavo uscendo dal mio ufficio, ero appena salito in macchina quando fui intercettato prima di prendere l’autostrada. C’erano tre macchine che sembravano della polizia ma non lo erano. Uomini mascherati da poliziotti, armi in pugno mi fecero uscire dalla macchina, mi spinsero in uno dei loro veicoli e subito mi iniettarono una sostanza per farmi perdere i sensi. Svenni immediatamente. Gli esperti parlano del mio caso come di un rapimento ad alta tecnologia. Dopo tre, quattro ore, mi risvegliai in una stanzetta completamente chiusa, senza finestre: se allargavo le braccia potevo toccare le pareti, se alzavo un braccio potevo toccare il soffitto. Erano più o meno due o tre passi di ampiezza. C’era solo un materassino e un elenco di istruzioni che dicevano: “Nessuno parlerà con lei, se lei esercita violenza sarà punito”. In quella stanzetta, l’unica cosa che c’era erano telecamere che registravano costantemente tutto quello che facevo e due altoparlanti che nel corso degli undici mesi di sequestro trasmettevano musica molto, molto forte. Durante la notte, il volume si abbassava un po’. La cosa peggiore di questa musica non era quello che trasmetteva ma il fatto che veniva trasmessa sempre la stessa musica, giorno dopo giorno. Non c’era un bagno, non c’era un letto, c’era un materassino e, per l’igiene personale, una porticina dove inserivano un bidone, poi un altro secchio con dell’acqua. Nel corso di quegli undici mesi non vidi mai la luce del sole, non parlai mai con nessuna persona e nessuna persona parlò con me. E riguardo all’alimentazione, all’inizio mi davano tre pasti, poi, dopo cinque mesi, li ridussero a due. Di solito, la colazione prevedeva pasta fredda senza salse e senza formaggio, in una quantità scarsa. Persi sedici chili. Quando uscii, i medici mi diagnosticarono una denutrizione grave. Io avevo un libricino dove potevo annotare delle cose e rispondere ai messaggi scritti che i rapitori mi mandavano. I messaggi di questi sequestratori erano scritti perfettamente, non c’era un errore di ortografia, erano scritti ad opera d’arte. Gli esperti che si occuparono del mio caso pensarono che ci fosse stata una combinazione di organizzazioni, cioè l’Eta insieme alla guerriglia colombiana. Perché l’Eta ha esperienza di sequestri urbani, di rapimenti in città e questo fu un rapimento urbano. Addirittura, quando saltava la luce – succede spesso a Caracas – sentivo le sirene: voleva dire che eravamo vicini ad un ospedale o a una stazione dei vigili del fuoco o alla polizia. Il collegamento con la guerriglia colombiana si deve probabilmente al fatto che loro hanno la capacità di negoziare e ricevere riscatti. Tutte le trattative in Venezuela furono condotte via Internet. Gli esperti che contattarono la mia famiglia, venezuelani o stranieri, non sono mai riusciti a scoprire l’indirizzo IP da dove arrivavano le mail. A volte, era un indirizzo spagnolo, a volte di altri posti: gli esperti non sono mai riusciti a risalire all’inizio del segnale. Dopo qualche mese, chiesi la Bibbia attraverso un messaggio scritto. I rapitori acconsentirono e da quel momento cominciò una lettura profonda dell’Antico e del Nuovo Testamento. Uno prega Dio, parla con Dio e con la Madonna, però non sentiamo mai Dio e la Vergine. Quando uno legge i testi dell’Antico o del Nuovo Testamento, semplicemente sente la parola di Dio: è la parola che ha cominciato ad accompagnarmi nel corso di quegli undici mesi di isolamento totale. Pare incredibile, però, tante volte, sentivo quasi un senso di felicità, di benessere, quasi un senso di colpa. Ero felice perché sentivo la compagnia, con un senso di colpa perché pensavo a mia moglie, ai miei figli che erano là fuori, che stavano soffrendo e non sapevano come stavo. Era una sensazione davvero difficile da gestire. Quella Bibbia mi fu tolta dopo sei mesi perché le condizioni del sequestro furono inasprite; mi fu tolto anche il materassino e fui costretto a dormire per terra. A partire da settembre, fino alla fine di dicembre, non avevo più nulla se non i miei pensieri, mi sentivo solo però a volte mi sentivo anche accompagnato da Dio e dalla Vergine: internamente, questo mi ha dato la libertà. Perché la libertà non è stare chiuso tra quattro pareti, non è stare in una prigione, la libertà è avere la dignità per cui nulla e nessuno possono cambiare quello che una persona pensa e niente, l’atteggiamento con cui uno si pone. Dopo undici mesi, la mia famiglia è riuscita ad instaurare una trattativa e fui liberato in un parco a Caracas. Tutti pensavano che mi avrebbero lasciato in autostrada, morto. Addirittura, anche gli esperti di queste materie, gli avvocati, dicevano: “Massì, lo lasceranno da qualche parte in giro”. Io avevo un grande timore per un paio di cose: innanzitutto sono molto miope e se mi tolgono gli occhiali non vedo proprio niente. E allora pensavo: se mi lasciano di sera in qualche strada, dove vado? La seconda cosa era questa: chi mi trova, potrebbe rapirmi nuovamente o vendermi ad altri sequestratori. In realtà, i sequestratori mi lasciarono in un parco a Caracas, che è molto conosciuto e che è vicino a casa mia, con abbastanza soldi per prendere un taxi e tornare a casa.

FERNANDO DE HARO:
Mi pare che l’esperienza che ha raccontato sia una buona illustrazione di quello che diceva ieri Carrón: “Il potere vuole cancellare il rapporto tra l’uomo e Dio ma la fonte della libertà è dire Tu al Mistero in ogni circostanza”. Anche in questa circostanza bestiale. Dunque, sentiamo adesso Oliverio raccontare la sua esperienza di violenza.

OLIVERIO GONZÁLEZ:
Grazie, buongiorno a tutti, ringrazio per l’invito gli organizzatori del Meeting, soprattutto perché, per preparare il mio intervento di oggi, che parlerà della mia esperienza personale di fede basandomi su un fatto drammatico, ovvero il sequestro e la morte di mio padre, mi sono dovuto riunire un paio di volte con mia madre e mia sorella. Durante il nostro dialogo, abbiamo riconosciuto ancora una volta che la misericordia di Dio è unica e infinita, e che l’esperienza del perdono può arrivare solamente dall’incontro con Cristo resuscitato, anche se si sono riaperte ferite molto profonde del nostro cuore. Comunque il dolore è la saggezza del cuore. Nel 1998, mio padre, un imprenditore di umili origini, una persona che con sacrificio e grandi sforzi era riuscito a costruire un patrimonio per la nostra famiglia, fu sequestrato, torturato e ucciso, da parte del suo autista di fiducia e di altre persone. Avevano pianificato molto bene il sequestro. Vennero a casa nostra di mattina, quando mio padre e mia madre erano in casa e chiesero l’automobile di mia madre ai nostri dipendenti. I dipendenti conoscevano l’autista di fiducia e perciò gli diedero l’auto di nostra madre. Andarono da mio padre, gli fecero credere che si sarebbero occupati di mia madre e dei figli. Gli chiesero di andare a ritirare denaro dalla banca e lo portarono lontano dalla città in cui vivevamo. Lo pugnalarono varie volte nel collo e a questo punto, pensando che fosse morto, se ne andarono e lo lasciarono lì. Mio padre però riuscì a sopravvivere e ad arrivare in una strada, dove fu soccorso da una persona e riuscì a dirle chi l’aveva pugnalato. Questo fatto drammatico ha sicuramente segnato la mia vita e quella della mia famiglia. A quel tempo, io studiavo all’università, avevo 23 anni e suonavo, facevo parte di un gruppo rock, stavo vivendo un momento molto difficile della mia vita, di tossicodipendenza e di abuso di alcool. Mia sorella studiava al liceo e mia madre aveva incontrato tre anni prima l’esperienza del movimento di Comunione e liberazione. Mia madre viveva l’appartenenza a questo movimento umano con grande determinazione nel seguire una vita semplice: questo fu decisivo per la mia conversione.

FERNANDO DE HARO:
Grazie, Oliverio. Arriviamo ad un punto drammatico: German e Oliverio ci hanno raccontato come hanno sofferto la violenza. Quando uno soffre la violenza, ha bisogno di una riparazione, loro non hanno avuto neanche la riparazione minima dello Stato di diritto, ma il cuore non è fatto per le ingiustizie. E quando soffre l’ingiustizia cerca giustizia, cerca riparazione, cerca una certa soddisfazione Mi pare che questa situazione spieghi in un certo senso la spirale della violenza. Io ho sofferto una ingiustizia, adesso ho diritto alla giustizia e se non la trovo me la faccio da solo. Se pensate alla storia dell’umanità o alla storia dei popoli, potete individuare questa spirale. I popoli hanno sofferto ingiustizie, cercano la giustizia. Il cuore non si accontenta di qualcosa, ha bisogno di giustizia e ha un’energia fantastica, non si ferma. Dunque, voi che avete sofferto l’ingiustizia, la violenza, che non avete avuto neanche la riparazione dello Stato di diritto, cosa avete trovato come soddisfazione, come risposta a questo martellante desiderio di giustizia che avevate nel cuore?

OLIVERIO GONZÁLEZ:
Mio padre morì dopo una settimana. Alla messa dei nove giorni dalla sua morte, mia madre mi presentò gli amici del movimento di Comunione e liberazione e quello fu l’inizio, il mio inizio di un percorso molto umano. Queste persone, inizialmente estranee, erano come tutti ma erano diverse. Infatti, nonostante il mio peccato e la mia perdizione – ero ricaduto nella tossicodipendenza, spesso mi allontanavo o mentivo per non doverli vedere o incontrare – questi amici erano sempre lì, sempre al mio fianco, con molta pazienza, con molta allegria. Mai per darmi lezioni di vita o per moralismo, come molte altre persone invece facevano. Erano lì presenti con uno sguardo di affetto alla mia persona, senza chiedere nulla in cambio. Questo iniziò a generare in me una certa curiosità, mi ponevo delle domande. Ci fu in particolare un fatto, un evento grazie al quale io finalmente fui in grado di vivere il perdono. Mia madre non sapeva della mia tossicodipendenza. Qualche mese dopo la morte di mio padre, venne a trovarmi all’università. Entrando nella mia camera, vide che consumavo droga. Ricordo il suo viso in quel momento, piangeva. Mi disse: “Figlio mio, io ho sofferto tanto per la morte di tuo padre”. Le sue parole mi procurarono un grande dolore. E continuò dicendo: “Ora vedo che stai così e questo mi spezza il cuore”. Tutto questo generò in me un senso di colpa e la necessità di cercare questi amici. Loro mi aiutarono a capire che questa colpa non faceva crescere la mia persona, che la mia dignità come persona era determinata e definita dall’amore di Dio. Quando perdonai me stesso, mi resi conto del fatto che l’assassino di mio padre, anche lui, si trovava in questa condizione ma che non aveva trovato quello che io invece avevo trovato grazie a questi amici. A partire dal quel momento, iniziai a chiedere che questa persona, l’assassino di mio padre, potesse trovare quello che io avevo trovato. Grazie.

FERNANDO DE HARO:
German, il volto della mamma di Oliverio, quello sguardo che gli dice: “Ti voglio bene, sei prezioso per me”, è stato per lui l’occasione di questa soddisfazione, di questa giustizia desiderata. Nel tuo caso, qual è stata l’esperienza di soddisfazione?

GERMAN GARCÌA-VELUTINI:
Non sono uno psicologo, non sono un filosofo, non sono un giudice e non sono un esperto di comportamento umano. L’unica spiegazione che posso dare è la testimonianza di quello che mi è successo. Forse quell’esperienza del volto della mamma di Oliverio, l’ho vissuta anch’io nel momento in cui leggevo il Vangelo, l’Annunciazione della Vergine, la presentazione di Gesù al tempio, la perdita del bambino rimasto con i maestri della legge e alla fine anche l’accompagnamento di Maria verso la croce. Quel volto della Vergine mi ha accompagnato e mi ha trasmesso una fede che, come ho detto prima, è molto, molto difficile da spiegare. Spesso mi sentivo pazzo, perché non riuscivo a far andare d’accordo questi pensieri. Voglio leggervi un breve brano di Victor Frank, dal libro Alla ricerca del senso. Victor Frank fu sequestrato, era prigioniero di un campo di concentramento nazista, era in una situazione molto più difficile di quella che ho vissuto io. Dice così: “Quando i prigionieri sentivano delle inquietudini religiose, erano le più sincere che si possano immaginare. Molto spesso, l’ultimo arrivato rimaneva sorpreso e colpito dalla profondità e dalla forza delle convinzioni e delle credenze religiose”. Questa intensificazione della vita interiore aiutava i prigionieri e dava loro un rifugio dal vuoto e dalla desolazione. Anche il sacerdote padre Arrupe, Preposito Generale dell’ordine dei gesuiti, il secolo scorso fu rapito e sequestrato in Giappone. Dice così: “Furono molte le cose che appresi in quei giorni, la scienza del silenzio, della solitudine, della povertà severa e austera, del dialogo interiore con l’ospite della mia anima. Credo che fu il mese più istruttivo di tutta la mia vita”. Se credevo di essere pazzo, mi sa che sono in buona compagnia e credo che siano molte le persone che hanno vissuto la stessa esperienza, anche persone umili che, nel mezzo di dolori e situazioni drammatiche come quelle che avete visto nel video, aprono i loro cuori. Quando uno parla, per esempio con i bambini in condizione di difficoltà, come faccio io nella rete di cui faccio parte, con madri a cui hanno ucciso i figli o che sono state ferite, ecco che si offre un cuore molto grande, una responsabilità nei confronti dell’altro. Ed è importante che questo perdono cominci dentro di me. Nel Vangelo ho letto un passaggio che ha trasformato la domanda che io mi ponevo. Io mi chiedevo: “Perché la mia famiglia, mia moglie, i miei figli stanno soffrendo? Perché io sto soffrendo?”. Ho cambiato questa domanda così: “Per quale scopo sta succedendo questo alla mia famiglia? Per quale finalità sta succedendo a me?”. E la risposta, ascoltando Gesù, leggendo, me la diede il passaggio del Vangelo di Giovanni che dice: “I suoi discepoli lo interrogarono: «Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio». E così, ho visto che, ponendo la domanda in questo modo, il suo significato si ribalta. Mi domando perché in senso causale e guardo al passato. Se invece mi chiedo perché in senso finale, guardo al futuro e vado alla ricerca del senso. Per quale finalità sono stato sequestrato? Innanzitutto, per dare l’esempio, mi dissi, alle persone che mi stavano vedendo attraverso le telecamere, per aiutare e lavorare ancora di più a favore delle persone della rete Fe y Alegrìa, e per i dipendenti della nostra istituzione. Dopo due settimane da quando ero stato liberato, sono tornato al lavoro. L’esperienza del perdono cominciò a presentarsi il giorno prima del rilascio, quando uno dei sequestratori completamente incappucciato, mentre mi spingeva contro la parete, mi passa un foglietto: “Non si vendichi, non ci cerchi, dovrà dimenticarsi di noi”. Chiesi che mi fosse restituita la Bibbia che mi avevano preso e me la diede. La aprii a quel passaggio di san Luca dove si parla del perdono dei nemici e di non rendere il male, anzi, di convertire questo in bene. Quando il sequestratore lesse questo passaggio, mi mise la mano sulla spalla e mi abbracciò. Ecco, quell’uomo era cambiato, ne sono sicuro. Non l’ho più visto ma secondo me in quel momento ho vissuto il perdono. La seconda esperienza avvenne dopo tre giorni. Mi si chiedeva sempre: “Ha perdonato i suoi rapitori?”. Io ho sempre risposto di sì: “Sento di perdonarli, però non ne ho mai avuto uno di fronte”. Sabato ero con un amico di una cooperativa, Nicola. Ci siamo recati in una prigione e abbiamo parlato con dei carcerati di Padova. Uno di loro aveva rapito un direttore di banca e altre due persone, una delle quali era morta nel sequestro. Adesso questa persona è in carcere, sta scontando la sua pena. Il mio amico si fermò e mi chiese: “Tu perdoni, hai perdonato? Cosa pretenderesti da un sequestratore per perdonarlo?”. Questa persona non aveva sequestrato me ma un mio collega. Gli dissi: “Per chiedere il perdono bisogna partire dal cuore. Io mi trovo bene qui, penso di avere perdonato il mio sequestratore”.

FERNANDO DE HARO:
Mi pare che quello che ha detto German adesso ci aiuti a capire meglio. Cosa consente di perdonare? Cosa consente di rompere questa catena di violenza? Un volto, il volto della mamma di Oliverio, il volto della Vergine. Quando arriva un volto nella tua solitudine, usi la ragione in un modo diverso. German prima si domandava: “Perché?”. Un perché generico, astratto. Dopo aver sentito e cercato questo volto, l’uso della ragione è diverso. La domanda non è un perché generico, la domanda, dopo essere stato abbracciato, è: “Qual è il senso di questo? Tu, che cosa chiedi a me?”. E’ assolutamente diverso l’uso della ragione di cui ha parlato German. Un volto ti consente di usare la ragione in un altro modo. Dopo aver sentito queste cose così impressionanti, mi viene una domanda. Questa vostra esperienza, può essere anche una categoria storica, una categoria di costruzione sociale, di risposta? Perché, come abbiamo sentito e visto, la violenza è, più dell’economia, più del problema politico, la grande sfida per l’America latina. L’America latina ha bisogno di uno Stato forte, cioè di una società forte, perché non è lo statalismo e neanche il mercato che consente di avere uno Stato di diritto forte. Ci vuole più società perché ci sia più Stato. Ma voi pensate che la vostra esperienza sia un fattore di costruzione sociale? German.

GERMAN GARCÌA-VELUTINI:
Io penso di sì. Non che io ed Oliverio possiamo cambiare la società, la cosa importante è riuscire a cambiare una persona. Una persona è più di nessuno. Il lavoro è individuale, è un lavoro che proviene dal cuore. Quando Fernando ha parlato delle situazioni in America latina, ecco, ho qui una testimonianza mia, una cosa che ho scritto dopo otto mesi dalla mia liberazione. Il Governo venezuelano aveva chiuso il caso, se ne era dimenticato completamente. In Venezuela non ha nessuna importanza una cosa come il mio sequestro o quello di un’altra persona. Però penso – è triste ma è la realtà – che lo shock, l’esperienza della violenza mi abbiano dato la forza per lavorare di più per un sistema di collegi fondato da un padre gesuita. Come vi ho detto prima, da 90 anni lavoriamo con questa scuola presente in tutto il Venezuela e in tutta l’America latina. Penso che l’educazione e l’istruzione siano la modalità migliore per ridurre le ingiustizie e la povertà in tutto il mondo, perché l’istruzione ci insegna a pensare, ci dà dignità e crea cittadini liberi e forti. Un’istruzione per i poveri non significa un’istruzione di peggiore qualità, dev’essere un’istruzione di alta qualità. Fe y Alegrìa lavora anche in Italia con i profughi, da tanti anni. E’ una cosa che il Venezuela ha portato qui, per cui vi chiedo ancora una volta di pensare, vedere, guardare all’America latina, verso i paesi dell’America latina, il Venezuela, il Messico, l’Argentina. E vi invito a chiedere ai vostri leader, ai vostri capi di Stato, di non dimenticare l’America latina. Sicuramente non sarete voi a risolvere i nostri problemi, dobbiamo farlo noi, però, in un mondo globalizzato, in cui tutti siamo collegati, non possiamo pensare che esista solo l’Europa o soltanto il problema della Siria e dell’Iraq. Ricordate quando, a metà del secolo scorso, l’Italia era molto presente in Venezuela, così come anche la Spagna e il Portogallo. Riportate il vostro sguardo verso i nostri Paesi perché noi abbiamo bisogno della vostra compagnia. Il lavoro che dobbiamo fare in Venezuela è un lavoro graduale: dovremmo insegnare ai giovani, poveri e ricchi, ai nostri dipendenti, a noi stessi, all’interno delle istituzioni e della scuola, questi principi. Gli insegnanti di Fe y Alegrìa tengono lezioni di cittadinanza, per insegnare a essere cittadini responsabili. Perché abbiamo la responsabilità di lavorare per gli altri, amare e servire gli altri.

FERNANDO DE HARO:
Non l’ha detto German ma lo dico io: dopo tutto quello che ha sofferto, lui è scappato via dal Venezuela. Molti pensano di scappare perché la situazione è troppo brutta. Che razza di amore per la realtà, per la società ha questa esperienza che consente di rimanere lì, in Venezuela, dove non si trova niente al supermercato? Oliverio, qual è la tua esperienza di perdono che può essere anche un’esperienza sociale?

OLIVERIO GONZÀLEZ:
Dopo l’ esperienza del perdono, sono stato come sopraffatto da questa compagnia umana e ho deciso di mettermi in cammino con loro. E lì ho trovato un grande amico, don Luigi Giussani. Mi ha sempre colpito e commosso come seguire il metodo educativo di Giussani abbia reso possibile la ricostruzione della mia storia e della mia famiglia. Nei dialoghi che ho avuto con mia madre, lei mi ha detto: “Dopo la morte di tuo padre e dopo essermi resa conto di quello che era successo a te con la tossicodipendenza, mi sono abbandonata alla fraternità e lì è ricominciato tutto, è stato per me un nuovo inizio”. E mi ha spiegato il perché. Mia madre era caduta in depressione, ma nel movimento c’era una sua amica che pure aveva sofferto un’esperienza di abbandono e che, per sopravvivere, faceva la cuoca. I nonni di mia mamma avevano una panetteria e gli amici del Movimento dicono a queste due donne: “Perché non vi mettete a lavorare insieme?”. E loro cominciano a darsi da fare, a lavorare insieme in una piccola cucina. Preparano da mangiare per la comunità. Quando tornavo a casa, mi rendevo conto che il lavoro aveva restituito la dignità a mia madre. Quando tornavo per le vacanze, vedevo che questa piccola attività continuava a crescere. A partire da loro due, quello che avevano cominciato in una piccola cucina, nel corso del tempo, fino ad oggi, è diventato un’attività con sei succursali, che dà impiego a più di duecento persone. Ci sono due avvenimenti che mi hanno aiutato a capire il tipo di lavoro che faceva mia madre. Una volta mi chiama per andare a fare delle commissioni, per portare l’offerta alla chiesa, mi mostra il denaro che vuole offrire e io le dico: “Non è giusto! Sono troppi soldi!”. E lei: “Adesso non capisci, ma tutto quello che abbiamo lo dobbiamo alla Chiesa”. Un’altra volta mi chiama e mi dice: “Portami in questo posto, dove c’è una colonia popolare”. E’ una zona a cui è difficile accedere per la violenza che c’è. La porto, andiamo a trovare una delle sue collaboratrici che per una settimana era stata assente dal lavoro. In quel posto, tutte le case sono fatte di lamiera, quella della donna è l’unica costruita in maniera diversa, grazie al suo nella pasticceria. Questa donna era in lacrime: disse a mia madre che suo marito aveva provato una fortissima invidia ed era andato via portandosi i figli. Mia madre la abbracciò e le disse: “Non ti devi preoccupare. Recupereremo i tuoi figli. Torna pure al lavoro”. E a me, tornando poi in macchina: “Figlio mio, è per questo che mi piace il mio lavoro, perché mi consente di rendere a Dio questa carezza e questa misericordia che ho ricevuto”. Quando l’attività della pasticceria comincia ad andare a gonfie vele – io ero ormai laureato e avevo il mio studio di architettura – mia madre mi chiama ancora e mi dice: “Questa attività è stata creata affinché la misericordia di Dio fosse visibile. Possiamo renderci servi di questa misericordia, vorrei proporti di lavorare qui con tua sorella”. Io feci un po’ di resistenza, però ci hanno insegnato a essere realisti. E la realtà diceva che la proposta di mia madre era azzeccata e concreta: adesso sono cake designer. Dopo avere lavorato lì per cinque anni, la mia vita è realizzata in un modo che nemmeno mi potevo immaginare. Ho anche trovato moglie, ho tre figli, aspetto il quarto. Dio mantiene sempre le sue promesse, perché gli affari sono andati bene. Adesso ho avuto l’opportunità di comprare un terreno e sto costruendo un piccolo edificio per gli uffici. Quindi, sono anche tornato alla professione di architetto: sono grato a don Giussani perché mi ha aiutato a vedere che la costruzione sociale comincia a partire da ogni singola persona, al di là delle sue condizioni, e che quello che per l’uomo è impossibile, per Lui non lo è. Grazie.

FERNANDO DE HARO:
La storia di Abramo riaccade: un volto che ti dà del tu, il volto del Mistero che ti consente di amare la realtà, di costruirla in un modo diverso. Mi pare che, sentendo i nostri due ospiti, abbiamo sentito il metodo di Abramo in atto. Loro sono una presenza diversa, perché tutto è iniziato con questo metodo. Di fronte alle sfide dell’America latina, questo è poco? O è tutto? E’ una domanda molto seria, la lascio aperta. Ma quello che abbiamo sentito è sufficiente? È tutto? Dunque, finiamo. Siamo partiti con la domanda: ma noi, abbiamo esperienza di questa parola impossibile, della misericordia? Io posso dire, dopo aver sentito questi interventi, che sì, la misericordia c’è. La misericordia ti consente di stare di fronte al reale in una posizione assolutamente diversa, differente. Ieri Carrón diceva: “La salvezza non viene dalla natura, la salvezza viene da un avvenimento, da Uno che ti chiama”. Mi pare che questa mattina abbiamo visto questo metodo in azione. Grazie. Due avvisi, per finire. Fundraising: prosegue la campagna di raccolta di fondi per sostenere la costruzione del Meeting, un luogo che da oltre trent’anni testimonia una cultura dell’incontro, dell’amicizia. Con la propria donazione si entra a far parte della Community Meeting. Forse la mamma di Oliverio è già nella Community Meeting. Dove donare? Si può donare in vari punti della fiera: Hall Sud, padiglione C1, padiglione A1, padiglione A3 e padiglione C1. Oppure andando sul sito del Meeting, che voi conoscete benissimo. Con la propria donazione, si riceverà la card della Community Meeting, che permette di avere alcuni vantaggi nel noleggio delle mostre itineranti. Secondo avviso, attenti! L’incontro delle ore 13.00, L’Italia e la sfida del mondo, sarà proiettato anche sugli schermi di questa sala. Se volete rimanere, potete farlo. Grazie.

Data

25 Agosto 2015

Ora

11:15

Edizione

2015

Luogo

Sala eni B1
Categoria
Incontri