LA GRANDE AZIENDA E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE

La grande azienda e la responsabilità sociale

In collaborazione con Invitalia, Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa. Partecipano: Silvio Cattarina, Presidente della Cooperativa Sociale L’Imprevisto; Fabio Cerchiai, Presidente di Autostrade per l’Italia e di Atlantia; Emanuele Gatti, Freseius Medical Care Chief Executive Officer for Europe, Middle East, Africa and Latin America e Presidente della Camera di Commercio Italiana per la Germania; Marco Pedroni, Presidente di Coop Italia; Emilio Petrone, Amministratore Delegato di Sisal. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

 

LA GRANDE AZIENDA E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE
Ore: 11.15 Sala D3
In collaborazione con Invitalia, Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa. Partecipano: Silvio Cattarina, Presidente della Cooperativa SocialeL’Imprevisto; Fabio Cerchiai, Presidente di Autostrade per l’Italia e di Atlantia; Emanuele Gatti, Freseius Medical Care Chief Executive Officer for Europe, Middle East, Africa and Latin America e Presidente della Camera di Commercio Italiana per la Germania; Marco Pedroni, Presidente di Coop Italia; Emilio Petrone, Amministratore Delegato di Sisal. Introduce Bernhard Scholz, Presidente della Compagnia delle Opere.

BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno e benvenuti a questo incontro sulla responsabilità sociale. Do il benvenuto a Silvio Cattarina, Presidente della Cooperativa sociale L’imprevisto, Fabio Cerchiai, Presidente di Autostrade per l’Italia e Atlantia, Emanuel Gatto, CEO di Freseius Medical Care in Europa, Middle East, Africa e America Latina, Marco Pedroni, neo Presidente di Coop Italia, Emilio Petrone, Amministratore Delegato di Sisal. Negli ultimi anni, il concetto di responsabilità sociale dell’impresa è stato approfondito in modo consistente. Dopo un lungo periodo in cui la responsabilità sociale è stata usata spesso per ripulire l’immagine, per contrastare alcuni effetti negativi, oggi è diventata una cosa sostanziale. Si è cominciato a parlare di attività che riguardavano la formazione continua, l’organizzazione dei lavori, i processi produttivi, l’inserimento sociale, la tutela delle risorse, uno sviluppo durevole e non solo un successo breve; e poi, sempre di più si è evidenziato che esiste una reciprocità fra impegni volontari e sviluppo economico, fra investimenti non dovuti per legge e un’incidenza sociale positiva. In tanti casi, questa responsabilità sociale si è sviluppata in Italia sull’humus fecondo di una tradizione che vedeva l’impresa sempre partecipe alle sorti del territorio in cui viveva. E’ una particolarità che si basa su una grande tradizione e che poi ha trovato forme diverse, sempre più sistematiche e consistenti. Potremmo dire che la responsabilità sociale consiste nella creazione di capitale sociale, dentro e fuori dell’impresa. Il Consiglio Europeo di Lisbona, nel 2000, ha inserito la responsabilità sociale nelle strategie per rendere l’economia europea più competitiva e più dinamica rispetto al resto del mondo. Quindi, è riconosciuto che la responsabilità sociale è parte inerente di uno sviluppo imprenditoriale, di uno sviluppo aziendale vero. Nell’ottobre 2011, la Commissione Europea ha pubblicato un documento sulla strategia rinnovata dell’Unione Europea in materia di responsabilità sociale delle imprese, che è stato recepito dal Governo italiano attraverso un piano di azione nazionale sulla responsabilità sociale dell’impresa 2012- 2014: è un tema, dunque, sentito anche a livello governativo, europeo e italiano, come un fattore decisivo per lo sviluppo economico dell’Europa e, nello specifico, dell’Italia. In questo documento europeo, si legge che la crisi economica internazionale ha richiamato l’attenzione sull’importanza di una crescita sostenibile, inclusiva e stabile, basata sulla lotta alla povertà, sul rispetto dei diritti umani del lavoro e dell’ambiente. Dico questo perché c’è un modo di concepire la competitività che prescinde dalla responsabilità sociale, che cerca solo di razionalizzare, di creare margini più alti possibili anche a discapito di una responsabilità sociale: nel nostro continente, grazie a Dio, tutto questo è stato visto come una modalità di agire che, a breve, può portare anche ad un certo successo, ma nel lungo termine è nociva, sia per l’impresa sia per l’economia in quanto tale. E quindi chiedo ai partecipanti di spiegarci e di esemplificare la modalità con cui le loro grandi imprese svolgono la responsabilità sociale. Perché gli esempi spesso parlano in un modo più consistente di un concetto, di un contenuto. Abbiamo qua anche un’impresa sociale, rappresentata da Silvio Cattarina, che ci spiegherà una cosa particolare. Intanto, cominciamo a sentire Fabio Cerchiai, Presidente di Autostrade per l’Italia.

FABIO CERCHIAI:
Grazie Bernhard, grazie anche a tutti voi per l’accoglienza. Io inizierei la mia breve riflessione partendo dal titolo che prelude alla nostra riunione di oggi, “La grande azienda e la responsabilità sociale”, per esporvi una prima riflessione in cui io credo profondamente, sulla differenza che passa tra un’azienda grande e una grande azienda. Un’azienda grande è un’azienda che ha un grande fatturato, che realizza degli importanti risultati economici, che dà occupazione, tutte cose positive che non mi permetto affatto di sottovalutare. Ma una grande azienda è un’azienda che, a tutto questo, aggiunge un’altra cosa, la capacità di pensare, progettare, operare su un orizzonte temporale lungo e su un orizzonte gestionale ampio. Cosa significa? Che la grande azienda ha ben presente che il suo interesse, e quindi quello del suo management, quello dell’azionariato che dà fiducia a quel management, dev’essere traguardato e reso compatibile con l’interesse della comunità in cui e con cui l’azienda opera. Mi permetto di sottolineare queste due allocuzioni, con cui e in cui, perché la grande azienda non può limitarsi ad operare in un contesto ma deve operare con quell’ambito, cioè deve stabilire delle relazioni di tipo positivo e di tipo sistematico, indispensabili per consentirle di ottimizzare il risultato economico. Come vedete, mi permetto un approccio molto realistico riguardo a quello che è poi il mio mestiere, dare valore all’azienda, premiare gli azionisti che hanno avuto fiducia, garantire occupazione a chi opera nell’azienda, garantire il risultato. Ma l’ottimizzazione del risultato, nel tempo, passa attraverso questa capacità, non è la massimizzazione del risultato nel breve quella a cui deve tendere una grande azienda, ma una stabilizzazione nel tempo che porta con sé, come conseguenza immediata, il tema della sostenibilità. In termini economici, sarebbe la sostenibilità del risultato, ma questa è solo la conseguenza della sostenibilità delle azioni per conseguire quel risultato. E quindi, detto in termini che spero chiari, della capacità da parte dell’azienda di saper rispondere alle attese culturali, sociali ed economiche della comunità con cui e in cui opera, attraverso uno sviluppo sostenibile. E cioè uno sviluppo che sia capace di soddisfare le esigenze della generazione attuale, ma non a discapito del poter soddisfare poi i bisogni delle generazioni future, perché altrimenti ci sarà un’interruzione nel risultato economico dell’azienda. Questa a mio giudizio è una sintesi efficace della responsabilità sociale dell’impresa, tradotta in modo meno nobile, quindi meno apprezzabile di come ce l’ha introdotta Bernhard Scholz, come deve e può essere vista da chi è chiamato a dirigere, o a concorrere a dirigere, questa grande azienda. Detta in altri termini, la responsabilità sociale non è soltanto un dovere etico – una cosa importante, di sostanza -, non soltanto, è anche un valore economico. Fa parte del capitale economico d’impresa, dà valore all’impresa: lo dico dopo tanti anni di attività in varie aziende dove ho la fortuna di avere sempre potuto operare in contesti che tengono conto di questo: non c’è grande impresa se non ci sono, accanto i numeri, accanto ai parametri misurabili, i valori. Perché l’impresa è l’organizzazione di beni e di persone volta al raggiungimento di un risultato in un certo contesto. Il che implica la capacità di stabilire relazioni positive, il furbo lo fai una volta, lo fai due, lo fai tre, poi diventi un furbastro e poi niente, esci dal mercato. E questo implica che obbiettivamente, in una grande azienda, in un’azienda non soltanto grande ma in una grande azienda, i valori sono obbiettivamente non meno importanti dei cosiddetti numeri, anzi, sono dentro i numeri. Quei numeri diventano stabili nel tempo proprio perché ci sono i valori. E io credo che la sostenibilità, cioè la capacità di mantenere in azienda la redditività nel tempo, perché rispetta questi valori, perché li ricerca, sia un vantaggio competitivo, quello che ti permette di fare meglio dei tuoi concorrenti. Perché cosa significa, poi, sostenibilità del risultato? Significa capacità di tenere rapporti positivi con gli stakeholders, i clienti, i fornitori, chi ci lavora dentro, gli azionisti, tutti. Ricordava prima Bernhard Scholz che in questo momento sono Presidente di Autostrade per l’Italia, figuratevi qual è l’importanza per un concessionario autostradale di avere una relazione positiva con le istituzioni! Il termine concessionario implica che ci sia un concedente e quindi significa rapporti positivi con chi ti ha attribuito la concessione, con chi ti vigila, con quel mondo. Significa fare il proprio lavoro bene, cioè innanzitutto dare serenità, certezze, sicurezza a chi opera nell’azienda e favorire lo sviluppo del talento. Ma tutto questo, ripeto, non soltanto in una logica di dovere etico ma proprio di interesse aziendale, di crescita del lavoro. Il valore significa avere presenti i temi della compatibilità e della tutela ambientale, per soddisfare le esigenze di oggi non a discapito delle generazioni future. Più di quello che noi possiamo credere, i mercati apprezzano l’immagine, la reputation che l’azienda sa seguire. E significa non sottrarsi, anzi, ricercare una rendicontazione integrata di tutto questo. Al di là del dovere di fare il bilancio in termini comprensibili, chiari e corretti rispondenti alla norma, la rendicontazione dei bilanci sociali sarà sempre più integrata nel bilancio aziendale: la mia personale opinione è che presto sarà bene che non ci sia un bilancio aziendale e un bilancio sociale ma che ci sia un bilancio. Il bilancio sociale come parte integrata e integrante del bilancio aziendale, perché l’azienda dev’essere valutata nella sua globalità e non sottrarsi a questo ma, anzi, favorirlo: far vedere che tieni ad alcune cose perché esplicitare il valore è cercare il riconoscimento di quel valore, cosa che un capo d’azienda ha il dovere di fare. Allora, mantenere fede ad un mandato retribuito dagli azionisti, tradotto in termini di autostrade, significa dare grande importanza alla sicurezza sulle strade. Ogni volta che c’è qualcosa che non funziona su questo punto, occorre vedere cosa si può fare di meglio. Negli ultimi dieci anni siamo riusciti ad abbassare del 70% il tasso di mortalità sulle autostrade. E’ un risultato positivo ma sarà davvero positivo quando riusciremo a ridurlo praticamente a zero: anche con tutta la nostra attenzione, abbiamo purtroppo visto come un drammatico incidente si sia verificato pochi mesi fa, in un’autostrada, con un guardrail: certo, una situazione del tutto particolare, ma si può fare di più? E’ la domanda che devi porti, immediatamente unita al sentimento di cordoglio, di dispiacere per il verificarsi di un evento negativo: si può fare di più? Se la risposta è sì, non ci può essere una logica relativa alle risorse disponibili, sulla sicurezza le risorse si investono perché di ritorno ci sarà la differenza in termini aziendale, tra spese e investimento, e sulle spese bisogna porre la massima attenzione ma sugli investimenti no. La stessa considerazione vale quando installi il sistema tutor, che a qualcuno di noi fa qualche dispetto ogni tanto perché ci dimentichiamo che c’è il limite di velocità, e purtroppo lui lo registra, ma ci fa del bene con quel che registra perché ci rende più attenti la volta successiva. Analogamente, l’avere sostituito tutte le superfici, le pavimentazioni con l’asfalto drenante, piuttosto che avere fatto investimenti in termini di energia ambientalmente accettabile, perché significa riduzione di CO2, piuttosto che avere sviluppato tecnologie che consentono di avere meno ritardi in entrata e in uscita, ridurre code, ecc. Sono tutte cose che insieme danno quel valore che poi passa sotto il termine di servizio, e il servizio è un’altra componente: tutto questo poi porta a degli apprezzamenti del mercato, a vederci attribuiti dei premi, dei riconoscimenti, non li cito ma Autostrade ne ha avuti tanti per gli sforzi che ha fatto e che deve continuare a fare, perché sono investimenti di tipo positivo. Un’altra componente essenziale per chi come me è nato indipendente e ha fatto tutta sua crescita nelle aziende, é l’attenzione alla forza lavoro, a chi passa la sua vita in azienda. Il pagamento dello stipendio è un dovere ma finisce lì, come la prestazione, non si gioca nell’andare in ufficio e starci otto ore. Così il dovere dell’imprenditore o dell’impresa nel confronti della propria forza di lavoro non si risolve nel pagare lo stipendio a fine mese e neanche nel pagare i contributi, perché queste sono cose dovute. Si gioca nel creare un ambiente che favorisca l’esplicitazione delle capacità o che invita i bambini in azienda, perché i genitori sono felici di portare la famiglia. Un gesto che non nasce dal paternalismo ma sottintende il riconoscimento di un’appartenenza. Importante come tutti quegli interventi non dovuti che l’azienda fa per il proprio personale, non in termini filantropici, o non soltanto in termini di generosità aziendale, ma perché danno degli importanti ritorni. Quest’anno abbiamo fatto l’asilo per i bambini figli dei nostri dipendenti. Il numero dei figli che frequentano è inferiore alla disponibilità dell’asilo, quindi è stato aperto, d’accordo con il comune di Roma, anche a figli di non dipendenti. E’ un gesto che fa collettività, fa dire: “vado più volentieri a lavorare lì che da un’altra parte”. L’errore drammatico che spesso viene fatto dalle grandi aziende, o meglio, dalle aziende grandi ma non grandi aziende, è quello di vedere la prima capacità di riduzione della spesa nel taglio dell’occupazione. Qualche volta è indispensabile ma è l’ultimo dei costi da guardare anche perché, se ha rappresentato un investimento nel passato, prima di disinvestire bisogna stare assolutamente attenti. Vi do solo due numeri dell’azienda che presiedo, che oggi mi vede qui presente. Nel 2000 avevamo 9.721 colleghi collaboratori, oggi siamo 11.992. Però, attenzione, in realtà siamo diminuiti di 500 unità in Italia e cresciuti di 2.800 unità all’estero. Il che significa che abbiamo dovuto chiedere ai nostri colleghi la disponibilità a trasferirsi, la disponibilità ad evolvere professionalmente, ad assumere incarichi di tipo diverso, magari geograficamente più scomodi. Ma tutto questo passa attraverso lo sviluppo di quelle relazioni che stanno appunto nella capacità di fare sistema che bisogna avere dentro un’azienda e al di fuori dell’azienda. Nel 2012, Autostrade per l’Italia spende 150 milioni di euro, una cifra tutt’altro che trascurabile, per opere compensative. Significa che, mentre costruisco le autostrade, il comune A, piuttosto che la provincia B, mi chiede di fare lo svincolo che non farei ma mi chiede anche, qualche volta, di fare un asilo, una scuola, di contribuire al progetto di un ospedale. Significa dire: “Mi rendo conto che con l’autostrada disturbo, oltre che agevolare, e siccome il disturbo deve trovare una compensazione nel sentire comune, contribuisco a fare un’altra cosa solo di segno positivo”. A me non dà vantaggio ma mi toglie l’ostilità del mondo esterno: anche questo è un valore economico (sto controllando l’orologio, sono al quattordicesimo minuto e il nostro moderatore me ne aveva dati quindici, fa parte della responsabilità, questa volta non sociale, anche rispettare i tempi). Significa cioè avere presente che gli investimenti in quell’ambito, in quei parametri che passano sotto questa importante definizione di valori, in realtà sono tutti investimenti proficui, che danno valore economico e contribuiscono a far stare tutti noi insieme meglio; a farci lavorare, visto che vi passiamo gran parte della nostra attività quotidiana, con maggiore serenità, maggiore convinzione e spirito di partecipazione, di reale interesse al risultato. Quindi è un valore anche economico. Grazie mille.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Allora sentiamo Emanuele Gatti.

EMANUELE GATTI:
Grazie, Bernhard. Io e Bernhard abbiamo una storia speculare, nel senso che lui è nato in Germania e vive e lavora in Italia. Io invece sono nato in Italia, vivo e lavoro in Germania. Come potete vedere dalla figura, rappresento un’azienda che lavora nel settore della salute, la nostra azienda si chiama Freseius, ha 174.000 dipendenti nel mondo, fa un fatturato annuo di circa 20 miliardi di euro e ha circa 2.300 dipendenti in Italia. Di che cosa ci occupiamo? Abbiamo una rete di ospedali, sono circa 74 in Germania, con circa 23.000 letti: il settore di cui mi occupo è quello della dialisi. La dialisi è l’unico modo di sopravvivenza, a parte il trapianto, per pazienti che hanno i reni ormai distrutti da una qualche forma di malattia. Quindi, è chiaro che noi sentiamo una grossa responsabilità nei confronti della popolazione dei nostri pazienti che sopravvive solo grazie a questo trattamento oppure, come dico, al trapianto. Come azienda tedesca, siamo posseduti da una fondazione che ne detiene maggioranza e controllo. E’ una fondazione a carattere benefico, nata alla morte della fondatrice della società: il resto è quotato in borsa a Francoforte e a New York. Nel settore di cui mi occupo, facciamo circa 11 milioni di trattamenti dialitici su 81.000 pazienti, pensate, circa il doppio di quelli che ci sono in totale in Italia. Nelle nostre cliniche, ci sono 100.000 persone in dialisi peritoneale, 32 Paesi, 23.000 professionisti, 866 strutture. Siamo inseriti in Gruppo presente in altre nazioni, per esempio gli Stati Uniti, dove siamo molto presenti, abbiamo 3.200 cliniche di dialisi. Ho fatto questa premessa, perché credo che tutti conoscano Autostrade mentre la Freseius Medical Care è conosciuta da pochissimi, quindi ho tenuto ad inquadrare un attimo il nostro tipo di lavoro. Il marchio di frontiera che utilizziamo per i nostri centri dialisi è caratterizzato dall’impegno per la sostenibilità, verso i pazienti, i sistemi sanitari e i nostri collaboratori. Lo scopo del mio intervento è quindi farvi vedere come misuriamo questo impegno a partire da un’enunciazione di principio di quello che vogliamo fare regolarmente, metodicamente, in ogni clinica, con frequenza mensile. Utilizziamo un sistema che adesso vi illustrerò molto brevemente: questo non è un convegno scientifico sulla sostenibilità e tanto meno un convegno medico, però voglio farvi vedere uno screenshot di quello che tutti i direttori delle nostre cliniche possono vedere mensilmente insieme al loro staff, su cui possono misurare la loro attività relativamente a quattro prospettive: una prospettiva clinica che è la più importante, quella del paziente che pesa per il 40%, i collaboratori, la comunità e i soci investitori. Come vedete già da questa prima scelta, relativamente ai pesi diamo maggiori importanza alla prospettiva clinica, ritenendo che il profitto che noi vogliamo sia generato dal fatto che lavoriamo bene sul paziente, con i nostri collaboratori, insieme alla comunità. Per ognuna di questi prospettive, abbiamo definito degli indicatori che fra un minuto vi illustro in maniera spero sintetica. I nostri sforzi sono puntati ad assicurare la migliore terapia renale, ottimizzando le risorse messe a disposizione dai diversi sistemi sanitari nazionali in modo responsabile ed efficiente. Ecco un altro screenshot delle stesse prospettive, quindi paziente, comunità, azionisti, investitori e dipendenti. Per chi fosse eventualmente interessato, ho messo anche il titolo di un articolo che è stato pubblicato sulla metodologia scientifica che utilizziamo per l’allineamento di tutte le nostre cliniche e la misura della loro sostenibilità. Cominciamo con la prospettiva dipendenti: senza dipendenti qualificati, senza dipendenti che sono committed, coinvolti con la nostra missione, non c’è modo di fare impresa. Questa è la prospettiva da cui cominciare: la cosa che vogliamo fare, è mantenere questi dipendenti qualificati nella nostra struttura. Cosa facciamo? Aumentiamo la loro competenza, quindi misuriamo con un indicatore di performance il numero delle ore di training che facciamo e poi naturalmente vogliamo ottimizzare l’uso delle risorse umane, definendo quante ore devono essere fatte per ogni trattamento, per ogni dipendente e minimizzando le ore di overtime. Inoltre, per noi è fondamentale – anche perché lavoriamo in un ambiente che naturalmente si presta a parecchi tipi di incidenti sul lavoro – misurare regolarmente, mensilmente, il numero degli incidenti avvenuti nelle nostre cliniche: grazie a Dio, molto pochi. Come conseguenza, naturalmente, vogliamo soddisfare i nostri investitori. Non misuriamo la soddisfazione verificando il profitto, che ovviamente è il risultato, come vi dicevo, della nostra attività, ma con indicatori che sono tranquillamente gestibili dal nostro personale. Per esempio, il numero di nuovi pazienti che entrano nella nostra rete, quanti pazienti se ne vanno volontariamente, perché non sono soddisfatti o non siamo in grado di soddisfarli. La crescita di pazienti è dovuta naturalmente all’ingresso di nuovi pazienti ma anche alla sopravvivenza dei pazienti che sono già nella nostra rete, o dei pazienti prevalenti. E poi, l’uso efficiente delle risorse in maniera responsabile, quindi il costo del nostro personale a trattamento e il costo del materiale per ogni trattamento. Per ognuno di questi, siamo in grado di definire un target per ogni clinica: cioè ogni clinica che per esempio costruiamo dall’inizio, dal nuovo, non può essere ottimizzata come una clinica che ha dieci anni di esperienza: quindi, possiamo definire per ogni singola clinica il suo indicatore di performance in maniera personalizzata. Per quanto riguarda la parte della comunità, diciamo che la primissima cosa che ci preme è di mettere i pazienti in lista di trapianto. E quindi misuriamo quanti di questi pazienti siano eleggibili a trapianto sono stati messi nella lista. Naturalmente non siamo noi a scegliere i trapiantati, però, se i pazienti sono in lista trapianto, questo poi permetterà loro di ottenere un trapianto più facilmente. Naturalmente abbiamo da rispettare tutte le regole, sia quelle legali che quelle specifiche del nostro mestiere: e abbiamo anche un programma di compliance che prevede il rispetto delle regole e dei nostri valori, e misuriamo pure quello. E poi, soprattutto, ci preoccupiamo di proteggere l’ambiente: per ogni trattamento dialitico, noi consumiamo 450 litri di acqua. Che è un dono di Dio, per cui non possiamo buttarla via, soprattutto in alcuni Paesi dove l’acqua è veramente un super dono di Dio. Immaginate cosa significa usare 450 litri di acqua per la dialisi domiciliare, in casa. Poi ci sono gli scarti tossici: naturalmente i pazienti possono essere affetti da varie forme di malattie infettive, quindi dobbiamo minimizzare gli scarti tossici. E minimizzare anche il consumo di energia per il trattamento, che viene regolarmente monitorato. Il fulcro della nostra attività, naturalmente è la clinica, per cui vogliamo dimostrare un miglioramento costante della terapia e della qualità di vita dei pazienti. E quindi abbiamo indicatori stabiliti dalla comunità scientifica internazionale che ci permettono di avere una trasparenza totale nei risultati clinici, che generano i reports per i pazienti e ci permettono di monitorare paziente per paziente, seduta dialitica per seduta dialitica. I pazienti fanno circa tre sedute alla settimana da che entrano in terapia conservativa: per loro è un grosso problema, chi non è mai stato in un centro dialisi non può capirlo ma effettivamente è un problema estremamente drammatico sotto tanti punti di vista. Come dicevo, la fase dell’iscrizione alla lista trapianti è per noi importantissima: come vedete, nell’ultimo periodo abbiamo aumentato – linea blu – drammaticamente le iscrizioni alla lista di trapianto, siamo sopra il 35% dei nostri pazienti. E ci rende oltremodo contenti la possibilità offrire questo servizio a tutti i nostri pazienti. Abbiamo un impegno particolare per una dialisi sostenibile, con una limitazione dell’impatto ambientale, sia per quanto riguarda i prodotti che produciamo, il packaging, l’utilizzo consapevole delle risorse idriche energetiche che per il ciclo di rifiuti. Siamo certificati con ISO 14000 dal 2001 e abbiamo la certificazione ambientale per le strutture, anche dove non richiesto. Abbiamo partnership strategiche, con la agenzia tedesca dell’energia, per un concetto di clinica dialisi a zero emissioni e con l’Associazione Europea degli Infermieri in Dialisi: abbiamo sviluppato linee guide e abbiamo anche vinto un award in termini di innovation in green. I risultati li vedete nella parte destra: abbiamo ridotto del 20% l’utilizzo dell’acqua nel periodo 2008/2012, 25% di riduzione di tonnellate di rifiuti speciali, il 15% di minor consumo di energia elettrica. E’ accaduto non per una rivoluzione ma per il lavoro costante, metodico, ripetitivo, controllato di tutti i nostri dipendenti in ogni singola clinica. Altro aspetto fondamentale della nostra linea di sostenibilità, è la trasparenza. Vogliamo essere trasparenti, vogliamo mettere a diposizione della comunità scientifica e degli organismi di regolazione, controllo e gestione della sanità, i risultati del nostro lavoro: di conseguenza, abbiamo fatto e facciamo regolarmente, volontariamente, senza che ci venga richiesto, dei report sulla qualità, compresi quei dati che vi ho detto e che riguardano i pazienti che sono entrati nella lista di trapianto. Su una popolazione, sempre più fragile, abbiamo ottenuto dei buoni risultati con l’abbassamento del consumo dei farmaci, l’aumento dei pazienti in lista di trapianto e l’ospedalizzazione ridotta di tre giorni rispetto alla media nazionale. Il messaggio che volevo darvi, quindi, è che, senza un’accurata e regolare analisi di questi risultati e il coinvolgimento di tutti i nostri dipendenti, non si raggiungono i risultati desiderati. La metodicità, la regolarità e la costanza dei nostri dipendenti hanno portato a questi risultati che noi riteniamo molto buoni. Grazie.
BERNHARD SCHOLZ:
Grazie ad Emanuele Gatti che ci ha permesso anche di aggiornare o rinfrescare il nostro inglese. Penso che dai primi interventi sia già emerso che la responsabilità sociale non è qualcosa accanto alle attività di un’impresa, ma parte integrante, integrale di uno svolgimento adeguato delle attività economiche. Passiamo allora al presidente di Coop Italia, Pedroni.

MARCO PEDRONI:
Grazie Presidente, grazie per l’invito, sono molto contento di essere qui e grazie anche a nome di Tassinari che è il nostro Presidente fino a poche settimane fa: da tanti anni collabora con voi, è suo il merito se siamo qui, non solo da sponsor ma da amici, da gente che vuole discutere di cose concrete, importanti come quelle che voi avete al centro. Cerchiai dà la colpa a Scholz della fila che abbiamo fatto stamattina per arrivare qua e dei ritardi. Se è colpa delle Autostrade o dell’affluenza, non lo so, il mondo ha sempre molte cause e molte correlazioni. Noi non ci sentiamo uno sponsor ma degli amici che, come Coop, vengono a confrontarsi con tante opinioni e con la voglia di dare un contributo a questo nostro Paese. Vi faccio subito una domanda: secondo voi, la responsabilità sociale delle imprese è un aggeggio per i tempi buoni? Secondo me, è un aggeggio – lo diceva Cerchiai e io sono d’accordo – anche per i tempi cattivi. La responsabilità sociale è facile nei tempi buoni, quando si crea lavoro, ricchezza, flussi economici. E’ molto impegnativa ma è molto più importante nei tempi cattivi, perché la crisi è dura e violenta, fatta di sofferenze materiali ma anche di sofferenze morali, a volte psichiche o spirituali. Quindi, è una crisi che ha tante facce, che colpisce nel profondo anche tante famiglie. Se solo guardiamo i dati materiali – noi li guardiamo perché è nostro mestiere -, il potere d’acquisto reale delle famiglie, cioè deflazionato e calcolato correttamente, è tornato quello del 1986. Le stime di crescita che fanno gli istituti più ottimistici ci dicono che per ritornare al potere d’acquisto del 2005/2006 forse dovremo aspettare il 2030. Ma tutto questo è ancora un po’ astratto. La cosa probabilmente più pesante è che il reddito e la ricchezza si sono redistribuiti ma nel senso opposto a quello che è giusto, è utile, è importante. C’è stata polarizzazione del reddito e della ricchezza: per tutti gli anni ’70, ’80, fino agli inizi dei’90, c’è stato un trend, nel nostro Paese come in tanti altri Paesi, con un fenomeno redistributivo: cresce la classe media, si assottigliano fortunatamente le classi meno abbienti, più povere. Poi, dall’inizio degli anni ’90 fino al 2000, c’è una forte impennata della concentrazione, un nuovo calo tra il 2000 e il 2003. E’ la fase dell’euro che, da questo punto di vista, non è stato un male per il nostro Paese. Poi c’è oggi una nuova impennata della concentrazione della ricchezza. Uno dice: “Mah, sei il solito di sinistra che vuol fare dei discorsi sulla concentrazione della ricchezza e del potere”. No, vi dico una cosa importante. Per Tutti i Paesi che hanno visto un trend positivo di sviluppo – non so, prendiamo il Brasile -, hanno visto crescere la classe media. In questo Paese, invece, la classe media è andata indietro. Ci sono fenomeni di impoverimento. Lo vediamo in chi fa la spesa nei nostri negozi, nei comportamenti concreti, nelle scelte d’acquisto. E la concentrazione della ricchezza e del reddito sono un cattivo elemento per lo sviluppo e per la ripresa. Ci vuole un sostegno alla domanda interna e il miglior sostegno di lungo periodo alla domanda interna sono politiche redistributive. Come si fanno? Sarà anche complicato farle, però non c’è solo la leva fiscale, anche: c’è la lotta all’evasione, ci sono politiche di incentivazione e politiche keynesiane, senza le quali questo Paese non vedrà la ripresa. Ma c’è anche un’azione da fare, ancora più incisiva verso l’Europa e verso la Merkel, per avere maggiore autonomia e libertà, per poter sostenere la domanda. Allora, io ho sentito Letta, ero qua domenica, penso anche diversi di voi: mi è piaciuto, però questo Governo sta facendo ancora troppo poco. E’ una sciagura se cade ma fa ancora troppo poco. Il Pdl ha preso a litigare, a rincorrere nei guai il proprio capo. E il Pd è preso a litigare su chi comanda. Beh, scusate, avete visto il film di Moretti di qualche anno fa, “dì qualcosa di sinistra”? “Fa qualcosa di sinistra!”. Fate un ragionamento, un pensiero e soprattutto delle azioni su questo tema importante della giustizia sociale, dell’equità e della redistribuzione. Non è mica solo un problema dei politici: le classi dirigenti di questo Paese non sono un granché. E questo riguarda tutti quanti noi. Riguarda la politica ma anche gli imprenditori, i medici, i professionisti, i giornalisti, tanti pezzi della classe dirigente di questo Paese. E allora, chiediamoci concretamente: cosa possono fare, le banche, innanzitutto? Guardate che uno dei fattori che ci sta facendo molto, molto male, sono le banche. Ma perché? Perché sono esse stesse in difficoltà: da un lato, Banca d’Italia sta continuando a stringere i cordoni della borsa invece di avere una politica più attenta al fatto che bisogna concedere effettivamente credito, non solo dare liquidità alle banche che poi reimpiegano le risorse su se stesse. Ma questo vale per le grandi imprese. Ci sono tante eccezioni importanti, private, pubbliche e cooperative. Le metto dentro tutte. Ci vuole un impegno per lo sviluppo: vale per molti operatori economici, per quelli finanziari e non solo, penso che ci sia un principio importante ed è il primo, se vogliamo parlare di responsabilità sociale. Nei tempi buoni è giusto accumulare nelle imprese. Ma quell’accumulo dei tempi buoni deve essere utilizzato nei tempi cattivi e duri perché, prima di mandare a casa la gente, usiamo il capitale che abbiamo accumulato nei tempi buoni, prima di mettere in cassa integrazione straordinaria la gente, facciamo cose di questo tipo, prima di mettere in lista di mobilità, prima di abbandonare i mercati, chiediamo alle nostre imprese di combattere, di usare le risorse che hanno. Sapete cosa però purtroppo è successo nel nostro Paese? Che nei tempi buoni molte grandi imprese, soprattutto quelle a natura privata, hanno accumulato profitti ma i profitti non sono rimasti nell’impresa, se li sono portati a casa gli azionisti o, spesso, l’azionista. Ecco, questa è, a mio modo di vedere, una delle malattie del nostro Paese. E allora, se vogliamo chiedere un contributo e non basta la politica, ci vuole la società civile, ci vuole l’economia, ci vogliono le imprese grandi e piccole, perché questo Paese ha bisogno di una spinta. E io onestamente, ve lo dico con schiettezza, non la vedo questa possibile ripresa di cui si continua a parlare, spostando sempre l’orizzonte. I dati degli ultimi quattro mesi dei consumi degli italiani sono drammatici. Non vorrei annoiarvi però responsabilità sociale dell’impresa per me non è qualcosa di accessorio. E non è neanche soltanto la sempre bella beneficienza. No, per me responsabilità sociale delle imprese vuol dire un pezzo fondamentale di come siamo, di come concepiamo il sistema economico, il sistema produttivo, il sistema organizzativo del lavoro. Non è solo un modo di concepire la distribuzione del reddito e della ricchezza ma è anche un modo per produrli. E qua c’è un nodo, un primo nodo. La domanda è: sono compatibili la responsabilità sociale dell’impresa e il profitto? Domanda vecchissima, però io la rifaccio, schietta e dura. Se per profitto, o utile, chiamiamolo in modo più elegante, si intende un profitto individuale, credo che non ci sia grande possibilità di rendere compatibili questi due elementi. Se invece per profitto intendiamo una cosa un po’ diversa, che è la creazione di valore, di un valore comune, che è fatto da elementi economici ma non solo, penso che le due cose possano vivere insieme. Il mercato non è geneticamente incompatibile con la creazione di valore sociale. Sia la tradizione economico-sociale della Chiesa che quella del movimento socialista nel nostro Paese hanno superato questi concetti già da molto tempo. Però bisogna declinarli dentro la durezza di questa fase. Allora, penso che ci sia un’etica fondamentale, un modo di dirci che, prima di cominciare gli affari, ognuno deve dichiarare qual è il suo punto di partenza. Ci sono tante imprese che fanno cose straordinarie sulla responsabilità, di attenzione all’ambiente, di attenzione al lavoro. Però molte lo fanno esattamente dopo aver fatto un bel conto, se conviene o meno. Che è una buona cosa, beninteso. Penso che alcune cose vadano dette prima, indipendentemente dal conto economico. Noi cerchiamo di farlo. Qua con me c’è Domenico Brisigotti, il nostro responsabile prodotto del marchio Coop. Il principio su cui abbiamo inchiodato i prodotti a marchio Coop è questo: ci sono alcune cose non negoziabili, ad esempio, quella è una roba sull’acqua. L’abbiamo fatta un anno e mezzo fa e continuiamo a farla. Avete mai visto qualcuno, un’impresa – noi siamo un’impresa cooperativa, siamo un insieme di imprese cooperative di distribuzione -, dire che non vuol vendere un prodotto? Guardate che la categoria delle acque minerali, nei nostri negozi, supermercati e ipermercati, è la prima in termini di vendite. E sicuramente la primissima in termini di volumi, peso. Noi abbiamo fatto una campagna per dire che si può bere l’acqua del rubinetto. Volete l’acqua minerale? Benissimo. Scegliete acqua minerale di fonti vicine. Non abbiamo fatto una cosa che è partita dal conto economico ma una cosa che pensiamo sia nella nostra natura e possa essere apprezzata da tanti consumatori. Abbiamo ridotto i volumi di vendita delle acque minerali nei nostri negozi. Sui farmaci abbiamo fatto una battaglia che è arrivata fino a un certo punto insieme ad altri, fortunatamente l’abbiamo fatta: abbiamo raccolto un milione di firme per chiedere che i farmaci non siano esclusiva di qualcuno. Sto facendo degli esempi. La liberalizzazione c’è stata, la legge Bersani di qualche anno fa, però ci si è fermati molto presto, a una quota del 10% dei farmaci da banco. Però, sapete cos’è successo quando sono nate le parafarmacie? Noi ne abbiamo ormai un centinaio, nei nostri punti vendita, ma ce ne sono molte altre. E’ successo che le parafarmacie, su quelle fasce, su quel 10% di farmaci, hanno fatto prezzi inferiori del 25, 30% rispetto a quelli che facevano le farmacie. Le farmacie intorno hanno cominciato ad abbassare i prezzi: è un esempio di liberalizzazione buona. La concorrenza è un valore, combattere il monopolio è un valore, un grande valore per i consumatori. Da questo punto di vista, quindi, penso sia un fatto generale avere un mercato più libero. Ho fatto l’esempio dei farmaci ma se ne possono fare tantissimi altri. Certo, è più dura per le autostrade ma anche lì, come hanno fatto per le Ferrovie, c’è la possibilità di avere un elemento di concorrenza, anche sulle reti autostradali e a pedaggio. Sembra la cosa più difficile al mondo, si fa sul gas, sull’elettricità. Gli Ogm, se avessimo fatto il conto economico prima, avremmo deciso di promuoverli. Noi non siamo contro gli Ogm, tutt’altro. Noi pensiamo che sia giusto avere un principio di precauzione che, su certi aspetti fondamentali della salute e dell’ambiente, guardi avanti. Le uova ve le salto. Salto le uova con le galline allevate a terra, il benessere animale, la banana solida. Si può fare una cosa importante di commercio equo e solidale, molti l’hanno fatto. Noi abbiamo deciso, qualche anno fa, di fare diventare il commercio equo e solidale una nostra linea e abbiamo triplicato le vendite di quei prodotti. Il commercio equo e solidale è una roba per cui lo scambio con quei produttori del Sud del mondo, con quel lavoro, con quelle condizioni ambientali, è più equo, in qualche modo è stabilito prima. E’ un modo di fare solidarietà ma attraverso un commercio stabile che fa crescere la capacità economica degli altri. Allora, io vi faccio una domanda, vado controcorrente. Voi tutti avrete in tasca un aggeggio di Samsung o di Apple, un iPhone, un iPad. Secondo me, il 70% di voi ce l’ha. Avete mai riflettuto attentamente su quegli aggeggi? Steve Jobs è un genio: “Siate folli e affamati” dice, ma ha creato un sistema chiuso per cui voi fate solo quello che Apple decide di fare. Non installate una cosa che avete deciso voi o che qualcuno indipendente ha prodotto. Lo fate solo a pagamento, poco o tanto che sia. Samsung, che usa Android, è un sistema aperto. Io non parteggio per l’uno o per l’altro, parteggio per dove c’è apertura, concorrenza, perché so che voi pagate un aggeggio bellissimo come l’iPhone 600 euro, una follia. Il costo industriale di quell’aggeggio sarà 10 o 20 euro. Dentro, stiamo tutti pagando altre cose. L’altro grande genio, Bill Gates, Microsoft, straordinario. Il 50% del suo patrimonio fa solidarietà, beneficienza. Però ha creato un sistema quasi monopolistico. Non sono i miei eroi, non sono i nostri eroi, almeno per Coop. La genialità non è in astratto il genio, bisogna che sia messo al servizio del bene comune. Lo dico con un po’ di passione perché penso che ci sia tanto da fare e che non basti chiedere di farlo allo Stato. Grazie.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie per questo intervento anche provocatorio. E sentiamo Emilio Petrone di Sisal.

EMILIO PETRONE:
Buongiorno a tutti, grazie di essere venuti, grazie Bernhard per l’opportunità. Vorrei partire dal tema di questa edizione del Meeting, credo sia un tema straordinariamente centrato e attuale, rispetto alla situazione che viviamo tutti i giorni: Emergenza uomo. Innanzitutto attuale, perché io credo che davvero sia una situazione di emergenza, come Paese, dal punto di vista industriale, dal punto di vista commerciale. Come diceva Pedroni, i consumi di questo Paese calano ma credo che il problema più grande sia soprattutto quello dell’occupazione, o meglio, della disoccupazione, ossia la difficoltà in questo Paese di trovare delle opportunità di lavoro. Io lo vedo tutti i giorni e lo misuro, al di là dei dati, delle statistiche che conosciamo e che i giornali ci ripetono, dalla pressione, dal disagio, dalla quantità di richieste che arrivano anche a me personalmente, proprio in tema di occupazione. Emergenza uomo è anche un modo di iniziare a parlarvi brevemente di quello che noi di Sisal abbiamo fatto negli ultimi cinque anni in tema di responsabilità sociale. Cinque anni fa abbiamo deciso di partire, quando abbiamo creato un programma strutturato di responsabilità sociale, proprio dall’uomo, dalla persona, in particolare dalle persone che sono a noi più vicine, i dipendenti della società e poi, insieme a loro, dai partner della società, i nostri punti vendita, i nostri consulenti, le persone che lavorano con noi. Sono profondamente convinto che la prima responsabilità che ha una persona come me, un leader, responsabile di un’azienda, sia nei confronti dei dipendenti, dei partner, dei clienti, cioè le persone che sono più vicine alla attività. La prima cosa che abbiamo fatto è stato investire in formazione: abbiamo iniziato a dedicare tempo e risorse nel migliorare le caratteristiche professionali delle nostre persone, dei nostri dipendenti, per attrezzarli meglio per il futuro. La seconda cosa che abbiamo fatto è stato cercare di creare occupazione, posti di lavoro. Per creare posti di lavoro, devi però avere delle persone motivate, dedicate all’azienda, che diano il meglio per la società: vedete che diventa un circolo positivo, un circolo virtuoso. Tu investi nelle persone, le formi, dedichi loro tempo ed attenzione, e non solo hai persone più soddisfatte di lavorare nella tua società mai anche un’azienda e una realtà che si sviluppa, che cresce. Pensate che abbiamo assunto, negli ultimi cinque anni, 800 persone: e non siamo un’azienda di diecimila persone, eravamo 700, oggi siamo più di 1500. Siamo una delle poche aziende italiane che è riuscita ad allargare la propria dimensione nell’arco degli ultimi cinque anni che, come sapete, sono stati abbastanza difficili. Però poi naturalmente questo non basta, non ci possiamo fermare lì, non possiamo rimanere chiusi alla famiglia allargata, al gruppo delle persone con cui operiamo. Per cui, la seconda cosa che abbiamo fatto è stata prenderci un impegno di lungo termine, quindi un impegno simile a quello che ci si prende nella propria attività principale, nei confronti delle comunità. Ci siamo detti: non guardiamo soltanto a quello che facciamo, alla strategia del business dell’azienda, ma anche a come lo facciamo e insieme a chi. E così abbiamo iniziato a cercare di collaborare e di restituire una parte dei nostri profitti alle persone, alle comunità, al Paese in cui operiamo. Abbiamo fatto fare una serie di cose, ve le voglio elencare non per dimostrarvi che siamo bravi, che siamo belli, ma per condividere con voi questo percorso e farvi vedere una visione del futuro, di quello che si può fare negli anni a venire. Quello che abbiamo fatto per cercare di diventare buoni cittadini del Paese e del mondo, è stato iniziare ad attaccare dei temi, ad esempio quello dei bambini, o quello del supporto al patrimonio artistico del Paese, assieme a dei partner. Ad esempio, per quel che riguarda l’aiuto ai bambini, ci siamo appoggiati a Save the Children, che è una grandissima organizzazione mondiale in partnership con noi. Con loro stiamo facendo ad esempio un progetto per ridurre l’abbandono scolastico, che è un problema enorme anche in Italia, che ad oggi ha coinvolto 5000 bambini in varie città italiane. Oppure, con Make a Wish, un’organizzazione fantastica che si occupa di bambini malati o con problemi gravi, cercando di alleviare la loro situazione. C’è stata una fase in cui abbiamo allargato il nostro scopo e abbiamo cercato di restituire qualcosa alle comunità in cui operiamo. Adesso abbiamo un programma che portiamo avanti da cinque anni, con la stessa energia che mettiamo nello sviluppare le attività della società. Questo programma di responsabilità sociale ad oggi non basta più, è il passato, per il futuro vorremmo cominciare a fare anche cose diverse. Mi ha colpito molto anche quello che diceva Pedroni prima, cioè un approccio più etico e strategico al lavoro che facciamo: non solo condividere una parte del profitto che l’azienda realizza ma anche cominciare ad inserire nell’attività che l’azienda svolge un interesse più forte, più importante per gli altri, per le comunità e, più in generale, per la società in cui operiamo. Non è una cosa facile, significa sostanzialmente passare da quello che oggi è la responsabilità sociale – io guadagno 100, prendo 1 di questo 100 e lo distribuisco, lo dono, lo investo per essere un buon cittadino del mondo e per creare un’azienda responsabile e sostenibile – al diventare un’azienda che vede il benessere allargato della società e della comunità come uno dei pilastri strategici del proprio operare. Non so se sono riuscito a essere chiaro: oggi si prende una parte di quello che si guadagna e la si restituisce, è una cosa importante, una cosa buona. C’è chi la critica, chi la ritiene insufficiente, probabilmente è vero, comunque è una cosa da favorire, da alimentare. Se più aziende facessero questo, avremmo di sicuro un Paese e un mondo migliori. Però per fare questo bisogna avere un’azienda in salute. Fare responsabilità sociale è un lusso, è qualcosa che costa, sono investimenti, bisogna avere un’azienda sana, in buona salute, che possa permettersi questo tipo di opportunità. Ma veniamo al futuro, al modo di farlo negli anni a venire. Gli americani hanno già fatto una revisione, da questo punto di vista gli anglosassoni sono avanti rispetto agli europei e a noi italiani: mentre la responsabilità è definita CSR, Corporate Social Responsibility, questa la chiamano CSV, Corporate Shared Value, valore condiviso. Quindi, non più solo una responsabilità sociale ma un valore condiviso. Cosa significa valore condiviso? Significa inserire all’interno delle strategie, del modo di pensare dell’azienda, non più soltanto la propria organizzazione, i propri dipendenti, le proprie comunità ma avere un obiettivo, una visione più ampia, più grande, soprattutto avere in mente strategicamente il benessere comune, il benessere sociale, quando si prendono delle decisioni. Faccio un esempio: se si apre un punto vendita, sviluppare, creare un tipo di strategia e di azione in modo che quella apertura, quell’investimento, generi stabilmente della ricchezza incrementale, del valore aggiunto non solo per l’azienda ma anche per la società, per la comunità in cui il punto vendita viene attivato, in termini di occupazione, di sostenibilità, di territorio, magari condividendo stabilmente una parte dei profitti ottenuti con il territorio in cui il punto di vendita viene allocato. E’ un modo di vedere la responsabilità sociale completamente diverso. Forza l’azienda a ripensare i prodotti, le strategie, la distribuzione, il modo di ragionare dei dipendenti. E’ un approccio che in futuro segnerà veramente la differenza tra chi è rimasto con una visione della responsabilità sociale un po’ legata al passato e chi invece riuscirà a dare una visione diversa, legando strettamente la propria azienda con le comunità, con la società, con i Paesi in cui opera. Io credo che questa sarà un’enorme sfida ma avrà anche potenzialmente dei grandissimi ritorni. Una sfida perché tutti questi cambiamenti sono difficili da spiegare e ancora più difficili da implementare. Quando si va da un Consiglio di Amministrazione, dai propri investitori, dai propri azionisti, per dire che si vuole investire per un’attività che non è strettamente, direttamente produttiva, che non ha un ritorno, e magari nel frattempo i consumi calano, ci sono difficoltà di tutti i generi, non sono scelte facili da portare avanti. Però io sono convinto che faranno fare un passo avanti alla qualità delle organizzazioni, perché sempre più persone eccellenti vorranno lavorare in organizzazioni eccellenti, soprattutto in organizzazioni che sono avanti, non solo nel prodotto, nella pubblicità, nella tecnologia, ma anche nell’etica e nell’approccio con cui si relazionano alla società e alle comunità. Seconda cosa, sono anche convinto che a livello di consumatore finale si guarderà sempre di più a cosa c’è dietro: la marca del prodotto, le caratteristiche intrinseche, certo, ma sempre più a come quel prodotto è stato generato, sviluppato, da quali persone e da quale azienda, con che tipo di approccio nei confronti della società, del Paese e delle comunità in cui opera. La sfida del futuro sarà questa: abbandonare il modo un po’ assistenzialistico di fare responsabilità sociale del passato, muovere verso una nuova concezione in cui la responsabilità sociale si allarga e diventa parte integrante del nostro lavoro, parte integrante della strategia, della cultura dell’azienda, in modo da modificare il proprio modo di lavorare, di operare, di pensare, per adeguarsi a questo tipo di novità. Credo che questo darà, oltre a un grande vantaggio in termini di responsabilità sociale, un grande vantaggio in termini di competitività alle aziende che sposeranno questo tipo di realtà. Grazie mille.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie, penso che sempre di più si sta chiarendo un concetto di responsabilità sociale nuovo, in continua evoluzione, dentro le nostre aziende. Per introdurre l’intervento di Silvio Cattarina, volevo leggervi un passaggio, brevissimo, di quel piano sulla responsabilità sociale del Governo che hai citato prima, perché mi ha veramente sorpreso che ci sia un obiettivo che dice questo: “Il Terzo Settore” – il nome non mi piace ma non ne abbiamo un altro – “assicura la sostenibilità dei processi di sviluppo di lungo periodo, perché impegnato a rimuovere gli ostacoli che generano una insicurezza sociale nei soggetti esclusi e vulnerabili. Per incidere maggiormente, in maniera più efficiente ed efficace, il Terzo Settore deve rafforzare la propria efficienza, trovare nuovi segmenti di mercato e finanziatori e allo stesso tempo è importante che dialoghino con le imprese profit”. Penso che abbiamo aperto un bel tema. A te la parola.

SILVIO CATTARINA:
Grazie, parto dalla mia esperienza, mi sento un po’ a disagio in questo ambiente così impegnativo, qualificato, vista anche la piccolezza della nostra esperienza. La nostra attività si svolge a Pesaro, abbiamo delle comunità terapeutiche, dei centri di accoglienza per ragazzi devianti e tossicodipendenti. L’età di questi ragazzi che accogliamo va dai 16 anni ai 22, 24 anni: lavoriamo molto sulla responsabilità, ma più che altro su quella personale. Il rapporto che c’è successo di avere con tanti amici, imprenditori di rilievo del nostro territorio, è sempre stato molto bello e significativo perché, innanzitutto, non abbiamo chiesto un aiuto economico e un sostegno ma un coinvolgimento, e abbiamo tratto tanto beneficio dall’amicizia. Mi ricordo che un imprenditore – gli avevo chiesto di aiutarci, di darmi una mano – mi aveva detto: “Quanto vuoi?”. Io gli avevo risposto: “Desidero che tu diventi amico dei miei ragazzi, che ti fai conoscere, che gli racconti la tua esperienza, che dici come hai superato le prove, come hai vissuto la tua famiglia, i tuoi figli, insomma, quando rischiavi di fallire come sei ripartito, ecc”. Da lì sono nati tanti rapporti. E’ stato un aiuto reciproco molto fecondo, con i nostri ragazzi, abbiamo scoperto tante cose veramente belle. Perché i nostri ragazzi partono anche molto sfortunati, con esperienze di dolore alle spalle, ed è come se non ci credessero più. Però vedo che non c’è bisogno di andare in comunità o di aver bisogno della comunità, per questo: tanta parte del mondo giovanile è attanagliata da questa sfiducia di fondo. Tanti giovani dicono: non sono capace, non ho voglia. Facevo un esperimento a casa mia, con i miei figli e i loro amici, quando dovevano scegliere l’università. Dicevo: “A che facoltà ti vai ad iscrivere?”. “Mah, medicina, provo”. Aggiungevano questa parolina, che mi sembra indicativa. Ti ho chiesto solo che facoltà vai ad intraprendere, perché metti le mani avanti così? Perché metti delle ipoteche, tu stesso, sul tuo futuro? Caso mai sarà la vita, saranno le esperienze che ti faranno cambiare, correggere: perché dubiti? Ecco, non c’è proprio bisogno di vedere certe situazioni. Da una decina d’anni mi sono accorto di un cambiamento nel mio modo di fare, di essere. Quando un ragazzo entra in comunità, io chiedo sempre qual è la promessa che lo sostiene, che attesa ha. I nostri ragazzi dicono tutto il fallimento, tutto il male, tutte le cose commesse, ma noi è come se dicessimo: “Di questo parleremo, lo affronteremo”. Noi facciamo tutto un lavoro di giudizio, di comprensione, di valutazione, anche un lavoro scritto, nei due incontri al giorno. La comunità è molto precisa, è molto ferma, molto esigente, ma ciò da cui vogliamo partire è il presente: adesso, che cosa vuoi? Che cosa ti aspetti dalla vita? Tira fuori questo. Io penso che il problema che ha il Terzo Settore sia quello a cui alludevi tu, caro Presidente, quando dicevi: non mi piace questa definizione, questa settorializzazione. I buoni e i cattivi, i buoni da una parte, i cattivi da un’altra: è un problema che abbiamo tutti. Dimmi che cosa desideri nella vita. Tu arrivi e te lo dico io: io voglio cercare insieme a te una grande cosa, voglio vedere se su questa terra c’è qualcosa e qualcuno che ci viene incontro e, abbracciandoci, ci porta ogni sorta di dono. Non importa il passato, tu non sei il passato, non sei il male commesso, il male ricevuto, non sei la droga assunta, non sei il carcere che hai passato, non sei la malattia che hai avuto. Tu sei un’altra cosa, sei una grande promessa: lavoriamo, aiutiamoci insieme affinché sia possibile riprendere una grande speranza. Il dramma della droga, secondo me, è un po’ il dramma di tutti, anche di noi adulti, che magari sappiamo nasconderlo un po’ di più. Non a caso i ragazzi usano questo verbo terribile, irricevibile. Loro dicono “io mi faccio”, per descrivere la condizione nella quale sono caduti. Non dicono, come chi non ha mai fatto uso delle sostanze, “si droga”, “si è drogato”, “assume”, no! Loro dicono “mi faccio”. Come se intendessero: mi creo io, io da solo, solo contro tutti, abbandonato e di nessuno, e mi devo costruire io. Ecco, per me questa è sempre stata una grande ribellione, un grande scandalo. Io, che ho sempre avuto tanto dalla vita, dagli altri, dalla tradizione, dalla tradizione cristiana: invece il problema è che la forza, il coraggio venga cercato fuori, secondo me, cioè cerchiamo se su questa terra c’è qualcosa e qualcuno che ci porta tutto. Il dramma dei giovani, ma anche di noi adulti, è che pensano che la soluzione e il problema siano tutti dentro la persona: ci si droga, tanti si drogano perché, immettendo delle cose nell’organismo, vogliono scoprire un’esplosione che dia una perfomance, una prestazione tale che stai meglio. E tutti sanno che non è così e che, caso mai, il piacere è così fugace, così veloce che non val la pena, con tutto quello che comporta e ne consegue. Ma la mentalità è appunto questa: che si crede che la soluzione venga da dentro la persona, la forza, il coraggio, la passione. E c’è tutto questo intimismo, tutto questo male che si fa la persona perché non c’è una risposta ma la risposta, appunto, è fuori, nel mondo e nella realtà, come se non vedessimo più una presenza, un grande aiuto, un invito. Invito vuol dire proprio essere chiamati dentro la vita. Ai nostri ragazzi chiediamo tanto e tantissimo. Si dovrebbe fare il contrario, no? Tanta mentalità porta a dire questo: poverini, siccome hanno sofferto tanto, chiediamo il minimo. Nella scuola italiana avviene questo, sempre più si chiede meno ai ragazzi: meno impegno, meno studio, meno compiti. E i ragazzi sono i primi a dire: gli adulti che ho davanti credono davvero poco in me, se mi chiedono poco. A chi ha sofferto, ad esempio – ci abbiamo messo un po’ di anni a capirlo ma lo abbiamo capito bene – bisogna chiedere di più. Ma insomma, oltre al danno che ho avuto, anche la beffa che tu, che mi vuoi aiutare, mi chiedi poco? Io desidero tutto nella vita. Io penso che il paradigma, l’esemplificazione che possono portare le nostre attività, sia questo. Mi dispiace davvero tanto per i giovani che sono così chiusi: non è perché sei stato sfortunato che devi essere anche infelice, non è perché hai avuto questo e quest’altro, il papà e la mamma, sei nato in un Paese che non era scritto nemmeno sulle carte geografiche – si diceva di Nazareth – devi essere infelice, devi essere sfortunato. C’è la possibilità di un aiuto tra le persone, di un guardarsi, di un chiamarsi, di un invitarsi, c’è una possibilità di alzare gli occhi e di impegnarsi che è veramente strabiliante, se cominciamo a vedere che nella realtà c’è questo sposo che ci ha sempre atteso. Mi sono ricordato, ad esempio – e sono rimasto male di me stesso, l’avevo rimossa – di una parabola del Vangelo che mi colpiva sempre tanto quando ero piccolo. Questo sposo d’eccezione che gira per le vie del mondo e che si ferma davanti a tutti e dice: ho preparato un banchetto nuziale, è bellissimo, è straordinario, ma adesso tutti mi dicono che non vengono più, che non se l’erano segnato sull’agenda, che si sono dimenticati, che la moglie ha da fare, che i figli rompono. E si ferma davanti a te e dice: vieni tu, vieni tu che sei più povero, il più sgarrupato, tu che non sei di nessuno, non hai il papà e la mamma, vieni tu, con te farò grandi cose. Secondo me, nel mondo, nella realtà, in tutto il desiderio del cuore dell’uomo, in questo incontro, in questa solidarietà, in questa responsabilità sociale, c’è dentro questo: io desidero incontrare una misura diversa. Con i miei ragazzi dico questo, noi operatori, tutti i miei amici che mi aiutano tanto a condurre quest’opera, diciamo questo. C’è una grande possibilità, c’è veramente la possibilità di una misura diversa. Ho scoperto anche la frase di una santa molto minore, una frase dei tempi antichi che è bellissima. Dice: “Tenete l’antica strada” – questo, per l’autostrada – “e fate vita nuova”. Ecco, il problema è un aiuto nuovo che riusciamo a darci tra noi poveri cristi che siamo e questo povero Paese che non crede più, che non spera più. Secondo me, il bello è questo: quando fermo un ragazzo per la comunità e gli dico: io ci credo veramente a quello che fai qui dentro, vedi se anche tu, piano piano. Ciò che fai qui dentro per te, di buono, fallo per tutto il mondo. Devi pensare che sia bello e valido per tutto il mondo. Questo ci è stato detto, non vogliamo fare solo per noi, vogliamo fare per tutti, deve essere una cosa che guardano tutti, dev’essere un’opera d’arte: e si può fare ovunque, non c’è bisogno di fare il mio lavoro, ci mancherebbe. Io non volevo fare questo tipo di lavoro, mi sono anche tirato indietro quando me l’hanno proposto, dopo hanno insistito e ho detto di sì. Però mi ricordo benissimo che avevo un cuore che attendeva cose grandi. C’è anche il miracolo italiano, perché questo vale anche per l’economia, secondo me. Deve essere nel cuore: “Tenete l’antica strada e fate vita nuova”. Un ragazzo una volta ci ha detto: “Tu ci porti sempre in giro a parlare” – perché andavamo in un luogo con migliaia di persone, proprio qui alla fiera di Rimini -, perché ci chiedi questo? Oggi non riusciamo, perché ci esponi in questo modo, Silvio? Non siamo capaci”. Sul momento, ho risposto: “Hai ragione, non siete capaci, non ce la farete, se pensi alla tua capacità, non ce la farai, ma se pensi a quello che hai incontrato, a ciò che ti ha incontrato, ce la farai benissimo”. Ecco, il problema dell’entusiasmo nella vita è fondamentale, secondo me. Ripeto, il mondo imprenditoriale ci insegna soprattutto questo e ci dà soprattutto questo. Poi abbiamo bisogno anche di tanti aiuti economici, anche su questo ci dovete aiutare. Ma quello che importa di più è quest’altra cosa, che secondo me è bellissima. Un altro ragazzo una volta ha detto: “Quando veniamo via con te a parlare siamo tutto il viaggio in macchina, siamo completamente vuoti, ma quando saliamo sul palco alziamo gli occhi, guardiamo tutti quelli che abbiamo davanti e ci accendiamo”, anzi, ha detto “Ci riempiamo in quel momento”. Pensate, questa è una capacità che ti viene da fuori, è un’esperienza proprio nuova, la vita deve venire da fuori, io voglio che ogni dono, ogni capacità venga da fuori, mi venga data dalla realtà, da Dio per chi ci crede: se la faccio io, è sempre piccola, è sempre limitata. Ecco, l’incontro tra le persone: l’impresa, secondo me, è questo. Uno ha detto: “E’ come se in quel momento ci riempissimo”. Lo posso dire apertamente, con molto affetto, sono anche ragazzi poveri e descolarizzati, fanno fatica a parlare, alle volte, e l’altro ha detto: “Sì, sì, è come se ci accendessimo in quel momento”. Per me è bellissimo! Sembra la Pentecoste, viva Dio! Così come in questi giorni al Meeting, tutti questi ragazzi nostri che presentano la mostra, è bellissimo perché vedi che sono infuocati, sono accesi, sono incendiati. Un mio collega dice: “Io ho ragazzi come i tuoi, e i miei non parlano”. Io gli ho risposto: “Ma non sei tu che li devi fare parlare, non siamo noi, noi dobbiamo accendere un fuoco”. Poi mi sono corretto: “Non è giusto, noi dobbiamo dire che c’è un fuoco sempre acceso perché non siamo noi ad accenderlo. La legna e il fiammifero non sono nostri, dobbiamo dire che c’è un fuoco sempre acceso, poi vedrai se non lo vogliono anche loro, quel fuoco lì!”. Ecco, io penso che la responsabilità sociale sia un fuoco che va sempre tenuto acceso, con questa speranza così grande.

BERNHARD SCHOLZ:
Ringrazio Silvio Cattarina, penso che abbiamo sentito momenti di provocazione. La responsabilità sociale è qualcosa che non si fa gestendo a distanza un problema ma qualcosa che chiede, come evidentemente ci ha detto l’ultimo intervento, un coinvolgimento nelle relazioni, con il territorio. Come abbiamo sentito per Autostrade, coinvolgersi nel territorio è chiedersi ad esempio quale impatto avremo facendo una strada. Oppure è coinvolgersi con i bisogni e le necessità che hanno i clienti di aver maggiore sicurezza. Nel caso di Freseius, la necessità di incidere in un modo sistematico, non solo improvvisato, che un’azienda come questa richiede, per avere la certezza di essere più ecologica possibile, di avere un cultura e una formazione più incidente possibile. O, nel caso di Sisal, superare la semplice beneficenza e andare verso una condivisione di valori. Oppure, nel caso della Coop, riflettere anche sull’incidenza che ha sul mercato, anche per quanto riguarda la qualità del prodotto. La cosa che più mi sembra essere chiara, dopo questi interventi, è che noi non possiamo più pensare a una economia divisa solo fra il profitto che si fa e poi la beneficenza: ci vuole una sempre crescente interdipendenza fra le varie attività che noi svolgiamo, che ognuno di noi svolge, attività economiche, di volontariato, culturali. Anche a livello degli attori del mercato, degli attori del Terzo settore, deve nascere una continua integrazione, sempre più chiara, sempre più trasparente, per contribuire al bene comune. Io penso che il bene comune non si raggiunga attraverso una mediazione di interessi particolari ma attraverso la coscienza che ognuno di noi ha di contribuire, attraverso quello che fa, implicitamente o esplicitamente, al bene comune stesso. E’ qualcosa che nasce in ognuno di noi, al quale ognuno contribuisce e che non può dipendere solo dal fatto che c’è qualcuno che mette insieme i particolari. Il particolare, il nesso fra i particolare e il tutto, lo dobbiamo avere presente già in quello che facciamo. Grazie.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

22 Agosto 2013

Ora

11:15

Edizione

2013

Luogo

Sala D3
Categoria
Incontri