LA FORMAZIONE PROFESSIONALE: UNA RISPOSTA STRUTTURALE ALLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

La formazione professionale: una risposta strutturale alla disoccupazione giovanile

Partecipano: Angelo Candiani, Presidente di Aslam – Associazione Scuole Lavoro Alto Milanese; Francesco Mantovani, Direttore Formazione e Sviluppo Risorse Umane di Finmeccanica; Dario Odifreddi, Presidente Fondazione Piazza dei Mestieri; Claudia Porchietto, Assessore al Lavoro e Formazione Professionale della Regione Piemonte; Gabriele Toccafondi, Sottosegretario di Stato all’Istruzione, Università e Ricerca. Introduce Roberto Corno, Compagnia delle Opere per il Lavoro.

 

LA FORMAZIONE PROFESSIONALE: UNA RISPOSTA STRUTTURALE ALLA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE
Ore: 15.00 Sala Neri
Partecipano: Angelo Candiani, Presidente di Aslam – Associazione Scuole Lavoro Alto Milanese; Francesco Mantovani, Direttore Formazione e Sviluppo Risorse Umane di Finmeccanica; Dario Odifreddi, Presidente Fondazione Piazza dei Mestieri; Claudia Porchietto, Assessore al Lavoro e Formazione Professionale della Regione Piemonte; Gabriele Toccafondi, Sottosegretario di Stato all’Istruzione, Università e Ricerca. Introduce Roberto Corno, Compagnia delle Opere per il Lavoro.

ROBERTO CORNO:
Buongiorno a tutti e grazie di essere intervenuti così numerosi, tra l’altro, è un dato molto interessante per l’argomento di cui stiamo discutendo. Oggi parleremo di disoccupazione giovanile e di formazione professionale come antidoto, come strumento di risposta a questo grave problema. Questo è il terzo di una serie di incontri che il Meeting di Rimini ha dedicato, insieme a Compagnia delle Opere, proprio al tema, che ci sta molto a cuore, del lavoro in generale e in particolare della disoccupazione dei giovani, del loro percorso nel mondo del lavoro, tanto è vero che a questo tema abbiamo dedicato come Compagnia delle Opere un libro che abbiamo pubblicato l’anno scorso e alcune altre iniziative. Il tema che affrontiamo è che cosa sia la disoccupazione dei giovani e come si possa in qualche modo porvi un argine per limitarne la dimensione. E’ un incontro basato soprattutto su delle esperienze, quindi non faremo domande in senso stretto: le persone che sono qui racconteranno di un’esperienza e di come questa esperienza può essere uno sprone, un’ipotesi anche per altre esperienze analoghe e come la politica possa aiutare a sostenere queste iniziative, queste esperienze e la loro diffusione. Con me ci sono oggi il Presidente di Piazza dei Mestieri di Torino, Dario Odifreddi, che ci racconterà appunto l’esperienza della Piazza dei Mestieri, che favorisce la preparazione e l’avviamento al lavoro dei giovani in obbligo formativo. Vi è poi Angelo Candiani, Presidente di Aslam – Associazione Scuola Lavoro -, che ci presenterà l’esperienza dell’ITS per i trasporti e la logistica intermodale. Vi sarà poi un’esperienza squisitamente aziendale, quella di Finmeccanica, un grande, grandissimo gruppo italiano che investe in tutto il mondo e investe tantissimo in formazione. Ci racconterà, il dottor Mantovani che è Direttore Formazione e Sviluppo della stessa a livello mondiale, cosa sta facendo, in particolare un’esperienza estremamente interessante che intende dare lavoro a migliaia di giovani, italiani e forse non solo. La parola passerà poi all’istituzione per dire che cosa le istituzioni fanno e che cosa potrebbero fare ancora o stanno pensando di fare per favorire l’espandersi, il replicarsi di queste esperienze. Claudia Porchetto, Assessore al Lavoro e Formazione Professionale della Regione Piemonte, ci racconterà cosa è stato fatto, anche in questo caso sono esperienze davvero interessanti e da seguire. Infine, l’onorevole Toccafondi, Sottosegretario di Stato per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca, ci presenterà il contesto giuridico e le prospettive dell’evolversi di queste esperienze. Io mi permetto solo, a titolo di introduzione, per cercare di contestualizzare il tema di cui stiamo parlando, di darvi alcune suggestioni. La prima riguarda proprio il tema, cioè la disoccupazione giovanile: cos’è questa disoccupazione giovanile? Se ne parla tanto, il dato che più spesso viene citato è il 39% dei giovani che risulta disoccupato, è un dato ISTAT, quindi incontrovertibile, molto spesso utilizzato e pubblicato. In realtà, questo dato va letto con un po’ di attenzione perché il 39% dei giovani disoccupati riguarda quei giovani tra i 15 e i 24 anni che stanno cercando lavoro: e noi sappiamo che non tutti, non molti giovani tra i 15 e i 24 anni cercano lavoro. Infatti, in realtà la disoccupazione giovanile, negli anni della crisi 2009/2012, è cresciuta paradossalmente meno della disoccupazione generale. Il tema della disoccupazione dei giovani non è dato da questo numero pur grave, gravissimo, perché vuol dire che un giovane su due, tra quelli che stanno cercando lavoro in quella fascia di età, non trova lavoro. Il dato più preoccupante è un altro, quello dei cosiddetti NEET, cioè di tutti quei giovani che non lavorano e non studiano. Questo sta crescendo nel nostro Paese in modo drammatico, letteralmente drammatico, oggi sfiora il 37%, è quindi paragonabile a quel 39% che vi ho citato, ma è molto più grave perché riguarda una fascia di giovani che non sta più studiando e non sta cercando attivamente lavoro, quindi è un dato di scoraggiamento davvero molto grave. Un altro dato molto grave e molto importate è il tasso di abbandono scolastico: in Italia abbiamo circa il 18% di giovani che lasciano la scuola prima di averla terminata. E’ un altro dato che getta sconforto, preoccupazione, perché vuol dire che molti giovani non concludono gli studi e non conseguono quindi quelle competenze, più o meno certificate, che servono poi a entrare autorevolmente nel mondo del lavoro. Tra l’altro, è un gap fortissimo che noi abbiamo rispetto agli altri Paesi europei, tanto è vero che nelle indagini internazionali noi siamo purtroppo il fanalino di coda in termini di qualificazione professionale in tutta Europa. Questo è uno scenario davvero preoccupante, soprattutto perché è in forte crescita. Dall’altra parte, abbiamo il mondo del lavoro, cioè le aziende. E cosa cercano le aziende? Anche qui si dice: non c’è lavoro, c’è la crisi, un altro dato che va compreso, non perché non sia vero in assoluto ma perché va contestualizzato. L’anno scorso si stima siano state assunte circa 408mila persone, di queste persone assunte, 65mila sono risultate di difficile reperimento. Cosa vuol dire? Vuol dire che le aziende ci hanno messo dai tre ai dodici mesi per trovare le persone, vuol dire quindi che mancano persone, mancano posti di lavoro. Ieri, in questa stessa sala, c’era l’incontro con il Ministro Giovannini e alcuni rappresentanti di altre aziende. In particolare, mi ha colpito l’intervento dell’Amministratore Delegato di Banca Prossima che citava un altro dato interessante, che il cosiddetto Terzo Settore o economia sociale oggi occupa un milione di persone e il tasso di crescita dell’occupazione in quel settore è stato negli ultimi anni del 39%. Un altro dato: l’Italia è il Paese in Europa che ha il più alto tasso di lavoratori indipendenti, il 30% dei lavoratori italiani sono indipendenti, che vuol dire non solo i professionisti ma anche gli artigiani, tutti coloro che avviano una piccola impresa in proprio. Ci sono molte opportunità di lavoro. Quindi, c’è qualcosa, se mi permettete, di un po’ strano, complicato, e i numeri ce lo dicono, ci dicono che molti giovani seguono strade probabilmente infruttuose. Ancora oggi il 47% dei nostri giovani scelgono come scuola superiore il liceo, che spesso ha un esito non così immediato, comunque viene rimandato il momento dell’ingresso nel lavoro e a volte poi si conseguono degli insuccessi. Ultima suggestione, ultimo argomento che mi sembra utile per contestualizzare l’incontro di oggi, è leggere la crisi nella quale siamo immersi, di fronte alla quale siamo. Non è una crisi passeggera, transitoria, ma è una crisi epocale, stiamo transitando da un’epoca a un’altra epoca. E questo va capito, tant’è vero che lo stanno capendo quelle aziende che resistono e che innovano anche in questo momento, che riescono a fare innovazione, ad andare oltre. E come lo fanno? Cambiando il loro modello di business. Allora, la domanda è perché i giovani – e non solo loro, naturalmente -, chi cerca lavoro, non vuole cambiare modello di lavoro? Il lavoro non è più il posto per tutta la vita, il lavoro è un continuum di esperienze, probabilmente molto diverse tra loro, nelle quali si inizia da una parte per arrivare ad un’altra, il lavoro non è sotto casa per forza, oggi siamo nell’epoca della globalizzazione. Allora, è in tutto il mondo. Io ho sette figli, ne parlo anche perché sono interessato all’argomento, e dico sempre loro: “Ragazzi, guardate che il lavoro non è detto che debba essere qua, a 50, 60 km da casa. Può essere in Dubaj piuttosto che in Bangladesh, poi magari è auspicabile che torniate a casa, ma cominciate a concepirlo; e non dev’essere necessariamente in lingua italiana”. E’ un altro aspetto che spesso i nostri giovani considerano poco o in modo superficiale. Ecco, se le aziende di successo, quelle che oggi resistono, lo fanno perché hanno cambiato il cosiddetto business model, il modello di azione, perché non debbono farlo i lavoratori? Una parte importante, fondamentale, l’ha l’educazione, il percorso formativo. Abbiamo di fronte un problema complesso, quando si parla di disoccupazione giovanile non stiamo parlando di una cosa semplicemente riducibile al famoso 39%, anche riletto come vi ho suggerito, ma è un problema complesso e in forte evoluzione. I giovani risultano soprattutto disorientati e incapaci di prendere iniziativa, disorientati e scoraggiati: questi sono i due temi più gravi. Il fenomeno dei NEET, che è più importante, più significativo della lettura della disoccupazione giovanile oggi, è gravissimo. A questo aggiungo che abbiamo una popolazione in declino. Non siamo in grado di valorizzare i talenti che abbiamo in casa: ci è riconosciuto in tutto il mondo che le nostre scuole, le nostre università sono di eccellenza, i nostri giovani sono ricercati in tutto il mondo, conoscete il fenomeno della fuga dei cervelli, proprio perché siamo in grado di prepararli bene. Ma se poi giungono sul mercato del lavoro disorientati, senza scegliere le strade corrette, e scoraggiati al punto che nemmeno si impegnano a cercar lavoro, beh, stiamo perdendo tutti quanti la grande opportunità. Ci sono però delle risposte ed è di questo che oggi parliamo. Non mi dilungo ma chiedo ai nostri ospiti, che ringrazio di essere venuti qua in quest’occasione, di raccontarci soprattutto le loro esperienze e poi di giudicarle, in particolare con i rappresentanti delle istituzioni perché queste esperienze possono essere continuate e moltiplicate. Passo quindi la parola al dottor Odifreddi che ci racconta l’esperienza di Piazza dei Mestieri a Torino.

DARIO ODIFREDDI:
Grazie, buongiorno a tutti. Prima di provare a raccontare l’esperienza della Piazza dei Mestieri, vorrei partire da una parola che all’origine, la parola amicizia. La Piazza dei Mestieri nasce a Torino nel 2004, come il frutto maturo di una lunga storia di amicizia che con alcuni dura ormai da oltre trent’anni, anzi, quasi trentacinque. Una storia che ha avuto momenti entusiasmanti, momenti difficili, momenti di fatica. Faccio solo due esemplificazioni importanti di questa storia di amicizia, perché ci aiutano a capire da cosa nasce la Piazza dei Mestieri. La prima è l’incontro, avvenuto trent’anni fa, con l’esperienza cristiana, con don Giussani. E’ stato l’incontro straordinario di noi giovani adolescenti con uno che sfidava il nostro desiderio. Avevamo la percezione che il nostro desiderio di costruire cose grandi era possibile, che il desiderio che avevamo non era destinato a spegnersi, e questo è stato, a quell’età, un fattore mobilitante. Ancora oggi, dopo tanti anni, è l’elemento decisivo nell’esperienza che tutti i giorni facciamo con i nostri ragazzi. Questa amicizia ha avuto anche momenti difficili, momenti di sfida, momenti di dolore: ne cito solo uno che è fondamentale nella storia della Piazza dei Mestieri. Nel 1986, improvvisamente, durante una gita in montagna con quattrocento amici, uno di loro è morto. Era un alpinista esperto, si stacca un pezzo di sentiero e muore. Questo amico si chiamava Marco Andreoni – infatti la Piazza dei Mestieri è a lui dedicata, si chiama Fondazione Piazza dei Mestieri Marco Andreoni -, era il leader del gruppo, come capita nelle compagnie degli adolescenti, quello che teneva insieme tutti quanti. E lì c’è stato il dolore, c’è stata la ribellione, sembrava venisse troncata tutta la bellezza, il sogno, la possibilità di espressione che stavamo vivendo. venisse troncata. Era una vacanza che terminava con l’ultima serata di festa, decidemmo di fare comunque insieme la serata ed è stata la più bella della mia vita. Ci siamo accorti che l’esperienza umana è ridere e piangere davanti al Mistero, che si possono avere gli occhi rigati di lacrime ma anche il cuore pieno di letizia, di voglia di costruire. E’ stato un passaggio decisivo della nostra sfida, quel giorno del 1986. Ovviamente non sapevamo ancora che nel 2004 avremmo fatto la Piazza dei Mestieri, ma quel giorno e quella sera, guardandoci tra noi, è iniziato il desiderio di provare a costruire qualcosa insieme. Per raccontarvi invece cosa accade alla Piazza dei Mestieri, vi invito a vederla, perché poi le esperienze si incontrano molto meglio personalmente. Chiederei alla regia di far partire un video che cerca di descrivere sinteticamente cosa succede e quali sono le caratteristiche della Piazza.

Proiezione video

Nel video abbiamo cercato di descrivere quali sono le dimensioni fondamentali di questa esperienza, anche se la cosa più straordinaria è veramente passare lì la mattina, il pranzo, e vedere il volto di questi ragazzi che stanno con noi due, tre anni e arrivano alla qualifica, quattro, quelli che arrivano al diploma professionale. Spesso arrivano da noi con una percezione totalmente negativa di sé, un’arrabbiatura col mondo, riflesso di questa percezione dello scarso valore di sé. E’ impressionante vedere come in pochi mesi recuperino la percezione di valere: ricordate il vecchio slogan di L’Oréal, “Perché io valgo”?. E’ una cosa che fa riemergere immediatamente i loro talenti, che sono tantissimi e bellissimi, sepolti dietro questa idea che loro stessi hanno e che molto spesso è indotta, che non valgono, che non sono riusciti. Le dimensioni, le avete viste: la bellezza come quell’attrattiva che solo può muovere l’umano e che, più di tutti, muove l’adolescente, la valorizzazione della manualità. E’ impressionante vedere come questi ragazzi iniziano la produzione e la terminano, è impressionante vedere lo sguardo che hanno quando vedono il pane uscire, nella parte finale del processo, dal forno, è impressionante vedere come guardano a quello che loro stessi hanno creato. Sulla formazione professionale c’è un’idea completamente sballata, in questo Paese, che nasce da un enorme pregiudizio su cui non mi soffermo troppo, l’idea che la formazione professionale è di serie B, di serie C, il posto dove ci sono “quelli che tirano di lima”. Ma questo non è vero in moltissime esperienze di formazione professionale. C’è invece una proposta educativa totale. Il concorso di poesia e prosa che è nato sette anni fa, dice: facciamo in modo che si avvicinino alla letteratura, all’arte, alla cultura. Oggi è diventato un evento nazionale, centinaia di scuole da tutta Italia partecipano ogni anno, con la premiazione finale al Salone del Libro: sono centri di formazione professionale e scuole professionali. E poi c’è, come avete visto, il grande collegamento col lavoro, col mercato: abbiamo voluto che la sfida arrivasse fino in fondo, che veramente potessero misurarsi con la realtà, che il ristorante fosse un normale ristorante della città dove si può andare a cena, e chi viene non deve necessariamente sapere tutta la storia che c’è dietro. Insomma, il lavoro è educazione, ve lo dico con un esempio banale: avete visto che L’Oréal è partner della Piazza dei Mestieri? Spesso vengono dalla Francia a fare il loro board da noi, e quando i nostri ragazzi servono a tavola sono accompagnati dal maitre che è un professionista e normalmente si rivolge loro in francese. Credo che chiunque ha figli giovani, abbia l’abitudine di dire: “Guarda che le lingue sono importantissime, ormai non si può più vivere senza”. Lo diciamo tutti ma ai nostri ragazzini non gliene frega nulla. Quando però si trovano davanti a questo signore che fa domande in francese, e restano impietriti con il piatto in mano, il giorno dopo, con il loro linguaggio colorito, vanno a trovare uno dei loro professori e gli dicono: “Oh, ma quando iniziamo a studiare le lingue? Ho fatto una figura di merda, ieri”. Capite che l’aspetto vero dell’impatto con la realtà non ha bisogno di un enorme discorso, è un fattore educativo in sé. Ma smetto e non mi soffermo più sulla Piazza dei Mestieri, che nel frattempo ha aperto a Catania e che speriamo possa aprire in Campania, anche perché abbiamo letto lo splendido discorso di Eduardo de Filippo, senatore a vita nominato dal Presidente Pertini: “Una cosa sola vi chiedo per il Sud e per Napoli: aiutate l’istituto Filangeri, aiutate i giovani a trovare lavoro”. Noi siamo fatti così, da quando l’ho letto sono impazzito, quindi, tra tre anni, quando torno, vi raccontiamo Napoli. Però voglio concludere con una considerazione sul titolo del nostro incontro. Perché uno può dire: “Che bella esperienza!”, ma noi dobbiamo capire perché la Piazza dei Mestieri, come tante esperienze simili – quella che sentiremo adesso da Angelo Candiani, quella degli amici di Cometa, di Galdus, i tentativi eroici dei nostri amici del sud a Napoli, a Catania, a Casarano, ma anche tutta l’esperienza del mondo salesiano, tutta l’esperienza che nasce dalle Acli – è una risorsa essenziale per il futuro dei nostri giovani e anche per lo sviluppo economico e sociale, una risorsa che è figlia di un patrimonio storico, che affonda le sue radici nella storia del nostro Paese, in una sussidiarietà che è mossa sempre da una passione ideale, che fa il suo mestiere educativo, che trasmette conoscenze, che trasmette competenze, sempre dentro una sfida educativa rivolta all’integralità della persona. Allora, per la considerazione finale, rimando al bellissimo rapporto della Fondazione per la Sussidiarietà del 2010, che bene argomenta questa cosa: è giunto il momento di invertire con coraggio il trend per cui in Italia si spendono ingenti quantità di denaro per politiche assistenziali e si continua a non investire adeguatamente sull’educazione, sulla preparazione al lavoro dei giovani. E’ un argomento tra l’altro attualissimo, perché siamo agli inizi del nuovo programma delle risorse comunitarie 2014/2020. Chi oggi investe sempre in politiche passive, difensive, e non sul futuro dei giovani, ha una visione miope, tipica dei Paesi che sono incapaci di guardare al loro futuro, che difendono i loro privilegi, che tra l’altro non possono più permettersi. L’esperienza di altri Paesi, anche vicini a noi europei, mostra che investire sulla formazione professionale, cioè dare vita a un sistema duale, per esempio quello tedesco ma non solo, è una risposta strutturale ai problemi che il nostro moderatore sottolineava all’inizio, perché abbatte la disoccupazione giovanile, la dispersione scolastica, perché, aumentando l’introduzione dei giovani sul mondo del lavoro, ripresi in un percorso educativo, curiosi, aumenta la capacità di innovare e riduce la spesa pubblica improduttiva. Ma la sfida non è solo alla politica, come sempre, non è solo alle istituzioni: la sfida è a ciascuno di noi. Abbiamo il coraggio di guardare con fiducia ai nostri giovani, ai nostri figli, usciamo dagli stereotipi del liceo, smettiamo di contrapporre l’impresa, la scuola, la formazione professionale, guardiamo con stima e con fiducia chi decide di cimentarsi con un mestiere, sosteniamo l’alternanza scuola e lavoro dei nostri adolescenti, aiutiamoli a fare esperienze all’estero. Insomma, sosteniamo il desiderio e la passione che c’è, che tutti i giorni vediamo alla Piazza di Mestieri, nel cuore dei nostri adolescenti, non soffochiamola con il nostro scetticismo: questo è il modo per lanciarli nelle sfide della vita e del mondo del lavoro. Invece di continuare a fare discorsi astratti sul fatto che saranno più o meno ricchi dei loro genitori, sosteniamoli nel loro strumentarsi per affrontare la realtà, perché peggio di un lavoro precario c’è la precarietà di una vita senza speranza e senza significato. Grazie.

ROBERTO CORNO:
Grazie davvero, Dario, per la testimonianza e per quello che ci hai detto adesso. Passo ora la parola ad Angelo Candiani, che ci presenta un’esperienza altrettanto importante e decisiva, però in un settore diverso, dove ci avviciniamo di più alla grande azienda.

ANGELO CANDIANI:
Grazie. Innanzitutto volevo dire che in questi giorni al Meeting ho capito, di fronte alla questione del titolo, Emergenza uomo, che il bisogno più grande che abbiamo è la capacità di stupirci. Non avrei mai immaginato di essere qui, oggi, dopo aver vissuto per 34 anni il Meeting da quella parte, e già lo stupore era sufficiente. Ma quando ho visto quanti siete in sala, lo stupore è diventato più grande. Lo dico perché quello che racconto è totalmente dentro la storia del Meeting. Qui abbiamo imparato tante volte a guardare che cosa serve, non solo per ciascuno di noi ma per tutti quelli che vivono con noi. Una presenza dentro l’ambiente, dentro il luogo dove siamo messi, è una delle energie più belle che ci troviamo addosso e l’abbiamo imparata qui. Ho preparato delle slide che sono prevalentemente fotografie, perché io racconto la storia di un piccolissimo ente di formazione, molto più piccolo della Piazza dei Mestieri, con dentro un’esperienza che mi entusiasma, innanzitutto perché vedo l’entusiasmo di quelli che lavorano con me. Il nome nasce dal territorio, è l’idea di mettere assieme la scuola e il lavoro in un territorio a nord-ovest di Milano. E la provocazione viene alla fine degli anni ’90 da aziende manifatturiere, da aziende che, in un momento in cui, come oggi, si parla di disoccupazione giovanile, hanno posti di lavoro da offrire che nessuno più vuole ricoprire. Saldatori, per esempio, oppure operatori macchine a controllo numerico, oppure, come è capitato, mestieri aeroportuali. Oppure, cambia il modo del commercio, ci sono sempre meno negozi e sempre più centri commerciali, la richiesta è di avere giovani capaci di stare in un ambiente che non familiare ma più grande. Comunque, la nostra storia nasce da una sollecitazione che arriva dalle aziende in un momento contraddittorio, in un territorio in cui c’erano tante scuole tecniche e professionali che abbiamo perso. Perso perché i ragazzi non le frequentano più, perché sentono dai genitori che devono studiare, come se imparare un mestiere non avesse a che fare con lo studio. Abbiamo preso sul serio la provocazione delle aziende, e a un certo punto, abitando a due passi dall’aeroporto di Malpensa, in un momento in cui Malpensa stava ingrandendosi, sono venuti fuori, dentro l’aeroporto, un’infinità di lavori che non possono essere svolti come automatica continuazione del percorso di studi, ma per cui è necessaria una curvatura, è necessario imparare qualcosa di diverso. Allora cerchiamo di utilizzare un dispositivo della Regione Lombardia che, in accordo con la sperimentazione della riforma della scuola superiore, avvia l’idea di Poli tecnico-formativi. Diamo vita a un polo tecnico-formativo proprio nel settore dei trasporti e della logistica intermodale, tutto quello che fa muovere persone e merci. E cerchiamo di rapportarci con le aziende. Dopo cinque, sei anni dove cerchiamo di focalizzare tutti i progetti che facciamo, da finanziare con il Fondo Sociale Europeo o con altri dispositivi, sui mestieri aeroportuali, ci troviamo a fare 32 percorsi, a formare 600 persone, 560 delle quali vanno a lavorare dentro l’aeroporto: otto, nove figure professionali. Vi giuro, non c’era neanche una professione di queste, tranne l’assistente di volo, che io conoscessi. E neanche quelli che lavoravano con me, gli amici e i colleghi, gli insegnanti: erano professioni che conoscevano le aziende. A loro abbiamo chiesto, ed è emersa la necessità di dare stabilità a questo lavoro che dava frutti. Più di cinquecento persone in sette anni collocate dentro il sistema aeroportuale, era provocatorio rispetto al fatto che venivano centinaia di genitori a chiedere di far assumere il proprio figlio dentro l’aeroporto, ma non sapevano da che parte partire. Allora abbiamo cercato un posto e abbiamo detto: qui prende piede il polo formativo. Hanno delocalizzato una frazione del comune di Somma Lombardo, poco più di mille abitanti. Abbiamo bussato a tutte le porte per trovare le risorse per ristrutturare, ingrandire e rendere fruibile questo lavoro che in quei primi anni offriva prospettive interessanti. Abbiamo ricevuto fondi FAS, il fondo per le aree sottoutilizzate, attraverso Regione Lombardia, e quella scuola è diventata così: 2700 mq, con 800 mq di laboratori aeronautici, venti aule. Penso che le inaugureremo a ottobre, però abbiamo già iniziato a lavorare perché nella scuola elementare che abbiamo preso prima abbiamo iniziato a fare le attività. Non mi soffermo su questo aspetto, dico soltanto che abbiamo dato vita a una realtà consortile; oggi racconterò dell’ITS, ma lì dentro c’è una scuola di volo, c’è la possibilità di insegnare tutto il percorso per diventare pilota commerciale: non è finanziabile, però c’è la possibilità. Possiamo fare corsi di aggiornamento per piloti e corsi per la security aeroportuale. Le risorse che sono state messe in gioco sono 3 milioni e mezzo per ristrutturare la sede, 4 milioni e due per fare lo startup, che comprende anche la dotazione laboratoriale. Abbiamo lavorato su diversi fronti ma siamo riusciti a far convergere tutte le progettualità: e provvidenzialmente sono arrivate tutte nello stesso tempo. La Provvidenza cammina insieme a noi: bisogna osare, bisogna rischiare, bisogna domandare, bisogna essere disponibili anche ai no. A volte, dietro un no c’è solo da aspettare qualche mese in più perché la cosa venga a fagiolo, nel momento giusto. La nostra esperienza è stata questa. Qui ci sono un po’ di aziende coinvolte, prima fra tutte la AgustaWestland: non c’era all’inizio, è arrivata strada facendo, è stata una delle iniezioni di energia che esplode ancora oggi da tutti i pori. Quando finirò, vi mostrerò alcune foto dei ragazzi dentro la linea di montaggio degli elicotteri, lì in Agusta. Vi sono altre realtà, non le cito tutte, con cui abbiamo dato vita a una realtà consortile e poi alla fondazione ITS. A regime, in questa scuola avremo 180 ragazzi sulla formazione superiore ITS-IFTS, adesso sono 124, e ne avremo 220 che, dopo la terza media, intraprendono percorsi propedeutici a queste professioni aeroportuali, adesso sono 71. L’ITS è una questione interessantissima e rivoluzionaria nel nostro Paese. Non possiamo perderla. Lancio anch’io un breve filmato e poi torno a commentare.

Proiezione filmato

Bene, vorrei spiegarvi una cosa: avete visto questa sigla? La scuola è certificata secondo le normative ASA, perché per fare questo mestiere è necessario avere questa certificazione: bene, sappiate che in Italia non è mai esistita una scuola nel sistema dell’istruzione che dia questa certificazione. Negli anni precedenti, questa certificazione veniva fatta dalle aziende, dalle compagnie aeree come Alitalia che, tra l’altro, ci ha anche supportato all’inizio: lo facevano per i propri tecnici. Oppure veniva fatta dall’Aeronautica Militare. Ma che sia dentro un sistema istituzionale è stata l’occasione dell’ITS, che abbiamo inseguito per anni, in attesa che venisse approvata, e che oggi non possiamo perdere. I ragazzi sono stati costretti, dal 1982, da quando Alitalia non fa più questa funzione, anche sociale, ad andare all’estero, a pagare 25, 30mila euro di iscrizione a un corso per ottenere questa certificazione. Senza questa certificazione, non si può mettere mano a nessun tipo di aereo. Tenete presente che un aereo di linea, quando viene fatta la manutenzione, ha bisogno di sei tecnici: e la squadra deve essere presente 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Quindi, il fabbisogno sulla sola Malpensa è di 500 tecnici: pensate a quanti aeroporti ci sono nel nostro Paese e pensate che questa certificazione ha un valore direttamente europeo, dall’approvazione ENAC e, con un brevissimo ampliamento, ha un valore mondiale. I percorsi sono due. Trovate sulle sedie alcuni volantini che li descrivono. E’ stato immediatamente necessario avviare un secondo percorso, proprio per le necessità di AgustaWestland e per le cento aziende del settore aerospaziale presenti nella provincia di Varese. Abbiamo avuto dall’Aeronautica la concessione in comodato gratuito di questo aereo, che è adeguato per fare la formazione certificata. Da ultimo, vi posso dire che la collaborazione con le aziende è straordinaria, è la cosa più interessante di tutte, perché l’ITS, per sua forma, deve avere almeno il 50% dei docenti che vengono dall’azienda. Pensate, quando un’azienda fa un investimento del genere e dedica ore di lavoro a formare dei giovani, se poi non capisce l’importanza di trattenerli o di metterli in un sistema che è un bene per tutti. Guardate questi ragazzi all’opera sulla linea di montaggio di Agusta, guardate le loro facce ma guardate anche l’ambiente dove lavorano, che avete già intravisto prima nel filmato. Concludo dicendo che quel filmato è stato realizzato da Rai Educational, lo trovate nel sito sotto Rai Scuola. L’ultima cosa che mi sento di dire è che sinceramente non pensavo fosse così interessante occuparsi di formazione professionale a questo livello. Certe volte mi sembra che la sfida sia così impegnativa da pensare di non farcela. Però ritorno alla questione dello stupore, che consiste nel guardare questi ragazzi che, nella maggior parte delle volte, qualche anno prima si erano sentiti dire: “Ma no, ma no, dai, lascia stare, non andare avanti a studiare, te, vai a lavorare!”, come se il lavoro fosse una condanna. Concludo dicendo che sono d’accordissimo con quello che ha detto Dario prima: non disperdiamo il patrimonio del bene che possiamo fare dentro la formazione professionale del nostro Paese. Grazie.

ROBERTO CORNO:
Grazie, Angelo, anche perché hai dato una prova concreta e visibile di quell’eccellenza che il mondo ci riconosce anche nel campo della formazione e che dà prospettive ai nostri giovani, anche al di fuori del nostro Paese. Ma anche le aziende investono tanto: ha ricordato Angelo anche quello che fanno le aziende per formare i propri collaboratori, quanto sia decisivo e quanto poi sia decisivo riuscire a trattenere queste persone, prospettando loro occasioni di lavoro interessante. Cosa fa Finmeccanica, in questo senso? Mi sembra che faccia qualcosa di molto interessante anche lei.

FRANCESCO MANTOVANI:
Sì, fa molte cose. Buon pomeriggio. Volevo ringraziare tutti, mi piacerebbe che veniste qua sopra per avere il colpo d’occhio e rendervi conto come incontri di questi tipo siano veramente una ricchezza per tutti quelli che vi partecipano. Trovo che il titolo del Meeting di quest’anno sia particolarmente azzeccato: io lo chiamo il concetto dell’emergenza. Conosco sia Candiani che Odifreddi, li ammiro entrambi, hanno raccontato una storia positiva ed è giusto che il Meeting ci inviti anche a ritrovare questo senso positivo del vivere. Però torno un attimo all’emergenza perché l’ “emergenza uomo” poi si traduce, per quello che ci riguarda più da vicino, nei dati che non è il caso di richiamare qui della disoccupazione, che è un fatto grave e diventa ancora più grave nel momento in cui riguarda la fascia dei giovani, privando le imprese, il mondo del lavoro, di quella che è una capacità innovativa che loro possono dare. Anche a me preoccupa molto questa fascia dei NEET, perché è una bomba ad orologeria che sta lì, un numero di persone che cresce, una bomba ad orologeria dal punto di vista sociale. Sono persone che non cercano lavoro, che non studiano, che non fanno attività formativa e che pesano – è stato quantificato anche questo – il 2% su quello che è il Prodotto Interno Lordo. Ma il dramma più grave, il pericolo più subdolo, più infido, è che a questa emergenza, proprio perché oramai si trascina da tanto tempo, ci si abitui: si ha la percezione della dimensione schiacciante dei problemi, perché sono oramai ritenuti endemici, per cui c’è il rischio di assuefarsi. Il problema è invece reagire a questa emergenza, nonostante il fatto che l’Istat abbia confermato che il 2013 per l’Italia sarà ancora un anno di recessione, -1,4% del PIL, anche se ci sarà una breve riprese a fine periodo. Nonostante la capacità di ripresa delle famiglie, la domanda interna si ridurrà ancora, il tasso di disoccupazione crescerà. I dati del 31 dicembre 2012 pongono ancora una volta l’Italia come fanalino di coda o giù di lì, in Europa, nell’attività di ricerca: noi spendiamo un terzo di quello che spende la Germania, la metà di quello che spende la Francia. Nonostante tutto questo, però, ecco l’invito del Meeting, che condivido, a partire da quello che c’è di buono. E quello che c’è di buono è l’esperienza che hanno raccontato i colleghi prima di me. Ma questa emergenza deve spingerci anche a un cambio di paradigma. Se questi problemi sono oramai endemici, se si trascinano da così tanto tempo, evidentemente bisogna trovare una ricetta diversa, evidentemente bisogna arrivare a un cambio di paradigma, arrivare all’essenza delle cose. I problemi sono complessi e non esistono soluzioni facili, però, se si riesce a dare una risposta di sistema, dove ciascuno fa bene il proprio lavoro, pensando ove possibile al bene comune, allora forse qualche cosa si può fare. C’è un concetto che mi preme richiamare, prima di raccontarvi perché Finmeccanica dove io lavoro sta facendo quello che fa: il concetto del lavoro come valore, il lavoro senza aggettivi, il lavoro che dà dignità. C’è un prete svizzero che diceva che il lavoro, prima di fare prodotti, fa uomini: e il Papa, per san Giuseppe, ha detto che il lavoro ci unge di dignità. Ecco, mi piacerebbe che tutti i giovani presenti in sala, ma anche quelli fuori, si richiamassero a questo concetto dell’importanza del lavoro come tale. Martin Luther King diceva che non ci sono lavori più o meno importanti, tutti i lavori meritano di essere fatti con la necessaria attenzione. Ecco allora perché trovo calzante il titolo del Meeting e quello di questa tavola rotonda: la formazione professionale come strumento, come mezzo per favorire un cambiamento, per dare questo senso di discontinuità. E però l’invito ai giovani – nonostante tutto quello che ho detto prima, nonostante io da padre sappia bene che la situazione dei giovani che si accingono ad entrare nel mondo del lavoro è ben diversa, più complessa di quando ci siamo entrati noi – è di non rinunciare alle loro ambizioni ma di pretendere di dare spazio a quelli che sono i loro talenti. Però debbono farlo per quei lavori che servono o che potranno servire: è qui lo snodo. Noi siamo in Italia, il secondo Paese manifatturiero in Europa. In Italia ci sono imprese grandi, piccole, medie, piccolissime, che però combattono in un mercato competitivo che è sempre più agguerrito. La soluzione per essere competitivi ma anche per dare speranza di futuro ai giovani è di investire sul capitale intellettuale, sul capitale umano, sulle competenze. Ed ecco perché allora è importante che le imprese, le istituzioni, in un disegno coerente, si adoperino per far sì che in questo rapporto sempre più proficuo, più stretto, che ci deve essere fra mondo del lavoro e mondo dell’istruzione, si creino queste competenze, queste capacità, queste professionalità che effettivamente servono al mondo del lavoro. C’è un gap importante – sia Candiani che Odifreddi hanno raccontato esperienze di successo -, questo missed matching tra le competenze che servono e quelle che vengono offerte dal mondo dell’istruzione. E allora i giovani devono farsi parte attiva per il superamento di alcuni stereotipi che vedono nel mondo dell’istruzione tecnica, nei mestieri che hanno anche una componente manuale, una sorta di lavoro di serie B. Non è così: se il lavoro è valore, il lavoro unge di dignità, allora tutti i lavori vanno bene e non bisogna però castrare quelle che sono – parlo per i giovani – le proprie aspirazioni. Ecco, allora, che la formazione professionale può essere una leva, una risposta al tema della crisi, ed ecco perché le famiglie e gli insegnanti devono orientare i giovani verso questi mestieri. Io lavoro in Finmeccanica, se andate nella zona ovest, al padiglione C3, trovate lo stand dove ci sono giovani colleghi che, meglio di me, potrebbero raccontarvi quello che Finmeccanica sta facendo e due progetti specifici. Uno è partito da poco, è il progetto “Mille giovani per Finmeccanica”: Finmeccanica infatti ha lanciato il 30 luglio di quest’anno un programma di inserimento per 1500 giovani tecnici, diplomati e laureati, al disotto dei trent’anni. Stiamo raccogliendo migliaia di adesioni per quelle che sono le esigenze professionali delle società operative sul territorio italiano. L’altro progetto che raccontano i miei giovani colleghi al padiglione Finmeccanica è quello degli ITS. Finmeccanica, nel 2009, è stata probabilmente la prima azienda a fare un accordo con il Ministero dell’Istruzione per lanciare, in sette regioni, sette fondazioni per gli istituti tecnici. Voglio dirvi semplicemente i profili, per capire come sia funzionale e importante la collaborazione vera fra il mondo dell’istruzione e quello del lavoro, e la ricetta per cui le fondazioni, gli istituti tecnici che fanno capo alle società del gruppo di Finmeccanica, godono di buona salute. Noi ne abbiamo in Lombardia, in Piemonte, in Campania, in Puglia, in Toscana, in Friuli-Venezia-Giulia e in Liguria: i profili di uscita sono mestieri veri, mansioni che i giovani debbono ricoprire. Diceva Candiani che un carattere distintivo dell’ITS è il fatto che il 50% delle docenze dev’essere garantito dall’azienda. Ecco, noi abbiamo 265 tecnici che volontariamente insegnano in queste scuole, e che spendono il loro tempo per trasferire, non un sapere generico ma quella che è la loro esperienza di lavoro e di vita, contenuti e passione. Probabilmente è un modo efficace per far sì che il passaggio di competenze da chi ha l’esperienza alle nuove generazioni si sviluppi in maniera proattiva e vincente. Anche per quello che riguarda il progetto “Mille giovani per Finmeccanica”, i profili che cerchiamo sono figure professionali che attengono all’area dell’ingegneria, della progettazione, della produzione e della gestione progetti, dello sviluppo del business e delle vendite, per tutta la filiera: quindi, dalla formazione professionale alla formazione tecnica, agli istituti tecnici superiori, alle lauree tecniche con l’Alto Apprendistato, ai dottorati di ricerca industriale. Finmeccanica ha un po’ il pallino dei giovani: ce ne sono 23mila su 67.500 che hanno meno di 35 anni. Ci sono 14.000 ingegneri che lavorano in Finmeccanica e 17.500 tecnici. Ecco perché posso dire che di queste cose ci occupiamo da tempo e con convinzione. Che cos’è allora – sulla base di quella che, raccontata così, è sicuramente un’esperienza positiva, se chiedete poi ai giovani colleghi dello stand, ve la racconteranno come vita vissuta – che non funziona, che cosa può essere migliorato, cosa chiediamo alle istituzioni? Su questo ci stimolava il chairman. Ripeto che un’emergenza di questo tipo non può avere una risposta semplice, deve essere una risposta di sistema, sostenibile nel tempo. Qui c’è il Sottosegretario Toccafondi: l’esperienza degli ITS è un’esperienza positiva, bisogna capire quanto dura, come dura, come si evolve, perché se le aziende investono non solo il lavoro e la dedizione di 265 tecnici che insegnano, ma anche la faccia, la convinzione, il know-how, se questa è un’esperienza che funziona, bisogna imparare dagli errori, perché di cose da migliorare ce ne sono. Lo abbiamo detto e siamo disposti a dirlo nelle sedi che servono, però bisogna sapere come si evolve e quanto durerà, bisogna operare in maniera più convinta nella sinergia che va favorita tra il mondo dell’istruzione e il mondo del lavoro, un impegno che non può essere demandato alla sensibilità del singolo preside o alla buona volontà dell’uomo d’azienda sul territorio. E’ una emergenza per il sistema Paese e le emergenze vanno gestite e governate, ciascuno deve essere in condizione di fare il proprio pezzo. Finmeccanica lo sta facendo con convinzione, lo sta facendo perché è il primo gruppo ad alta tecnologia in Italia, perché compete su mercati internazionali, perché siamo fieri di operare qui in Italia e di promuovere la cultura tecnica. Grazie.

ROBERTO CORNO:
Grazie, dottor Mantovani, anche perché ha dato due buone notizie ulteriori a questo Meeting: mille posti di lavoro in più.

FRANCESCO MANTOVANI:
1500.

ROBERTO CORNO:
1500 posti di lavoro in più e un’azienda che investe al di là del semplice e immediato tornaconto, perché è un bene comune l’investimento che l’azienda fa nella formazione. Ma a questo punto, vediamo che cosa fanno le istituzioni per sostenere questo loro sforzo e lo sforzo di chi opera direttamente nel campo della formazione, vediamo quali ostacoli incontri e quali successi ottenga. La parola all’Assessore Porchietto.

CLAUDIA PORCHIETTO:
Grazie. Buongiorno a tutti, è la prima volta che partecipo al Meeting di Rimini, mi fa molto piacere. Stavo guardando questa sala così piena, attenta – perché poi viene l’abbiocco alle quattro del pomeriggio -, e notavo invece con quale interesse, con quale attenzione tutti seguono. E’ anche una sala variegata, giovani, probabilmente genitori, fratelli, cugini, parenti. Si sta facendo un ragionamento su quello che è anche il futuro dell’Italia, in base alle prospettive che sia la politica sia le imprese sia il mondo delle istituzioni riescono a generare, e c’è grande attenzione. Vi ringrazio, per me è un grande onore essere presente, spero di poter rappresentare degnamente le amministrazioni e le istituzioni locali in un contesto oggi non facile. Guardavo il Sottosegretario che prendeva appunti: penso che oltre agli appunti abbia anche un’attenzione a quello che sta succedendo a livello nazionale. Visto che sono l’unica signora mi permetto di allargarmi un po’, due parole due, solo perché credo che sia utile e doveroso per voi sapere da dove arrivo e il motivo per cui faccio certi ragionamenti. In realtà, non nasco da una esperienza politica di lungo corso: sono un imprenditore, ho rappresentato per tantissimi anni un’associazione importante di piccole e medie imprese, di cui tra l’altro oggi c’è qui davanti anche un rappresentante del mio territorio. Sono cresciuta in una famiglia di imprenditori, ho uno studio professionale, ho avuto la fortuna di assaporare il lavoro fin da quando, ragazzina, come penso sia capitato a molti di voi, i genitori mi portavano sul posto di lavoro. Era un momento in cui le regole, la sicurezza nel mondo del lavoro, permettevano ancora di portare i figli all’interno delle fabbriche. Quando sono arrivata, tre anni fa, a fare l’assessore in Regione Piemonte, avevo una conoscenza sommaria di quello che era il sistema della formazione, usufruivo della formazione come imprenditore che la utilizza e che utilizza le competenze che vengono costruite all’interno dei percorsi di qualifica professionale. Poi la scelta della nuova Giunta Regionale è stata mettere insieme due deleghe: un segnale importante in un contesto difficile come quello del 2010, nel pieno di una crisi che si pensava potesse finire molto velocemente e nella quale invece stiamo ancora vivendo. Dobbiamo comunque partire dal presupposto che, a prescindere dalla fine della crisi, il nostro modo di vivere, di lavorare, di pensare il futuro sarà diverso rispetto a quello che la mia generazione ha avuto la fortuna di analizzare e valutare, anche per le prospettive di costruzione di una famiglia. Sono arrivata a fare l’assessore, appunto, tre anni fa, nel 2010: abbiamo messo insieme due deleghe, lavoro e formazione, e non è stato un caso. Spesso si ritrovano, nelle deleghe delle amministrazioni locali, la formazione e l’istruzione, ma il lavoro è sempre qualche cosa che è collegato ad altri contesti. La Regione Piemonte ha fatto una scelta diversa, quella di mettere insieme lavoro e formazione: io mi permetto di dire che forse sarebbe stato importante avere anche l’istruzione. Come Dario sa molto bene, io sono un assessore alle varie ed eventuali – riprendo le parole di Paolo Cevoli che è assessore anche lui, ogni tanto ci incontriamo in alcune kermesse, e infatti mi dice: “Collega, so che tu fai l’assessore alle varie ed eventuali”. Il contesto è quello del lavoro, della gestione delle crisi complesse: tra l’altro, la mia è una Regione con una forte connotazione di storia industriale, che molto spesso si ritrova sui tavoli anche di carattere nazionale, insieme ad altre Regioni, ma è sempre presente in quelle che sono le crisi articolate e complesse. Questo è il motivo per cui abbiamo scelto di mettere insieme queste due deleghe, perché è fondamentale – come già dicevano prima la rappresentanza di Finmeccanica e la rappresentanza delle agenzie formative – mettere insieme quelle che sono le necessità, le figure professionali che le aziende chiedono, con quelli che sono in grado di costruire queste figure professionali. E, guardate, in un contesto come questo, la crisi diventa difficile per tutto il sistema, perché interpretare dove potremmo andare, dove potremmo supportare le nostre imprese, sicuramente non è facile: credo che a nessuno sfugga la centralità dell’uomo e delle competenze professionali. Aggiungo un passaggio che Dario ha sottolineato ma soltanto in parte, perché molto spesso quando si parla delle proprie creature si è sempre troppo modesti nel definirne i percorsi. All’interno delle agenzie formative – credo di poterlo dire anche per quelle che non conosco personalmente, ma ne conosco la qualità e le competenze -, al centro c’è sempre la persona. La cosa che mi ha colpito particolarmente dal momento in cui, da Assessore regionale, ho avuto la fortuna di poter condividere anche le strategie della Regione Piemonte con le agenzie formative, è come al centro dell’attenzione ci siano le competenze ma soprattutto la persona: il ragazzo, l’uomo – ricordiamoci che non parliamo solo di formazione di primo livello, quindi di qualifica professionale, ma anche di una formazione che viene comunque affiancata a chi ha già acquisito delle competenze ma, espulso dal mondo del lavoro, ha bisogno di esservi ricondotto, le famose politiche attive che in Italia, molto spesso si associano alle politiche passive, vale a dire alla cassa integrazione. Noi abbiamo vissuto questi due, tre anni in cui, in qualche modo, si vedeva la formazione, le competenze che si potevano acquisire, soltanto come uno strumento accessorio per dare alle persone l’indennità di sostegno al reddito, attraverso i fondi europei: sbagliatissimo! Se c’è una cosa di cui in Italia abbiamo bisogno, è rivalorizzare le competenze delle persone a partire dai ragazzi ma per proseguire anche con gli over 50, perché – scusatemi se apro una parentesi – sono mesi che sentiamo giustamente parlare delle politiche del lavoro giovanile, ma non dimentichiamoci che abbiamo una platea enorme di persone over 45, over 50, che, espulsa dal mondo del lavoro, avendo famiglie a carico, anche allargate – non solo i figli ma magari anche i genitori -, non sanno a chi rivolgersi e quali strumenti utilizzare per ritrovare una collocazione. E anche psicologicamente, continuare a parlare soltanto di politiche giovanili fa male a quelle persone che si sentono in qualche modo scavalcate in quelle che sono le emergenze “più emergenze” rispetto alle loro. Tornando a noi, al sistema della formazione: qui mi rivolgo in particolare al Sottosegretario, perché è fondamentale che i Ministeri sappiano dialogare tra loro. Se c’è una cosa che ho sentito mancare in questi tre anni è stata una capacità collaborativa e di visione strategica unica tra il Ministero dello Sviluppo Economico, il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca, il Ministero del Lavoro. Fondamentale, perché comunque l’Italia ha la necessità di capire dove andare ad investire, quale sia il tessuto produttivo e quali le nuove attività produttive, manifatturiere, a cui tendere. Dall’altra parte, abbiamo la necessità di preparare in primis i giovani ad avere quelle competenze professionali che richiedono. Come fare? Io vi posso portare l’esperienza che noi abbiamo cercato di governare, grazie però ad una grande disponibilità delle parti sociali: diventa difficile per le istituzioni pensare di costruire strategie, di utilizzare correttamente i fondi, se dall’altra parte non c’è la capacità di giocare un gioco di squadra che deve vedere, comunque, una condivisione di percorsi da parte della pubblica amministrazione e dei privati. Qui c’è il primo problema: perché ci sono Regioni abituate a non vedere la partecipazione del soggetto privato in un ambito che fino a poco tempo fa era soltanto pubblico come un tabù da infrangere, altre Regioni che hanno una forte storia industriale, come il Piemonte, che ha faticato più di altre nel riuscire a creare quelle sinergie e quei connubi tra le competenze solitamente dedicate alla pubblica amministrazione e un modo di lavorare diverso che arrivava dal privato. Credo che la Regione, in questi ultimi anni – e spero che chi è piemontese possa convenire, soprattutto gli addetti ai lavori – abbia lavorato molto per creare la sinergia ad esempio fra i Centri pubblici per l’impiego e le agenzie per il lavoro, tra la scuola, l’istruzione, e le agenzie formative. Non stiamo parlando di istruzione di serie A e di formazione di serie B, stiamo parlando di sistemi che devono e possono collaborare, dove occorre infrangere tabù che spesso risiedono anche nelle rappresentanze sindacali, per le quali l’istruzione è sacra e la formazione è invece qualcosa di dequalificante. E’ stato difficile da far passare ma vi assicuro che in un momento di crisi come questo, molti dei pregiudizi su cui abbiamo basato la vita italiana degli ultimi dieci, quindici anni, si stanno infrangendo. Uno fra tutti: avete sentito anche ieri parlare dell’apprendistato da parte del Ministro Giovannini: io ricordo che siamo una di quelle Regioni che, nella riforma dell’apprendistato, non solo ha creduto ma è stata forse la prima a farlo partire in tutti i livelli. L’apprendistato cosiddetto professionalizzante, quello che conoscono molte aziende e molte persone presenti, che permette ai diplomati di inserirsi all’interno dell’azienda facendo comunque un percorso di formazione e di lavoro; l’apprendistato cosiddetto di “terzo livello”, legato ad un forte connubio fra l’istituzione locale, la Regione, l’impresa e l’università, dove abbiamo creato un’Alta Formazione in apprendistato per cui le aziende hanno potuto coinvolgere direttamente con un contratto di apprendistato studenti che, oltre a continuare il loro percorso formativo universitario, potevano iniziare un’attività lavorativa. E poi, quello che a me sinceramente stava più a cuore per una serie di motivi, che è il cosiddetto apprendistato di “primo livello”, la qualifica professionale, fatta però attraverso un percorso lavorativo, in cui tutti hanno fatto uno sforzo per riuscire a lasciare fuori dalla porta un pezzo di ideologia, di bandiera: portare dei ragazzini di 15 anni – scusate se la dico così brutale – nel mondo del lavoro, dentro i laboratori, e verificare come modificare un salario troppo elevato per un imprenditore che avesse, sì, una vocazione anche altruista (inserire un ragazzino di 15 anni nel mondo del lavoro non è mai facile, per una questione di sicurezza, per una questione di maturità, per una questione di responsabilità che l’imprenditore si assume), ma anche rendersi conto che inserire un ragazzino di 15 anni a imparare un mestiere, permettendogli comunque di fare un percorso per raggiungere la qualifica professionale, significa dover sacrificare ore di lavoro. Occorre quindi riuscire a trovare il giusto equilibrio tra il salario e la presenza all’interno dell’azienda, e digerire anche una riduzione del salario da parte delle rappresentanze sindacali. Con grande fatica ma con grande disponibilità, in Piemonte si è riusciti a farlo: chi conosce la storia delle relazioni sindacali in Piemonte, sa quanto è faticosa una cosa di questo genere!. Questo però ha voluto dire che c’è chi – parti sociali, rappresentanze delle imprese, rappresentanze sindacali -, in un momento di crisi come questo vuole guardare oltre per costruire prospettive future. Noi stiamo credendo molto al tema della formazione professionale, stiamo cercando di creare un sistema che non veda una concorrenza spietata tra istruzione e formazione ma che generi realmente quel tessuto di formazione scolastica e formazione professionale di cui necessita una Regione che ancora oggi vede l’Italia conseguire quei primati che non vorremmo, il primato del tasso di dispersione scolastica e dell’abbandono. Soltanto il Piemonte ha circa 13.000 ragazzi che abbandonano la scuola, 13.000 ragazzi che sono un problema per le famiglie ma anche per la società – scusatemi se sono molto pragmatica -, la dispersione scolastica è un ulteriore costo per la collettività. In un contesto come il nostro, in cui anche le multinazionali prima di investire vanno a valutare qual è il tasso di istruzione, qual è la capacità di rispondere alla collettività delle istituzioni locali, è fondamentale per l’Italia, per essere un Paese evoluto, rispondere in modo positivo alle sollecitazioni che anche a livello europeo ci arrivano. Non è sicuramente facile, ci dev’essere una forte collaborazione: ritengo che nell’ultimo anno abbiamo raggiunto traguardi importanti che abbiamo messo a fattore comune del sistema nazionale. E mi fa piacere che qui ci sia una rappresentanza del Governo, perché credo che la collaborazione tra le Regioni e il Governo centrale sia fondamentale. Nessun Governo centrale può sostituirsi a quelle che sono le conoscenze e le competenze territoriali degli enti locali: quindi è fondamentale che la collaborazione continui e che anzi sia sempre maggiore. Ma non possiamo neanche pensare di continuare ad abbassare l’asticella in funzione del fatto che l’Italia è stretta e lunga, che alcuni modelli possano andare bene per alcuni territori e alcune regioni, e altri modelli possano non funzionare per alcune regioni. Lo sforzo da parte delle regioni più virtuose, deve essere di mettere a disposizione strumenti e processi per quelle regioni che faticano maggiormente, non lasciarle da sole. Raccontava Dario Odifreddi l’evoluzione di Piazza dei Mestieri anche in Sicilia: credo che non si debba lasciare da soli gli operatori nel creare i connubi e le giuste relazioni fra le regioni, ma che si debbano esportare le best practices delle varie regioni in altri contesti. Anche dal punto di vista degli ITS – ricordava prima Finmeccanica a proposito della Lombardia -, la Regione Piemonte ha in questo momento all’attivo tre istituti tecnici sperimentali, tre ITS, in vari settori: il tessile, la meccatronica e l’aerospazio, infine la multimedialità, un percorso d’eccellenza. Invitiamo le aziende a partecipare a questi percorsi d’eccellenza, perché in Italia non tutte le aziende sono come la Finmeccanica. In Italia non tutte le aziende sono in grado di capire qual è l’investimento che, fatto oggi, potrà generare, attraverso la costruzione di competenze professionali, un mercato e una capacità di stare sul mercato da parte del tessuto imprenditoriale italiano, più competitivo rispetto a quello di altri Paesi. Noi sappiamo che oggi, se vogliamo competere in un mercato così globalizzato, dobbiamo chiaramente giocarcela sulle eccellenze. Eccellenze non significa soltanto ingegneri, non significa soltanto laureati, eccellenze significa competenze tecniche d’eccellenza e d’avanguardia. E qui mi rivolgo in particolare alle famiglie, perché spesso, quando facciamo orientamento all’interno delle scuole, lo dobbiamo fare in primis alle famiglie ma, subito dopo, agli insegnanti, perché molto spesso un’altra categoria che non crede nella capacità di creare le giuste competenze tecniche è quella degli insegnanti. Ci ritroviamo molto spesso con insegnanti che non si rendono conto che la costruzione di un futuro per i nostri giovani non passa soltanto attraverso percorsi universitari, che spesso la manualità, e la capacità di usare la fantasia – che, scusate, sta nel DNA degli italiani – aiuta molto di più che una laurea da mettere nel cassetto, con la annessa frustrazione, nel momento in cui si sia raggiunto un traguardo culturalmente elevato, che non si siano generate quelle prospettive di lavoro futuro che invece sono fondamentali. Il lavoro che stiamo facendo è importante, è un orientamento che non deve stare soltanto alla scuola ma al lavoro: capire dove e come potersi costruire un percorso lavorativo. Sono tutti percorsi che si possono fare laddove però c’è una forte collaborazione tra il mondo delle imprese, il mondo privato e il mondo della pubblica amministrazione. E quindi, io auspico che ci sia veramente la capacità di creare quel sistema che sta dando risultati importanti a livello territoriale, ma non ancora a livello nazionale. La capacità di fare sistema che avremo nel prossimo anno, ci aiuterà sicuramente a uscire da questa crisi. Spesso guardiamo agli altri Paesi europei, in particolare alla Germania, al modello tedesco. Attenzione: il modello tedesco non è l’Italia. Mi permetto di dirlo, pur avendo grande rispetto per il modello tedesco: le imprese tedesche non sono le imprese italiane, la dimensione delle imprese tedesche non è la dimensione delle imprese italiane. All’interno del sistema italiano, nelle regioni maggiormente industrializzate, i modelli sono diversi. Occorre avere la capacità di una regia centrale importante ma con una forte autonomia territoriale, perché soltanto andando ad analizzare il tessuto produttivo di ogni regione si riesce a rispondere alle esigenze formative. E’ una sfida che io auspico si possa vincere, ce la stiamo mettendo tutta, stiamo avviandoci a una programmazione di Fondi europei importante, quella 2014/2020. Sappiamo che oggi, in un contesto così difficile, le risorse che si possono utilizzare derivano dai Fondi strutturali europei; non dobbiamo sbagliare la nuova programmazione ma soprattutto dobbiamo partire dal principio che, primo, bisogna tenere le aziende in Italia, secondo, bisogna farle sopravvivere in Italia, terzo, probabilmente facendo questo, riusciremmo a generare le professionalità che serviranno per mantenere alta e viva la produttività e il PIL italiani. Grazie.

ROBERTO CORNO:
Sintetizzerei così: fantasia, coraggio e senso di responsabilità. Non è banale fare questo, specialmente nel campo dell’apprendistato, un tema che è sempre stato molto difficile. Mi permetto solo una piccola aggiunta al programma: da Federlegno mi viene segnalato che in questo momento, nell’ambito delle professioni del legno, esistono 5.000 giovani in formazione. E’ un’ulteriore buona notizia, insieme a quelle che abbiamo già citato. Adesso la parola finale, per quella stabilità che è stata invocata, all’onorevole Toccafondi.

GABRIELE TOCCAFONDI:
Grazie, la parola finale contiene troppe aspettative. Innanzitutto, un ringraziamento per l’invito al Meeting e a voi che siete qui da diverso tempo. Il Meeting è grande, ci sono molte mostre, ci sono gli stand, soprattutto lo stand di Finmeccanica, un gruppo di cui conosciamo l’utilità nel mondo della scuola. Quindi, il ringraziamento non è assolutamente banale, non vuole essere solo formale ma di sostanza. Si è parlato di esperienza, vorrei rimanere sul tema. Ho ricevuto la telefonata che ero stato nominato Sottosegretario tre mesi e mezzo fa, quindi, siamo lì da tre mesi: con il cognome che mi ritrovo – che non ho scelto, come voi, però parlo sempre in fondo -, un giornale, il giorno dopo l’uscita della lista dei Sottosegretari, ha titolato: “Un Toccafondi all’Istruzione”, che era chiaramente un programma, per dire come questo Governo stava iniziando su un settore così fondamentale. Mi sono trovato a iniziare con questo buongiorno e ho deciso di fare una cosa che nel tempo avevo imparato essere molto utile, cioè partire dall’esperienza, non iniziare con un aspetto, magari anche buono, ma comunque ideologico, da un’idea sull’istruzione, sulla scuola, sulla formazione, sui ragazzi, sui docenti. Mi sono detto: “Se finora è valsa la pena di provare a partire dall’esperienza, continuo così”, e così ho fatto. In questi tre mesi, il mio approccio è stato andare a vedere, visitare, parlare, incontrare, chiedere. Andare a vedere delle scuole, parlare con i ragazzi e dialogare con i docenti, non è la stessa cosa che parlare della scuola, parlare dei ragazzi, dei problemi o sottolineare gli aspetti positivi. Vedere e toccare con mano è un’altra cosa: si fa esperienza e l’esperienza è tua, non c’entra con l’ideologia. L’ho fatto anche perché non sono Matusalemme, però nella scuola, da quando l’ho terminata io, è cambiato tutto. Da inesperto del settore, e lo sottolineo, andare in una scuola e rendersi conto che colui che tu chiamavi Preside si chiama Dirigente Scolastico, significa che è proprio il mondo della scuola che è cambiato. Io ho fatto la maturità quando il massimo era 60, adesso 60 è il minimo. Per non parlare poi di nomi, prima c’erano le elementari, le medie e le superiori, adesso ci sono i cicli. E allora, andare a vedere, toccare con mano, parlare, per me è stato un dato di fatto, un fare i conti con un mondo che non era quello che conoscevo io fino a qualche anno fa. E’ cambiata tutta la scuola però, a parlare con i ragazzi e con gli insegnanti, ci si accorge che non è cambiata la voglia dei ragazzi di scoprire, di mettersi in gioco. Prima uno diceva una cosa che ho sentito dire diverse volte in questi mesi nelle scuole: “Mettere le mani in pasta”. E’ un’espressione bellissima, una cosa che i ragazzi chiedono. Così come non è cambiata la voglia di molti insegnanti di essere maestri, cioè di prendere sul serio le esigenze dei ragazzi. Non sono parole di filosofia o astratte, sono questioni che ho visto direttamente. Sono andato a vedere come prima scuola un istituto tecnico, anche perché, avendo fatto un istituto tecnico, mi ricordo in famiglia una settimana di lutto, quando dissi che avevo fatto questa scelta. Come è stato detto, se si fa un percorso di istruzione e formazione professionale, di istruzione tecnica o professionale, si pensa che il ragazzo abbia qualcosa che non va: questa è la mentalità. Quindi sono voluto partire da lì, senza avvisare – non vi dico la faccia di alcuni Presidi -, dicendo: “Voglio parlare con i ragazzi”. Ma anche parlando con i docenti di un istituto tecnico, industriale o professionale o alberghiero, ci si rende conto di come l’esigenza e la priorità dei ragazzi sia proprio questa: “Noi vogliamo imparare. E se in un istituto tecnico, in prima, ci fanno fare quattro ore di diritto e quattro ore di laboratorio, c’è qualcosa che non va, noi le mani in pasta le vogliamo mettere”. E quando in alcune scuole mi viene detto e fatto vedere che i laboratori sono chiusi, inagibili: ma di che istituti tecnici stiamo parlando? Capite bene che l’andare a vedere, parlare, non comporta una posizione ideologica ma ti apre alla realtà stessa. E sull’istruzione tecnica e professionale, si capisce che sono gli stessi insegnanti, lo stesso insegnante di diritto dell’esempio di prima, che si rendono conto che per i ragazzi così non va e che per anni c’è stato un aspetto ideologico che ha contato sulla riforma scolastica degli istituti tecnici e professionali, ma anche della formazione professionale. L’idea è che, poverini, bisogna insegnargli un po’ di tutto, soprattutto nel biennio, manca il greco e il latino e poi agli industriali hanno tutto. Ma così facendo quei ragazzi scappano, e infatti i dati di abbandono ci dicono che i ragazzi che hanno un’aspettativa e non la vedono poi nella realtà, scappano. Guardate, mi costa molto dire questo, ma non hanno tutti i torti. La politica ha il compito di cambiare, per quanto mi riguarda, questa realtà. Non per un aspetto ideologico, non perché il Sottosegretario Toccafondi ha una posizione ideologica e quindi deve fare entrare le imprese nella scuola: via il latino di turno e dentro l’impresa. Non è un aspetto ideologico, è un aspetto di sano realismo. Parlate con i ragazzi e vi diranno questo, parlate con gli insegnanti e vi diranno questo. Ho iniziato con un tema che non c’entra molto, gli istituti tecnici e professionali, ma siccome sarà il vero punto di un incontro che, spero, questa strana maggioranza avrà, da settembre in poi, per la riforma della scuola, sappiate che è un punto sul quale io e molti altri vogliamo spenderci. Così come questo aspetto di realismo, che comporta dare un giudizio rispetto a ciò che vedi, mi ha fatto partire dai numeri, perché i numeri difficilmente mentono. L’ha detto Corno all’inizio, quei numeri sulla disoccupazione giovanile, sui NEET o sugli abbandoni scolastici, possono essere letti in tanti modi, però è difficile non parlare di emergenza. Perché quando nel 2012, quindi un anno fa, in Italia si contavano 758.000 giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato ogni percorso formativo e hanno in tasca solo la licenza media, cioè il 17,6% della popolazione tra i 18 e i 24 anni, per me è un’emergenza. Questo numero al Ministero non può non dire qualcosa. Così come la disoccupazione giovanile: a metà 2013, i giovani tra i 15 e i 24 anni disoccupati sono quasi il 40%, nel 2007 erano il 20%. Sicuramente la situazione non è semplice, la situazione generale non facilita, ma forse significa anche che il mondo della scuola, della formazione, degli istituti tecnici professionali, cioè quelli più collegati al mondo del lavoro, e ad un certo lavoro, si devono svegliare perché questi numeri parlano chiaro. Così come la questione dei NEET, concordo, è l’emergenza delle emergenze. Perché quando si dice che nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni 2 milioni di giovani, cioè il 22%, non studia, non lavora e nemmeno cerca lavoro, significa che un ragazzo, un giovane su quattro sotto i trent’anni, in Italia è in una situazione in cui attende. Ma cosa? E allora il mondo dell’educazione, dell’istruzione, della formazione, questo dato deve prenderlo come interrogativo su di sé. Rispetto al realismo, ecco quindi l’andare a incontrare, parlare, dialogare, rendersi conto dei numeri della realtà. C’è un altro dato che mi interessa molto, lo diceva prima Candiani indirettamente: a fronte di questa situazione, il paradosso è che Unioncamere ci dice che ci sono 100mila posizioni lavorative che le imprese non riescono a ricoprire, 100 mila: c’è un disallineamento tra offerta e domanda che è evidente, un altro dato che ci fa dire che sì, qui bisogna non solo interrogarsi ma anche in fretta cambiare registro, tanto per rimanere in ambito scolastico. L’altro aspetto, sempre sull’esperienza, che ho cercato di capire, è questo: ma qualcosa di buono, l’abbiamo fatto in questi anni? Rispetto a questi numeri che non sono una novità, un fulmine a ciel sereno di queste ore, di questi mesi, come hanno risposto le istituzioni? Come il Ministero, le Regioni hanno tentato di dare una risposta? E ci sono alcuni aspetti positivi, gli ITS: l’esempio di Candiani calza a pennello, abbiamo Finmeccanica che ci ha creduto fin da subito, li ringrazio per questo e anche perché ci stanno facendo capire che la fase dell’orientamento nelle scuole è fondamentale, perché i ragazzi devono conoscere le possibilità e cosa il mondo del lavoro richieda. Su questo, Mantovani lo sa, stiamo lavorando insieme al mondo delle imprese, in particolare con le imprese che hanno creduto negli ITS. Però ricordo, sugli ITS, il dibattito di circa quattro anni fa, quando furono creati. Lo slogan era pressappoco questo: la scuola è svenduta alle imprese. Adesso si fa a gara per dire “è merito mio”, e nessuno dice che siamo svendendo la scuola alle imprese, segno che se si parte da un aspetto ideologico si vanno a dire queste fesserie. Ma se si parte da un aspetto realista, si fanno gli ITS. Siamo una grande maggioranza e dentro ci stiamo tutti, lascio questo dato storico al dibattito di ognuno, stasera a casa, perché c’è chi ci ha creduto e chi ci ha creduto dopo. Però, rispetto agli ITS, il dato fondamentale è questo mettere le mani in pasta. Gli ITS sono un forma innovativa di fondazione, dentro cui c’è un istituto tecnico professionale, fondamentale, perché senza questo non si parte, un’agenzia formativa, le imprese o una impresa (ma più imprese è meglio) e un’università. Vorrei ribadire, perché ci tengo particolarmente, che gli ITS nascono dal Ministero dell’Istruzione, l’input non è delle Regioni, difendo la parrocchia. Le Regioni ci hanno creduto, alcune di più, altre di meno, altre ci stanno credendo oggi, ma se sottolineo gli aspetti negativi del mio Ministero, sottolineo anche gli aspetti postivi. C’è qualcuno che ci ha creduto, li ha portati fino in fondo in una battaglia ideologica non banale, cosi come i Poli, perché i Poli nascono dagli ITS: le imprese entrano in contatto con gli istituti tecnici e professionali, quindi, imprese e istituti insieme, per portare i ragazzi all’esterno, cioè a entrare in contatto con il mondo del lavoro, così come accade per l’orientamento. Forse questo Ministero non è un moloch fermo, immobile, che aspetta gli eventi; forse qualcosa si muove. Certo, se la posizione fosse realista e meno ideologica, ci muoveremmo con un certo grado di velocità in più. Però, anche sull’IFP, dieci anni fa c’è stato chi ci ha scommesso insieme alle Regioni e può dire ora che la scommessa è vinta. Ci sono problemi sulla formazione professionale, sulla qualifica, sulla certificazione, cioè su una sua dignità, anche come contenuto e come diploma finale. Prima l’utenza era di qualche decina di migliaia di persone, adesso contiamo 281mila ragazzi, persone che frequentano i corsi di Istruzione e Formazione Professionale, 127mila nelle strutture formative, anche quelle che abbiamo ascoltato oggi, 154mila presso gli istituti professionali. 280mila sono quasi il 20% di tutta la popolazione tra i 14 e i 17 anni che frequenta un corso vero e reale. C’è un’indagine ISFOL del 2010 che dimostra una cosa fondamentale, ovvero che il 50% di chi ha fatto questo percorso di formazione ha trovato lavoro subito dopo la qualifica, percentuale che sale al 60% a tre anni di distanza dalla qualifica. Del restante 40%, la metà è disoccupato, cioè ha lavorato ma ha perso il lavoro, la metà ha proseguito gli studi e la metà, possiamo dire, ha fallito, cioè non ha mai trovato un lavoro. Significa che con l’Istruzione e Formazione Professionale, con un percorso, il 75% dei ragazzi ha avuto uno sbocco, un lavoro oppure la volontà di ritornare a studiare. In genere, il lavoro – ci dice lo studio – è svolto coerentemente con la qualifica conseguita, le attività di stage e tirocinio sono considerate fondamentali per lo svolgimento del lavoro e si tratta quasi sempre di lavoro dipendente. E c’è sempre questo studio che ci dice anche, sulla pari dignità della formazione professionale – perché troppo spesso si pensa che sia un ripiego, che sia come la rete di protezione dei trapezisti, la formazione professionale, cioè, si tenta la scuola, poi non ce la si fa e allora, prima di andare in strada, qualcosa fa, invece ha una dignità tutta sua -, che, se orientati, i ragazzi già a 14 anni possono prendere una strada dignitosa che porta a un diploma, che porta a un titolo di studio, che porta a un lavoro. Sempre lo stesso studio ci dice che il 30% dei qualificati si iscrive al percorso FP, cioè di formazione, direttamente dopo la terza media: quindi è una scelta consapevole, non una rete di protezione, è una prima scelta. E si mette anche in luce che il 45% degli iscritti presso le strutture ha 14 anni di età, quindi è effettivamente la prima scelta, e il 55% di chi sta frequentando o ha frequentato questi corsi non ha conseguito la licenza media con il voto sufficiente, ma buono o distinto. Certo, ci sono ancora problemi sui percorsi di formazione professionali. Per esempio, il quarto anno, cioè l’arrivo, dopo i tre anni di corso, alla qualifica: qui devo dare un attestato al Piemonte. Assessore, l’attestato del Sottosegretario non vale un euro in più, però se vuole lo può appendere. Glielo do volentieri perché il Piemonte è una delle poche Regioni che ha fatto quello che in dieci anni la legge diceva di fare: molte Regioni hanno latitato, la Regione Piemonte, no, e non è la stessa cosa aver latitato o meno su questo punto, perché non si può dire “evviva la formazione professionale” e poi non codificare, cioè non dare un assetto normativo vero alla qualifica, e quindi non istituire il quarto anno senza il quale non si ha il titolo. Vuole dire che non ci credi, che il tuo è un aspetto ideologico. Allora, un appello alle Regioni che ho già avuto modo di ribadire a tutti gli assessori regionali a fine luglio. A settembre ci rincontreremo anche su questo, perché non dobbiamo fare un mezzo passo indietro ma dieci in avanti: tutte le Regioni devono mettere in pratica ciò che la legge dice di fare, cioè dare la dignità vera con la qualifica. Così come ci sono altri nodi da sciogliere. Il primo: per le Regioni, l’Istruzione e Formazione Professionale, dieci anni fa, è stata vista come un figlio non voluto, una cosa un po’ scomoda, molti non ci hanno creduto all’inizio e continuano a non crederci, sia per motivi finanziari che per aspetti ideologici. Si era di fronte ad un bivio: o fare la Formazione Professionale in maniera sussidiaria vera, cioè partendo da chi già la faceva e la fa, oppure farla con proprie risorse e strumenti. Alcune Regioni, in maniera ideologica, hanno deciso di farla solo e soltanto appoggiandosi agli istituti tecnici professionali, e questo ha penalizzato i ragazzi, perché se in una stessa classe Mario fa i cinque anni di istituto tecnico e Luigi fa i tre o quattro di Formazione professionale, si destabilizza l’uno e l’altro. Certo, si risparmia tanto perché l’istituto ce l’hai, i professori li paga lo Stato, puoi dire formalmente di aver fatto Formazione. Ma nella sostanza non hai fatto un bel niente. E anche qui, la sussidiarietà è una bella parola. Mi sono accorto che le Regioni chiamavano sussidiarietà il secondo aspetto: tu, Stato, dici a me, in maniera sussidiaria, di fare la Formazione; io, in maniera sussidiaria, vado a chiedere agli istituti professionali di fare la Formazione Professionale all’interno, così io faccio la Formazione in maniera sussidiaria. Questa non è sussidiarietà, è un’altra cosa, chiamatela come volete: la sussidiarietà è che io, Regione, devo fare una cosa e la posso fare o creandola da zero oppure guardando chi già la fa. Questa è la sussidiarietà vera, e tra l’una e l’altra le differenze ci sono, anche con numeri alla mano, perché la prima funziona, costa anche di più ma funziona, gli esempi che sono stati fatti sono di questa portata, l’altra, diciamo che funziona molto meno. Guardate, io non dico in maniera ideologica che va abolita l’una o l’altra, perché tutte e due hanno una dignità e portano a dei risultati, ma devono essere inserite all’interno di un sistema. Non ovunque è possibile avere quello che si ha a Torino o a Bergamo, e non è nemmeno semplice e facile crearlo in provetta, perché queste cose non si creano in provetta. La sussidiarietà si ha quando già c’è, non la crea lo Stato. Quindi, c’è la possibilità di partire da lì, quando c’è o quando ci sono le possibilità che nasca e cresca, oppure c’è la risposta della Regione o dello Stato, partendo dai luoghi di istruzione che già hanno. E questa è la soluzione mista. Anche questo aspetto sarà tema del tavolo con gli Assessori regionali, così come il tema dei soldi, perché chiaramente tutti sono a chiedere maggiori risorse, più o meno giustamente, anzi, sempre giustamente, sulla Formazione. C’è da dire che, quando ci si appoggia agli istituti professionali, si spende meno che a farla in maniera sussidiaria reale. Vi ho annoiato molto sulla questione del realismo, dico solo un’ultima cosa, vi annoio ancora un po’ sui numeri, trenta secondi e poi la conclusione. Vorrei ribadire alcune questioni, visto che sono state fatte delle domande precise sull’ITS. Il Ministero, all’ITS crede, l’ha finanziato con 49 milioni di euro per la startup, due anni fa, e ci mette 13 milioni di euro anche quest’anno. Certo, non ci sono più soldi per dare un avvio al nuovo, ma su quelli esistenti ci crede, anche se con quella che è una novità per il settore dell’Istruzione: misura i risultati, basta soldi a pioggia. Basta anche dire: siccome tre anni fa ci avete creduto, qualsiasi sia il risultato finale, continuate. No, questo aspetto del merito entrerà prepotentemente negli ITS, almeno per quanto mi riguarda. Quindi, valutazione merito e risorse: sono 2.500 gli iscritti agli ITS in Italia, le domande erano 10.000 e gli ITS non li conosceva nessuno. Quest’anno, secondo me, le domande saranno molte di più: sono 62 le fondazioni e 152 i corsi. Tra gli iscritti – non fra le domande pervenute ma tra gli iscritti, e questo mi sorprende -, il 20% ha più di 25 anni, cioè ha finito la scuola da un po’ di tempo, il 10% ha più di 30 anni. All’incirca, 1.000 fra i 2.500 iscritti sono disoccupati o alla ricerca di nuove occupazioni, gente che vede gli ITS come uno strumento per rinnovarsi, che non si arrende, che ritorna a scuola, che si mette la tuta, che si sporca le mani, che mette le mani in pasta. Non è banale. Ci sono aspetti negativi, e i numeri lo dimostrano, ma ci sono anche aspetti molto positivi: non tutti gli ITS stanno dimostrando di funzionare, molti hanno un costo per alunno esagerato, assolutamente esagerato. Per funzionare, le imprese devono essere reali, i tirocini devono essere assolutamente utili e non lo sfruttamento dei ragazzi in qualche azienda. Il concetto che mi interessa è questo: bene gli ITS, proseguiamo ma valutiamoli. Concludo partendo da quello che ho detto all’inizio: una risposta è efficace se parte dalla realtà, in questo caso la realtà sono i ragazzi, la scuola, i docenti e le imprese. Questa contaminazione tra scuola e mondo del lavoro deve uscire dal vocabolario ideologico della politica perché è il futuro e i numeri ci dimostrano che è la realtà: al centro è sempre la persona, siano studenti o docenti, e l’approccio corretto è quello della sussidiarietà, cioè partire da chi già fa. La realizzazione di sé, che è una esigenza messa a fuoco da questo Meeting, è il punto fondamentale di partenza: la realizzazione di tanti ragazzi che si avvia a diventare, con l’esperienza formativa dei CFP, degli istituti professionali, dei tecnici, anche una risposta strutturale a una certa occupazione giovanile. E termino con la frase di Cevoli: quel “servire le persone” che diceva lui da cameriere, ora da attore, è la parola d’ordine della politica, delle istituzioni, perché chi fa politica e chi fa parte del Governo – pro-tempore, visto che non si sa quando si scade, un po’ come gli yogurt – se non ha chiaro che è lì per servire le persone, alla fine finisce per servirsi delle persone. Questo è l’aspetto negativo della politica che invece è servire: e in questo servire, o si parte dalla realtà oppure ci si crea la realtà. Allora, guardate, se lo ha capito anche un Toccafondi qualunque, che bisogna partire dalla realtà, ci possiamo arrivare tutti. Grazie.

ROBERTO CORNO:
Missione difficile perché pone una grande sfida. Io ringrazio tutti e non tedio nessuno, direi solo una parola conclusiva: oggi il Meeting ha assolto davvero, secondo me, una delle sue missioni, dare una serie di buone notizie e di speranza e di possibilità per superare questa emergenza. Tutto quello che abbiamo sentito e visto oggi va in questa direzione. Ringrazio tutti e buona serata.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

22 Agosto 2013

Ora

15:00

Edizione

2013

Luogo

Sala Neri
Categoria
Incontri