ITALIA: UNA RIPRESA POSSIBILE!

Italia: Una ripresa possibile!

Italia: una ripresa possibile!

Partecipa Pier Carlo Padoan, Ministro dell’Economia e delle Finanze. Introduce Bernhard Scholz, Presidente Compagnia delle Opere.

 

BERNHARD SCHOLZ:
Buongiorno a tutti. Un benvenuto cordiale al Signor Ministro, Pier Carlo Padoan. Nella mia percezione il Ministro delle Finanze è sempre un Ministro che deve fare la quadratura del cerchio, quindi facciamoci spiegare oggi come voi, come Governo, e lei personalmente come Ministro, cercate di affrontare i problemi dei quali parliamo. Però, io vorrei fare una premessa. Ricordiamoci sempre che l’Italia è un Paese con un avanzo primario positivo. E questo vuol dire che l’Italia ha una base economica sana che le permette di affrontare poi tutti i problemi di cui parleremo, ma se uno perde di vista la positività dalla quale si può partire e si fissa sempre sulle varie lamentele di cui evidentemente si possono riempire talk show e giornali, non riesce a mobilitare le energie positive di un Paese e le risorse necessarie per affrontare i problemi. Altrimenti non si spiega come un Paese che deve spendere il 5% del PIL annuale per pagare gli interessi, riesca ancora ad avere una relazione deficit-PIL sotto il 3% ed essere da questo punto di vista virtuoso. Nel contesto europeo, da questo punto di vista, l’Italia è virtuosa, dobbiamo dircelo, altrimenti i problemi che evidentemente ci sono e di cui parleremo diventano inaffrontabili e questo non aiuta.
Il Ministro Padoan è Ministro dal Febbraio del 2014, la nomina l’ha raggiunto a Sidney dove era nella sua funzione di Capo economista dell’OCSE, una funzione che ha svolto dal 2007; dal 2001 al 2005, invece, è stato Direttore Esecutivo per l’Italia del Fondo Monetario Internazionale per i Paesi del Mediterraneo (Grecia, Portogallo, San Marino, Albania) e quindi ha anche una profonda conoscenza della situazione dei Paesi del Mediterraneo che in questo momento, anche dopo ciò che abbiamo sentito ieri dal Primo Ministro Matteo Renzi, è di primaria importanza. Prima di parlare dell’Italia e dell’Europa, cominciamo con un tema di attualità, perché, parlando con tante persone, imprenditori, anche politici, durante questo Meeting, la situazione della Cina ha creato delle preoccupazioni e quindi vorrei porre subito una domanda, prima di entrare sulle altre tematiche: signor Ministro, come valuta questa situazione? Dobbiamo essere preoccupati di un effetto immediato?

PIER CARLO PADOAN:
Intanto fatemi iniziare con un caldo ringraziamento per questo invito. E’ la prima volta che vengo a questa iniziativa e sono sbalordito dalla sua ampiezza e vi ringrazio molto per il vostro incoraggiamento iniziale che ho molto apprezzato. Della Cina bisogna evidentemente occuparsi, se non preoccuparsi, perché è la seconda economia mondiale. Quello che abbiamo visto e stiamo vedendo ancora in queste ore, è una instabilità finanziaria legata a quella che gli economisti chiamano una bolla speculativa e cioè l’acquisto apparentemente senza fine di attività finanziarie o di proprietà immobiliari che, prima o poi, scoppiano come una bolla. E questo naturalmente provoca instabilità. Ma la vera questione è un’altra. La vera preoccupazione, se ce n’è una, è la seguente. La domanda sarebbe: la Cina smetterà di crescere così rapidamente come ha fatto in passato? Il fatto che la Cina debba rallentare la sua crescita era già nei fatti ed era già attesa ed era già in attuazione. La Cina è un’economia gigantesca che si sta trasformando, sta diventando un’economia più matura, anche se rimane un Paese emergente e per alcuni tratti un Paese in via di sviluppo: gran parte della popolazione cinese è in povertà. Quindi è un’economia in grande trasformazione e per questa stessa ragione, per meccanismi un po’ complicati, il tasso di crescita diminuisce. Quindi non ci dovremmo spaventare se la Cina crescerà di meno. Ci dovremmo spaventare un po’ di più se la Cina crescerà ancora meno di quanto previsto, perché è chiaro che la Cina è, in prospettiva, un grande mercato in cui un Paese come l’Italia, di forte capacità competitiva e su questo tornerò, può approfittare. Quindi se la Cina riuscirà a controllare questa fase di transizione, sarà un bene per tutti, a cominciare dalla Cina, ma è una questione di cui noi italiani, ma direi europei, dobbiamo trarre un po’ di lezioni. Ne tiro fuori una sola, che mi sta molto a cuore. L’Europa deve sì poter contare sulla crescita di grandi Paesi emergenti come la Cina, l’India, il Brasile, la Russia, ma deve soprattutto contare su se stessa. Parlare della Cina oggi significa chiedersi cosa deve fare l’Europa per crescere di più, per creare più lavoro. In Europa ci sono ancora troppi milioni di disoccupati, soprattutto giovani. In Europa è in discussione il modello di welfare che è distintivo del modello europeo stesso. L’Europa è impegnata in un grandissimo progetto di integrazione economica, ma prima ancora politica e sociale, che deve essere portato avanti e che deve svilupparsi anche davanti a situazioni critiche, come la Grecia. Quindi, per concludere su questo punto, dobbiamo preoccuparci dell’instabilità finanziaria? Sì, ma finché rimane instabilità finanziaria, la vita di tutti i giorni, di tutti noi, non ne sarà così impattata, ma se la Cina dovesse rallentare ulteriormente la sua crescita, allora dovremmo, a maggior ragione, chiedere all’Europa di fare di più. E questo va chiesto all’Europa in ogni caso. L’Europa deve crescere di più per creare più lavoro, per mantenere, sia pur modificandolo, il suo modello di welfare. Lo dico, e qui mi fermo su questa questione, non perché siano belle parole, ma perché vorrei rivendicare il fatto che l’Italia da Presidente di turno dell’Europa, proprio nel primo semestre di vita del Governo o quasi, ha posto la questione della crescita dell’occupazione al centro dell’agenda europea dove oggi si trova, mentre prima non era ancora al centro dell’agenda europea. Quindi la Cina è un segnale per l’Europa, è una lezione che l’Europa non può permettersi di ignorare.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie. Allora andiamo subito ad approfondire questa sfida della crescita. Il Governo parla da una parte della riduzione della spesa pubblica e dall’altra di una riduzione delle tasse. Questa mattina su tutti i giornali c’è l’abolizione dell’IMU, della TASI, però si parla molto della riduzione dell’IRAP, della riduzione dell’IRES, della riduzione delle tasse sul lavoro e poi della grande sfida di trovare la soluzione per ridurre la spesa pubblica di 10-15 miliardi.

PIER CARLO PADOAN:
Prometto che parlo di tasse, sia chiaro che non voglio sfuggire a questa questione. Però, visto che la parola chiave in quello che lei ha appena detto è crescita, permettetemi di spendere qualche minuto su questo concetto, perché sicuramente, almeno questa è la mia esperienza professionale da economista, la crescita è la cosa più complicata da capire e dal punto di vista di un Governo, la cosa più complicata da sostenere, soprattutto oggi, soprattutto in Europa, soprattutto in Italia, in una situazione, cioè, in cui quello che tiene una crescita ancora bassa, è un insieme di ragioni che vanno indietro nel tempo. Se guardiamo ai numeri recenti della crescita, giustamente non siamo soddisfatti, perché il famoso dibattito 1 o 0, non ci lascia soddisfatti. Però, permettetemi di ampliare un po’ lo sguardo. Intanto chiederci da dove veniamo. In Italia, negli ultimi quattro cinque anni, abbiamo assistito alla più profonda recessione del dopoguerra. L’Italia ha perso 1/10 del suo PIL e quando diciamo che ha perso 1/10 del suo PIL significa che ha perso anche un po’ della sua ricchezza profonda: imprese, lavoratori, capitale umano, che sono la vera ricchezza di un Paese, sicuramente la vera ricchezza del nostro Paese. E quindi la recessione che è durata così a lungo, che è stata così profonda, ha lasciato delle ferite che devono essere ancora rimarginate. Allora guardiamo indietro e chiediamoci dove eravamo quattro anni fa o cinque anni fa. Eravamo in un periodo di recessione prolungata. Ma non basta. Bisogna guardare ancora più addietro, bisogna guardare indietro di vent’anni, lo so che vent’anni è la cifra che ha citato il Presidente del Consiglio, ma è una cifra che ha una sua oggettiva validità, perché sono vent’anni che l’Italia non riesce a raggiungere e a mantenere tassi di crescita degni di un Paese della sua ricchezza. E perché? Perché in vent’anni si sono lasciati accumulare, sicuramente non si sono affrontati, gli ostacoli strutturali alla crescita. Oggi la crescita richiede sia un intervento che gli economisti chiamano macro-economico, sia soprattutto un intervento finalizzato micro-economico, che alla fine riesca a cambiare i comportamenti delle imprese, delle famiglie, di tutti noi, perché o questo cambio di comportamento avviene, oppure la ripresa della crescita resterà debole e insoddisfacente. Ecco perché parlare di ricrescita oggi è complicato, perché cambiare il comportamento della gente – le imprese sono persone, noi siamo persone, le famiglie sono persone – è evidentemente molto complesso, soprattutto in una civiltà democratica, in una società democratica. Come si fa a cambiare il comportamento in senso positivo? Questa è la vera sfida della politica economica. Se ci pensate un attimo, ha da questo punto di vista una dimensione, permettetemi questo termine, molto sociale: la politica sociale per la crescita funziona se cambia il modo in cui la società si comporta. Gli economisti, con un linguaggio un po’ astratto, dicono se cambiano gli incentivi, se cambiano quelle cose in cui viviamo tutti i giorni che determinano il comportamento. E questo problema è legato a un altro aspetto che gli economisti guardano con estrema attenzione, che è la fiducia. Non basta avere gli stimoli giusti per agire, per investire, per spendere per i nostri figli, per accumulare ricchezza per i nostri figli, bisogna anche avere la convinzione che ne valga la pena. Quando questa convinzione si traduce in atto, allora c’è la crescita, la crescita sostenuta, sostenibile, ricca, articolata. E allora, se le cose stanno così e io la crescita la vedo così, dietro le grandi cifre, i grandi aggregati ci sono una miriade di comportamenti che devono essere aiutati ad andare nella direzione giusta. Ecco perché la strategia di crescita deve essere una strategia che ha più dimensioni, che ha più strumenti e che sia sufficientemente di ampio respiro per dare tutti i suoi frutti. Ecco perché la questione delle tasse che oggi sta sui giornali, tanto per fare un esempio, non può essere vista puntualmente in quanto tale, ma deve essere collocata in un contesto ampio, ed è questo lo sforzo che il Governo ha seguito da quando lavora in questo senso. Quali sono i pilastri della politica di crescita del Governo? Sono diversi: innanzitutto e non c’è un ordine di importanza, li cito come vengono, innanzitutto c’è naturalmente una grande agenda di riforma strutturale. Perché l’agenda è grande? Perché le riforme strutturali sono quelle che devono affrontare i problemi strutturali, che come ho detto prima si sono accumulati nel tempo, e i problemi sono tanti e fra loro sono interconnessi. Bisogna migliorare il mercato del lavoro, tra cui il jobs act di cui parlerà l’amico Giuliano Poletti più tardi; il sistema di giustizia civile, la pubblica amministrazione, la scuola, che è la riforma chiave perché è quella cosa che crea quello che gli economisti chiamano il capitale umano, che è la ricchezza principale di un Paese come il nostro. Ma poi tante altre cose, quindi bisogna introdurre riforme, cioè cambiare le norme che regolano i comportamenti e attuare le riforme, fare in modo che i comportamenti effettivamente siano diversi. Quindi le riforme sono il primo capitolo. Secondo capitolo: la finanza pubblica. Il dottor Scholz ricordava, e gliene sono grato, come, se si guarda ai dati di finanza pubblica, l’Italia sia uno dei Paesi sicuramente più virtuosi all’interno non solo della zona euro, ma dei Paesi sviluppati. Questo è testimoniato dalla classifiche che la commissione produce, dai dati che produce. Il problema che noi sappiamo essere quello principale, è l’enorme onere del debito, che richiede un enorme onere di pagamento di interessi continui, quindi un enorme quantità di risorse che devono essere destinate a rimborsare il debito e soprattutto a pagarne gli interessi. La finanza pubblica è evidentemente il secondo pilastro, che a sua volta ha due dimensioni: la quantità, quanto debito abbiamo, come facciamo a farlo scendere, e la qualità, cosa ci facciamo con la finanza pubblica, cosa ci facciamo con le risorse che lo Stato raccoglie, e cioè con le tasse, e cosa ci facciamo con le risorse che lo Stato spende, cioè la spesa pubblica. Terzo elemento: gli investimenti. Gli investimenti sono l’anima della crescita. Ci sono naturalmente gli investimenti pubblici, i quali sono soprattutto una questione che riguarda le risorse, quanti soldi ci sono in bilancio, quanti miliardi ci sono di spesa disponibile, ma anche cosa ci facciamo con gli investimenti pubblici, quali progetti finanziamo. E forse la cosa più importante è quanto ci mettiamo a fare gli investimenti: ci mettiamo anni o ci mettiamo mesi o ci mettiamo decenni? Li facciamo nei posti giusti o nei posti sbagliati? Sono cose che servono allo sviluppo del Paese o no? Tutte questioni che oggi sono particolarmente rilevanti. E poi, naturalmente, le altre voci di spesa. Gli investimenti privati sono il motore della crescita e perché un imprenditore vuole decidere di investire risorse, di rischiare magari risorse proprie per accrescere la capacità di espansione della sua azienda e in questo modo aumenta la capacità di espansione del Paese e naturalmente la possibilità di lavoro di tanta gente. Perché decide di rischiare? Perché decide che l’ambiente nel quale lui impiega la sua ricchezza e il suo tempo è un ambiente favorevole. Ecco che a questo punto si intrecciano i risultati delle riforme con gli strumenti che si mettono sul campo per sostenere gli investimenti: agevolazioni fiscali, strumenti finanziari, facilitazioni. Vogliamo rendere facile la vita di chi rischia le proprie risorse, la propria ricchezza per creare nuova ricchezza e per fornire occupazione. Se tutte queste cose funzionano e si sostengono l’una con l’altra, è possibile rimettere in moto la macchina della crescita, che funziona se ciascuno degli individui che fanno parte della società approfitta al meglio della situazione che gli si offre. E’ compito del Governo offrire a ciascuno degli individui, a ciascun imprenditore, a ciascuna famiglia le migliori condizioni possibili per mettersi in campo, per mettersi in discussione, per dire val la pena di rischiare. Questo è come vedo io il compito della politica economica di un Governo che poi si traduce in numeri. Lo 0.2, lo 0.3, l’occupazione, gli investimenti, sono tutte cifre finali, che richiedono un lavoro a monte di sostegno all’individuo, di sostegno all’impresa, senza il quale quei numeri saranno sempre insoddisfacenti.

BERNHARD SCHOLZ:
Certamente occorre da parte di tutti uno sforzo. Una delle grandi sfide che dobbiamo affrontare è sicuramente il miglioramento della produttività, perché i dati dicono che le nostre imprese, purtroppo, non hanno la produttività che la media europea in questo momento presenta. Il compito del Governo è quello di aiutare a creare questo clima di fiducia di cui lei ha parlato, che favorisce gli investimenti. L’Europa ha due grandi strumenti per sostenere la crescita e per aiutare a creare questo clima di fiducia, che sono da una parte il “piano Draghi”, che è incominciato, che ogni mese investe 60 miliardi nell’acquisto di debiti sovrani e poi c’è il “piano Junker”, che vuole creare investimenti. Questi strumenti presuppongono, soprattutto il “piano Junker”, una gestione adeguata, una modalità giusta per portare questo denaro al momento giusto al posto giusto. È possibile immaginare che gli investimenti possano essere gestiti in un modo più efficace, perché sappiamo che certi fondi che provengono dall’Europa non sono stati recepiti in un modo adeguato, non tutti per lo meno, e non da parte di tutti, quindi la domanda è: come si può fare affinché queste somme vengano gestite in un modo utile per la crescita?

PIER CARLO PADOAN:
Innanzitutto il fatto che ci sia una politica monetaria della Banca Centrale europea come quella che c’è attualmente in vigore, ha cambiato in modo molto positivo il quadro generale. Non solo perché ha immesso e sta immettendo in modo continuo, come veniva ricordato, liquidità nel sistema, ma perché fornisce un segnale alle economie, ai mercati, alle imprese che ci sarà qualcuno che sosterrà l’economia europea attraverso lo strumento monetario, finché ciò sarà necessario. Questo è un esempio importante di come la politica economica può condizionare in positivo il comportamento. Poi questo si traduce in canali specifici, si traduce in canoni di interesse più bassi che facilitano la gestione della finanza pubblica, ma facilitano anche la gestione del credito. In questi ultimi giorni l’euro si è di nuovo rivalutato ma, se ci ricordiamo dove stava, attorno a 1.40 sul dollaro qualche mese fa, ci rendiamo conto che le cose sono cambiate. Questo aiuta evidentemente le esportazioni europee e in generale garantisce che ci si allontani dal quell’altro grande rischio che l’Europa, ma non solo l’Europa, stava correndo 12/18 mesi fa: il rischio della deflazione e cioè il rischio che i prezzi, invece di salire se pur lentamente, prendessero a scendere. Un rischio gravissimo per chi ha dei debiti. Se io sono indebitato per 1.000 euro, se i prezzi scendono, il costo reale di quel debito aumenta, quindi io devo lavorare di più per restituire il debito e questo sarebbe stato una sciagura per l’intera Europa. Quindi la politica monetaria della Banca Centrale Europea ha radicalmente cambiato il panorama. Ma, come lo stesso Draghi continua a dire ogni volta che parla di questa politica, la politica monetaria europea o non europea da sola non basta. La politica monetaria rischia di diventare via via inefficiente se non viene accompagnata da un’azione positiva da parte dei Governi e in particolare da un’azione che acceleri il processo di riforma strutturale. Da questo punto di vista quello che sta facendo l’Italia in tema di politica, di riforma strutturale, con una velocità e un’intensità che viene riconosciuta essere la più elevata in Europa, è di complemento alla politica monetaria. Quindi da una parte abbiamo Draghi e dall’altra abbiamo il Governo che accelera sulle riforme e l’insieme di queste due cose produce risultati positivi. Questo è molto importante, perché è un’indicazione di come l’Europa può funzionare come macchina economica efficiente. Ma come veniva ricordato, l’Europa si è dotata di altri strumenti: il “piano Junker” è un programma che si basa su un concetto relativamente semplice, che a che fare di nuovo con l’attività di investimento delle imprese. L’impresa per sua natura deve rischiare delle risorse, deve decidere di mettere dei soldi per fare un investimento. Se non lo fa, non c’è investimento, non c’è crescita. Spesso un’impresa può decidere che è troppo rischioso mettere dei soldi in un progetto di investimento e quindi quell’investimento non si fa. E’ qui che arriva il “piano Junker”. Il “piano Junker”, con risorse pubbliche (sono sia risorse europee che vengono dalla Banca Europea degli Investimenti, sia risorse nazionali – per esempio l’Italia, tramite la Cassa Depositi e Prestiti, mette a disposizione 8 miliardi per questo meccanismo), cosa fa? Si fa carico di questo eccesso di rischio, del rischio che l’imprenditore privato da solo non ce la fa a sobbarcarsi, e se lo prende lui, il sistema pubblico, fornendo delle garanzie. Quindi è un modo di fare intervenire la mano pubblica, la politica economica europea in questo caso, per stimolare l’attività privata, per renderla più efficace e non per sostituirsi all’attività privata ma, ripeto, per aiutarla. Le cose si stanno già muovendo; si stanno muovendo per esempio attraverso un utilizzo dei fondi della Banca Europea degli Investimenti più efficiente, più propenso al rischio. Ci sono più investimenti da finanziare ma, e anche qui c’è una cosa importante da dire che è un po’ il Leitmotiv del mio ragionamento: tutto ciò richiede un intervento efficace del settore pubblico ma anche una capacità del settore privato di reagire. Dal punto di vista degli investimenti, la cosa più importante non sono tanto i soldi, perché di soldi se ne stanno cominciando a mobilitare parecchi, quanto la capacità di fare progetti. La capacità di pensare progetti nuovi, la capacità di innovare, la capacità di implementare questi progetti, perché qui c’è un punto di forza gigantesco dell’Italia: la capacità, se l’Italia ci crede, di essere alla frontiera dell’innovazione, alla frontiera del pensare nuovi progetti di investimento. Oggi si può combinare questa capacità innovativa con meccanismi e risorse che la esaltano. E’ una occasione irripetibile a cui tutti i soggetti attorno al tavolo, le imprese, le famiglie, le banche, la politica economica, devono partecipare; è un’azione collettiva che deve essere messa in moto e che accelererebbe di parecchio la crescita.

BERNHARD SCHOLZ:
Quest’estate è stata contraddistinta da segnali molto contrastanti. Da una parte una ripresa di investimenti privati, leggera ma abbastanza consistente; una ripresa del PIL positivo, l’export confermato che dice che i prodotti italiani hanno tutt’ora un riconoscimento internazionale di primissimo livello. Dall’altra sono arrivati i dati del Sud che ci dicono che si apre sempre più il divario fra queste due parti del Paese. E’ possibile intervenire positivamente per sostenere la crescita del Mezzogiorno?

PIER CARLO PADOAN:
E’ possibile ed è necessario. Secondo gli ultimi dati, in un contesto dove l’intero Paese entrava in recessione, questa recessione si faceva sentire in modo più che proporzionale nel Sud, a testimonianza del fatto che quelli che ho chiamato gli impedimenti strutturali alla crescita rimangono più forti nel Sud. E’ chiaro che in questa parte del Paese, nel Mezzogiorno, c’è un problema più acuto. Questo non significa che si debbano pensare politiche diverse per il Sud rispetto a quelle che vanno bene per il resto del Paese. Va casomai immaginata un’implementazione delle politiche, più finalizzata e più cucita attorno, non tanto al Sud in quanto tale, ma alle realtà specifiche del Sud. Non dimentichiamoci che nel Sud ci sono zone di povertà importanti – sui giornali in questi giorni è stato molto spesso scritto che il PIL del Sud è più basso di quello della Grecia e in alcuni casi è vero – ma nel Sud ci sono anche zone di eccellenza che naturalmente vanno rafforzate ed estese. Il Governo ha anticipato che si occuperà, in modo esteso, del Sud, però fatemi anticipare alcune idee, alcune linee di ragionamento che si stanno prendendo in considerazione: innanzitutto bisogna tradurre in operatività l’investimento pubblico. La procedura di implementazione e di attuazione degli investimenti pubblici, soprattutto infrastrutturali che sono fondamentali per il Sud, deve essere fortemente migliorata e l’amico Delrio immagino che abbia parlato proprio anche di questa necessità di migliorare i meccanismi degli investimenti pubblici. Questo si può fare anche facendo partire meccanismi istituzionali specifici, come l’Agenzia per la Coesione, e questo serve al Sud ma serve anche al Paese perché, tanto per essere chiari, se noi non riusciamo a spendere i soldi che ci vengono dall’Europa, non solo li perdiamo, ma non possiamo neanche utilizzare la così detta “clausola degli investimenti” che ci permette di mobilitare più risorse, senza che questo impatti eccessivamente sui vincoli di bilancio. Quindi migliorare l’implementazione degli investimenti, migliorare l’implementazione delle riforme strutturali: è un discorso tutto da aprire ma che va sviluppato. Faccio alcuni esempi: due riforme fondamentali, che sono nell’agenda del Governo, la Scuola e la Pubblica Amministrazione, sono in fase di avvio. La riforma della Pubblica Amministrazione deve essere riempita di contenuti dopo l’approvazione dei Decreti Delegati. Si sta riflettendo su cosa voglia dire trasformare in contenuti locali la nuova Scuola e la nuova Pubblica Amministrazione. Questo deve richiedere uno sforzo congiunto dell’amministrazione centrale e delle amministrazioni locali. Quindi una traduzione concreta, puntuale ma specifica, delle misure di riforma pensata per le diverse località. Ho fatto solo alcuni esempi, questo non esaurisce una strategia per il sud ma l’idea ripeto è quella di adattare alle specifiche realtà meridionali una filosofia di crescita che vale per tutto il Paese.

BERNHARD SCHOLZ:
Ci potrebbe spiegare la sua visione, come Governo, della annunciata detassazione?

PIER CARLO PADOAN:
Innanzitutto abbattere le tasse a parità di altre condizioni va bene, ma è una cosa che va fatta va nella direzione giusta. Abbattere le tasse ha un effetto positivo se chi beneficia di questo abbattimento è anche convinto che l’abbattimento delle tasse sia permanente. Se io invece penso che quest’anno mi viene diminuita la tassa x ma domani viene messa la tassa y uguale, allora io non cambio il mio comportamento. La questione dei comportamenti è essenziale. Quindi il primo punto è che le tasse che si abbattono devono essere fatte in modo tale da convincere che questo è un fatto permanente. Ecco perché le tasse si devono abbattere abbassando le spese, perché le tasse in gran parte servono a finanziare più spese. Se l’esigenza di finanziamento delle spese diminuisce, allora c’è uno spazio per una credibile riduzione permanente delle tasse. Mi ha chiesto quali sono i termini generali della nostra filosofia, questo è il primo: abbattere le tasse. Il primo è abbattere le tasse, va bene, il secondo però è che deve essere credibile, quindi bisogna abbattere le tasse insieme all’abbattimento della spesa, ecco perché la politica di riduzione delle tasse va di pari passo con la politica di revisione della spesa, la spending review, e insieme fanno la gran parte della politica di bilancio. Poi tra tutte le tasse che si possono abbattere quali si scelgono? Come ha ricordato ieri il Presidente del Consiglio, il programma di Governo dal 2014 al 2018 prevede tagli di tasse in diverse aree, che vanno viste nel loro insieme. Si è incominciato con una riduzione delle tasse sui redditi medio bassi, i famosi 80 euro, che tra l’altro, purtroppo, per ragioni tecniche, sono ancora contabilizzati come aumento di trasferimento e non come riduzione delle tasse, ma l’effetto è lo stesso. Quindi si è cominciato col dire abbattiamo le tasse per una ragione di equità sociale, per proteggere i redditi più bassi. Poi si è passati alle tasse sul lavoro e quindi l’IRAP e quindi gli incentivi fiscali all’assunzione con contratti a tempo indeterminato. E’ chiaro che aiutare le imprese ad assumere di più e meglio è fondamentale per il benessere del Paese. Quindi secondo criterio, equità sociale, sostegno al lavoro, sostegno alla crescita, sostegno all’occupazione. Poi, naturalmente, sostegno alle imprese e di nuovo sostegno alle famiglie, con le tasse sulla casa. L’idea è quella poi di tornare ad aiutare le imprese e ritornare ad aiutare i redditi più bassi. Perché in 5 anni? Vi confesso che mi piacerebbe farlo così come leggo da tanti commentatori: il Governo deve abbattere domani per 50 miliardi le tasse. Magari! La vera domanda non è se bisogna abbattere le tasse. la vera domanda è come si finanzia l’abbattimento delle tasse. Quindi sarebbe bello fare così, abbattere domani o oggi i 50 miliardi delle tasse. Ma la vera questione rimane come si abbattono le tasse in modo credibile, quindi come si finanzia questo abbattimento. E’ necessario avere un orizzonte temporale di medio termine, quello di una legislatura completa, perché questo va collegato al punto da cui siamo partiti, cioè al fatto che la finanza pubblica per un Paese ad alto debito è sempre un problema che va tenuto d’occhio giorno per giorno. Quindi le tasse si possono abbattere, lo si fanno in modo credibile, questo rende il loro impatto più efficace ma rende anche la finanza pubblica sostenibile. E perché la finanza pubblica deve essere sostenibile? Se la finanza pubblica non fosse sostenibile, il Paese non sarebbe credibile, se il Paese non fosse credibile, si avrebbe immediatamente una risposta negativa da parte di due soggetti: i mercati, che ci farebbero pagare per lo stesso debito un tasso molto più alto e le istituzioni, che non ci concederebbero i margini di flessibilità che sono stati introdotti anche grazie all’azione del Governo italiano, perché non si fiderebbero. Uno dei problemi più seri che io ho trovato nella mia esperienza di partecipante agli incontri del Comitato economico e finanziario dell’Eurogruppo, è che in Europa c’è una grande mancanza di fiducia reciproca. Un Paese deve, soprattutto quando va a queste riunioni in Europa, dimostrare di essere credibile. E la credibilità come si ottiene? Non dicendo farò questo, ma facendolo. La quadratura del cerchio è da un parte ricondurre tutto ciò a coerenza, in modo tale che la politica complessiva del Governo sia credibile e fare in modo che questo stimoli la crescita. Se la crescita viene stimolata, allora sì che siamo in un circolo virtuoso, perché se c’è crescita, il debito scende da solo e anche un debito grande incomincia a diventare rapidamente più piccolo e quindi ci allontaniamo dagli scogli, andiamo in un mare più tranquillo. Il comportamento individuale viene premiato perché ci sono risultati a livello individuale e a livello collettivo. Tutte queste cose vanno tenute presenti quando si prepara una legge di stabilità, tutto deve tornare, perché altrimenti da qualche parte si perde il controllo. Non è semplice, come non è semplice per nessuno di noi tutti i giorni gestire la propria impresa o gestire il bilancio familiare.

BERNHARD SCHOLZ:
In questo Paese, quali sono i punti di forza? Abbiamo, come lei ha detto all’inizio, un indebolimento delle strutture produttive, della produttività in generale. Su che cosa allora facciamo leva? Su cosa è possibile basarsi per ripartire con ragionevole fiducia?

PIER CARLO PADOAN:
Vorrei partire dal concetto di produttività che lei giustamente ha introdotto e io non ho ripreso. La produttività è una cosa un po’ strana, si misura in modo spesso non chiaramente osservabile, però può essere interpretata in vari modi. Dire che un Paese è a bassa produttività, ed è vero che l’Italia lo è, quasi meccanicamente porta con sé un giudizio etico: un Paese a bassa redditività è un Paese di fannulloni, un Paese in cui la gente non lavora, in cui imbroglia. Paradossalmente è esattamente vero il contrario: in Italia, e questo si può vedere andando a scavare un po’ più nei dati, la produttività, cioè lo sforzo, il risultato che viene dallo sforzo del lavoro, è spesso basso non perché gli italiani, a qualunque tipo di mestiere si applichi questo ragionamento, lavorano poco, ma perché lo fanno in un ambiente, in un contesto di impresa a volte insufficiente. Ecco perché ci vogliono le riforme per rendere più facile la vita di chi si impegna a produrre. L’aumento di produttività è il risultato di più investimenti, di più innovazioni, di un migliore capitale umano e qui torno ad insistere su questa questione. L’Italia, come altri Paesi europei, è una società “che invecchia” dal punto di vista demografico, in cui il peso delle generazioni più avanzate negli anni, di quelli che sono alla soglia della pensione, è preponderante rispetto alle parti più giovani della società. Per questo l’immigrazione è un potente elemento positivo in questo senso. In una società del genere, comunque, come si cresce? Si cresce con più produttività, attraverso più investimenti, più innovazione. Innovazione è utilizzare, in modo diverso e nuovo, conoscenze che già si hanno o produrre nuova conoscenza e questo Paese ha un grande potenziale di conoscenza. Se la mobilitiamo nel modo giusto, la produttività aumenta, la crescita aumenta e il benessere aumenta. Quindi da dove bisogna ripartire? Dal fatto che bisogna mettere questo enorme potenziale di conoscenza nelle migliori condizioni di operare. Ecco perché il grande sforzo è quello di migliorare l’ambiente, è quello di introdurre riforme, di cambiare la vita di tutti i giorni, dalla pubblica amministrazione alla giustizia, alle relazioni industriali, alla scuola. Con un ambiente più favorevole, con strumenti più efficaci, più flessibili di investimento, l’enorme sforzo di attività che ciascun individuo pone nella sua attività, verrebbe moltiplicato in termini di risultato. Quindi ribadisco il concetto: la più grande ricchezza di questo Paese è il suo capitale umano. Bisogna fare in modo che venga messo in condizioni di operare al meglio, bisogna fare in modo che lo stesso capitale umano aumenti, il che significa investimento in istruzione, investimento in ricerca, tutte cose su cui abbiamo perso fin troppo tempo.

BERNHARD SCHOLZ:
Grazie signor Ministro. Ma prima di ringraziare il Ministro vorrei invitare voi, visto che abbiamo parlato di investimenti, a far un investimento personale, privato nel Meeting di Rimini : facciamo una raccolta fondi perché il Meeting ha bisogno di esser sostenuto. Quindi vi chiedo, se potete, di dare un contributo. Le possibilità sono nei padiglioni C1 A1 A3 oppure andando sul sito del meeting www.meetingrimini.org. E’ un investimento per il quale vi ringrazio in anticipo, ma ringrazio in questo momento soprattutto il Ministro Padoan. Penso che questo applauso sia anche dovuto alla sua sincerità, perché un politico che chiama i problemi per nome, merita di essere ascoltato. Grazie

Data

26 Agosto 2015

Ora

11:15

Edizione

2015

Luogo

Salone Intesa Sanpaolo B3
Categoria
Incontri