INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

RADIOCRONACA DI UNA CRISI
Presentazione del libro di Antonio Preziosi, Direttore di Radio1 e GR Rai (Ed. RAI-ERI). Partecipano: l’Autore; Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.

A seguire:

LETTERA A MIA FIGLIA. Sull’amore e la vita nel tempo del dolore
Presentazione del libro di Antonio Socci, Giornalista e Scrittore (Ed. Rizzoli). Partecipano: l’Autore; Erasmo Figini, Presidente dell’Associazione Cometa; Andrea Marinzi, Sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo e Insegnante.

 

INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Ore: 19.00 eni Caffè Letterario A3
RADIOCRONACA DI UNA CRISI
Presentazione del libro di Antonio Preziosi, Direttore di Radio1 e GR Rai (Ed. RAI-ERI). Partecipano: l’Autore; Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.

A seguire:

LETTERA A MIA FIGLIA. Sull’amore e la vita nel tempo del dolore
Presentazione del libro di Antonio Socci, Giornalista e Scrittore (Ed. Rizzoli). Partecipano: l’Autore; Erasmo Figini, Presidente dell’Associazione Cometa; Andrea Marinzi, Sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo e Insegnante.

CAMILLO FORNASIERI:
Bene, cominciamo questo ultimo momento di suggerimenti alla lettura pensati dal Meeting di Rimini di quest’anno. Non poteva mancare, anche in relazione al messaggio che abbiamo ricevuto da Papa Francesco, un accenno e un incontro legato al tema della comunicazione, del giornalismo, dell’informazione: ce ne fornisce un prezioso spunto l’importante lavoro di Antonio Preziosi, direttore di Radio1 e del GR Rai, che è qui alla mia sinistra e che salutiamo con calore. Nel messaggio è sottolineato quanto sia importante, dal punto di vista educativo, della conoscenza, della sfida umana, tenere viva la propria umanità dentro le vicende del mondo, dentro le vicende della storia. E il libro edito da ERI-RAI, Radiocronaca di una crisi, con la premessa di Antonio Catricalà e la prefazione del professor Alberto Quadrio Curzio, è un intervento articolato di Preziosi che, tra l’altro, è un giornalista anche molto attento alla docenza, ha insegnato Teoria del Giornalismo e dell’Informazione alla Luiss di Roma e in altre varie università: anche per questo è stato nominato da Benedetto XVI, nel 2011, Consultore del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. Abbiamo con noi Giorgio Vittadini che ci introdurrà alla lettura di questo libro. Nel periodo della crisi economica, Preziosi ha inserito, all’interno del palinsesto radiofonico che dirige e dei GR che ben conosciamo e ascoltiamo, dei punti informativi importanti, in un momento in cui qualsiasi frammento, accento di notizia, era destinato ad avere un’eco e un’onda di propagazione tra l’Europa, il resto dell’Atlantico e l’estremo Oriente del mondo. Un momento in cui era messa alla prova, in modo molto forte, la serietà del giornalismo, il modo di dare le informazioni, da cui la scelta di inserire lo scorso anno, nello spazio del mattino, quel breve programma che si chiamava Prima di tutto, dove il professor Quadrio Curzio, che infatti ne parla nella sua Prefazione, era chiamato a spiegare l’abc, il lessico di queste parole che invadevano e distraevano anche la nostra attenzione, per cui la vita quotidiana, i giudizi, l’informazione stessa continuava a seguire queste parole senza poi magari raccontare la realtà. Tutto questo ha reso Preziosi più consapevole di come la bravura, la preparazione dei giornalisti, potesse essere un veicolo di informazione e di conoscenze tra i Paesi, a proposito di quel punto fragile della crisi che è l’Europa. Tanto che, proprio venendo qui, l’agenzia Agi, e anche altri media, hanno battuto questo suggerimento, la possibilità di un servizio pubblico radiotelevisivo europeo, nella ricerca di una maggiore coesione, dal punto di vista partecipativo, dal punto di vista normativo e anche degli interventi economici in Europa, per unire le forze del giornalismo, che vengono in fondo dalla stessa scuola, pur con accenti diversi da Paese a Paese. Il giornalismo di Preziosi corrisponde a un servizio pubblico: questo rende tutto ancora più interessante. Perché, dov’è il limite tra l’interpretazione e il pensiero del giornalista, certe accentuazioni e la neutralità del servizio pubblico? Le notizie non sono mai neutre perché sono fatti, e suggerirli in modo veloce e sintetico mette in luce sia il rischio dei nuovi media, che ripropagano le notizie e spesso le onde di una disinformazione, sia la possibilità di offrire uno spunto, degli interrogativi che aprono. Tutto questo con un mezzo, la radio, che ha certamente un timbro e una modalità particolari, forse un punto di ascolto e di serietà maggiore, proprio legato al semplice fatto che si sente e, in qualche modo, si riflette. Do subito la parola a Vittadini, poi Preziosi interverrà per raccontarci questo scenario. Grazie.

GIORGIO VITTADINI:
C’è da dire che questo è un libro sulla radiocronaca di una crisi e la radio è un mezzo che, paradossalmente, ha più futuro della televisione, essendo nato prima e apparentemente superato, dal punto di vista tecnologico. Oggi uno può più facilmente sentire la radio che guardare la televisione, perché la radio è qualcosa che accade mentre tu stai facendo qualcosa. Nel caso della trasmissione principe, almeno per chi è sportivo, ad esempio, Tutto il calcio minuto per minuto, ti dà l’idea dell’avvenimento molto di più di quello che ti fa percepire la televisione, perché la breaking news, che è il goal, è qualcosa che capita: ti permette di avere la percezione di una cosa che capita. Ricordo che abbiamo sentito dire, anche da Giussani, tanti anni fa, che sentire ti immette di più nell’avvenimento che neanche il guardare, perché guardare è bello ma potresti anche solo vedere. Mentre, sentire, ti costringe a sintonizzarti con un modo che è tutta la persona. Data questa premessa, il valore di questo libro è duplice, di contenuto e di metodo. Di contenuto, perché è un libro che racconta in qualche modo la crisi finanziaria, che anche noi abbiamo messo a tema in una mostra tre anni fa, difficile da raccontare perché, come abbiamo visto, è un evento così pieno di termini, così pieno di parole, che finisce per essere assolutamente incomprensibile. Che tocchi tutti, forse all’inizio, nel 2008, si aveva dei dubbi; ma nel 2013 è diventata una delle cose più impressionanti. Se anche noi facciamo fatica a trovare lavoro, se chi viene al Meeting si porta il panino da casa, invece di andare ai ristoranti o a mangiare la pizza, è perché la crisi finanziaria tocca tutti. Ma se uno deve poi descrivere che cosa sia, la crisi finanziaria, non lo sa. Sente parlare di spread. Allora il libro, nelle scansioni del suo percorso, diciamo dal capitolo 4 al capitolo 8 – informazione in tempo di crisi, la crisi finanziaria, la ripresa economica, l’Europa, la Grecia, l’economia e l’informazione – descrive che cosa è capitato e riesce, attraverso la radio, a farcelo capire. Perché quando tu sei alla radio, non hai grafici, non hai neanche le torte, non hai niente. Parlando, devi rendere comprensibile una cosa perché, sennò, uno spegne la radio o cambia canale. Con le parole, deve dare una rappresentazione di questa realtà. E allora Preziosi riesce molto bene a selezionare i termini, a descriverli, a metterli in luce, a posizionarli uno dietro l’altro. Questo è il primo motivo per cui leggere questo libro in termini di contenuti, una possibilità di una comprensione che, scritta, riporta però i termini della radio, cioè di parole che riescono a sezionare quello che succede. Perché voi capite che, per radio, se dici parole come spread, crunch, banche, crisi delle banche, devi renderle comprensibili perché evidentemente, o fai un canale tematico che si rivolge a pochi, oppure, come Preziosi, dirigi il canale più generalista di tutti, Radio1, e devi affascinare la gente anche su temi del genere. Questa mi sembra la prima cosa interessante. Ma la seconda è che lui declina la crisi sul secondo termine difficile, Europa: quanto sia difficile questo secondo termine, l’ho visto in questo Meeting in cui abbiamo presentato una mostra sull’Europa. Parlare di Europa è ormai qualcosa che sembra ancora più incomprensibile della crisi finanziaria. Che idea ha uno di Europa? “L’Europa uccide anche te, digli di smettere”, è questa l’idea: qualcosa che ha fatto raddoppiare il costo della vita perché un euro è il doppio di 1000 lire, che ha danneggiato l’economia. Questo è il pensiero comune. Allora, uno non ha in mente che l’Europa è quella che ti ha permesso il mercato unico, che ti ha permesso con la moneta unica delle possibilità che non avevi, che ha impedito la svalutazione competitiva con cui ce la cavavamo. L’Europa è questa cosa lontana, fatta di burocrati, di Consigli dei Ministri che appaiono ogni sei mesi ma di cui non capisci l’origine. Ecco, Preziosi rende popolare questo secondo termine. Ti fa capire questa dimensione della crisi che, da un certo punto in poi – perché l’inizio è tutto americano, l’inizio sono i bond legati alla casa americana – diventa europea, perché hai sentito parlare della banca europea, degli spread, degli aggiustamenti. Con questo libro, Preziosi ti porta vicino questo termine. Ti fa capire come, primo, non è vero che l’Europa è l’origine della crisi ma casomai è il termine dove si scatena come un lampo, arriva, secondo, il punto che può permettere di affrontarla. Quindi, ti rende popolare questo passaggio. E anche da questo secondo punto di vista, ti fa capire termini che sembrano difficili. Terzo aspetto di contenuto, quando parla della Grecia, ti fa capire un’altra cosa che non è chiara o che molti politici fanno apposta a non rendere chiara: o si salvano tutti o non si salva nessuno. Infatti, lui sviluppa questo termine dicendo: “La Grecia si può salvare senza euro? No, ma neanche l’euro si può salvare senza Grecia”. Come quando si parla delle ciliegie, se ne stacchi una, piano piano si staccano tutte. Se fai andare a mare anche qualcosa che sembra non essere determinante, come possono essere l’Italia o la Spagna per il panorama europeo, se permetti che una parte di questo vada in malora, prima o poi accade a tutti. Quindi, questi tre termini di comprensione del contenuto, dicono l’interesse a leggere il libro dal punto di vista di uno che voglia avvicinarsi alla crisi economica. Ma c’è una seconda parte, che è una parte di metodo, altrettanto affascinante: il ruolo dell’informazione. Anche in questo Meeting, ma non solo, mi rendo conto che c’è un’informazione che è militante, invece di essere, come dice Preziosi, etica, che non vuole dire neutrale, perché la neutralità non esiste, l’uomo c’è, giudica, e noi lo sottolineiamo. Ma c’è un’informazione militante che, invece di registrare, evidentemente dal punto di vista di una concezione, quello che avviene, cerca di farlo avvenire anche quando non c’è. E’ un’informazione militante, un’informazione che mette quello che racconti al servizio di un potente, fingendosi democratica e fa avvenire delle cose che non esistono perché il potente, alla greppia di cui mangi, facendo finta di essere un informatore democratico, ti fa raccontare le cose anche quando queste non avvengono o te le fa distorcere. Noi in questo Meeting lo vediamo bene, oggi parlavo con alcuni giornalisti: non c’è verso di raccontare che in questo Meeting arrivano dei musulmani, uno dei Fratelli Musulmani e l’altro no, che dialogano, degli ortodossi che dialogano con i cattolici, un ebreo che ti fa “il processo a Gesù” e un altro che ti fa la preghiera dei salmi comuni, un direttore de L’Espresso, de L’Unità che ti raccontano, interessati, pur venendo da ideologie diverse, questo Meeting. Non accade. L’unica cosa che interessa sono i concerti politici e solo con i politici, neanche cosa i politici raccontano del contenuto, ma se c’è o no la crisi di Governo, come ti posizioni sul problema di Berlusconi: tutto il resto non c’è. Mi diceva uno, neanche della carta stampata, che lui, volendo raccontare questo Meeting, si sente dire dal suo direttore: “Oggi dì che il Meeting è omofobo, oggi racconta del Meeting di Grillo”. E lui dice: “Guarda che qui non succede questo”. “Beh, tu raccontalo lo stesso!”. Allora l’informazione – è la seconda valenza del libro di Preziosi – ha una posizione etica, una posizione che fa comunicazione, non una modalità pressoria, in cui devi convincere della gente che in un certo punto avviene qualcosa che non avviene ma tu hai interesse a dire che avviene. Una comunicazione morbida o, come dice, sussidiaria, capace di raccontarti quello che c’è, di metterti davanti all’informazione. Questa è la seconda valenza del libro: dimostrare che puoi essere leale, che puoi vivere un’umanità, una non ideologia, che puoi uscire dall’emergenza uomo di un’informazione che deve essere militante ma al servizio di un potente, che puoi essere uno onesto anche quando fai il servizio pubblico. Non che non racconti le cose, la drammaticità delle cose e anche la contrapposizione delle cose, ma secondo una lealtà per cui la realtà è molto più complessa di quello che appare, e ci sono anche degli aspetti positivi che nascono, che avvengono, che crescono e che fanno notizia. Il secondo valore di questo libro è proprio questa diversità che può essere un valore sia per chi vive nell’informazione, sia per chi la riceve, per scoprire che ci può essere una dimensione che ha a che fare con quello che abbiamo imparato da Havel: c’è una vita nella verità e una vita nella menzogna, che riguarda anche la comunicazione.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie a Vittadini, adesso, Preziosi, ci racconti anche un po’ come, per una persona come lei che deve raccontare gli elementi anche drammatici, critici, di una situazione, il libro è stato anche un’occasione per rivedere questa professione, alcuni termini, inventare alcune cose, modificare, correggere. Prego.

ANTONIO PREZIOSI:
Intanto, grazie a Camillo Fornasieri, grazie a Giorgio Vittadini per le belle parole, ma soprattutto per gli importanti stimoli alla riflessione che hanno dato leggendo il mio libro e parlandone a voi, portandolo alla vostra attenzione. E’ un grazie che io sento ancora più importante perché, nelle parole di Fornasieri e in quelle di Vittadini, ci sono due concetti chiave, che poi sono quelli ispiratori del mio libro. Per risolvere la crisi economica, o quantomeno per affrontarla con consapevolezza ed ottenere gli strumenti necessari per superarla e vincerla, occorrono semplicemente due cose: più informazione e più Europa. E le parole che Vittadini, in particolare, ha voluto dedicare alla radio, a Radio1, al Giornale Radio, stanno a significare che probabilmente noi stiamo dalla parte giusta, con coscienza, con impegno, con determinazione. Abbiamo raccontato questa crisi agli italiani, a quello che io, nel mio libro, definisco “il cittadino editore”, cercando di renderlo consapevole, edotto su quanto stava accadendo, dirò citando una nostra celebre trasmissione, “minuto per minuto”. Ma io non voglio entrare nei contenuti del libro. Vorrei cercare, se ci riesco, in questi cinque minuti che ruberò alla vostra attenzione, di portare un contributo di riflessione in più affinché, andando via da questa sala, ognuno di noi possa portarsi a casa o negli stand che visiterà o nelle altre occasioni di incontro che avrà, un elemento di pensiero. Innanzitutto, la potenza della radio, questo strumento tecnologicamente antico, la cui morte era stata decretata da molti e molti anni. Chi di noi non ricorda la famosa canzone “Video Killed the Radio Star”, che teorizzava che l’arrivo della televisione avrebbe definitivamente ucciso la radio, la star radiofonica? Così non è stato. La radio vive non soltanto una seconda giovinezza, ma è lo strumento che, pur essendo tecnologicamente più antico, riesce meglio a cavalcare il nuovo e a fare informazione in maniera chiara, completa ed immediata. Tutto il calcio minuto per minuto, che Giorgio Vittadini ha citato, è una trasmissione che ha 53 anni. E nessuno ricorda che quella trasmissione l’ha inventata Sergio Zavoli che, 53 anni prima di tutti i canali moderni, le All News, e non cito nessuno per non fare pubblicità a nessuno, si era inventato un modello di All News incredibilmente moderno e attuale. Il campo, lo studio centrale, i campi collegati e, quando c’era il goal, la breaking news che interrompeva i collegamenti e dava la possibilità al cronista di entrare e raccontare quello che stava succedendo. Ma la giovinezza della radio riposa anche in un altro elemento importante: la dimensione dell’ascolto. C’è un documento molto bello, di Benedetto XVI, presentato in occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che ci invita a riflettere sull’importanza del silenzio. Uno dice: cosa c’entra il silenzio con la comunicazione? Eh no, il silenzio è fondamentale nella comunicazione, è quella dimensione dell’ascolto, è quello spazio che c’è tra chi parla e chi ascolta, che anche alla radio è fondamentale saper raccontare. Dall’ascolto, noi introiettiamo le nozioni che poi ci porteranno a dire con consapevolezza ciò che vogliamo fare, vogliamo dire. C’è stato un momento molto bello, nella elezione di Benedetto XVI che noi abbiamo raccontato in diretta a Radio1, scusate, di Papa Francesco, è stato il momento in cui Papa Francesco ha chiesto la preghiera di piazza San Pietro. C’è stato un momento molto lungo di silenzio, nel quale io che ero in studio ho detto ai colleghi giornalisti: stiamo zitti, facciamo ascoltare il silenzio. C’è stato uno di loro che mi ha detto: “Ma, direttore, alla radio, il silenzio…”. Facciamo ascoltare il silenzio. Ebbene, quel silenzio è stato un effetto radiofonicamente potentissimo e molte persone che hanno ascoltato quella diretta ricordano quei 30 secondi di silenzio che Papa Francesco ha chiesto alla piazza per chiedere la preghiera su di lui. La radio, quindi, l’importanza di questo strumento radiofonico. Prego.

CAMILLO FORNASIERI:
Incredibile, perché in televisione si sono messi a parlare sottovoce.

ANTONIO PREZIOSI:
Esatto, invece noi no, abbiamo fatto ascoltare il silenzio. E veniamo alla crisi economica. Più informazione, più Europa, ho detto con una sintesi volutamente giornalistica. E qualcosa di più di questi due concetti troverete nella lettura del libro. Ma appunto, volendo cercare di avere un momento di riflessione in più e volendo arrivare qui con uno stimolo nuovo, mi sono soffermato, arrivando nella sala, a guardare una fotografia di Papa Francesco a Lampedusa, che campeggia in uno degli stand che sono qui fuori. E mi è venuta in mente la frase di Papa Francesco dedicata alla globalizzazione dell’indifferenza, pronunciata appunto in occasione della visita a Lampedusa, la necessità di passare dalla globalizzazione dell’indifferenza alla globalizzazione della solidarietà. Ebbene, l’eliminazione delle frontiere, l’annullamento delle distanze, la possibilità di sentirsi parte di un progetto comune, sono tipici di uno strumento di comunicazione pulito come è la radio. E noi in questo troviamo l’anello di congiunzione, e non è un caso – ringrazio Camillo per averla citata – questa dichiarazione resa alla stampa poco prima di entrare in questa sala, che noi vogliamo con forza credere in un servizio pubblico radiotelevisivo europeo. Un servizio pubblico, cioè, che dia all’Europa un’informazione comune, un’informazione condivisa, partendo, appunto, dall’esperienza della crisi economica, partendo dalla necessità di comunicare a tutti i cittadini europei ciò che stava e che sta ancora accadendo. Più interazione, quindi, più Europa, più bisogno di un’informazione globale. Abbiamo bisogno di questo stimolo, abbiamo bisogno di questa sfida e la radio può essere l’embrione di questo servizio pubblico radiotelevisivo europeo, esattamente come la radio fu l’embrione della Rai, del nostro servizio pubblico italiano, di cui oggi ancora è parte importante e determinate. Ecco, questi sono gli elementi sui quali volevo lanciarvi uno stimolo. Di solito, uno legge un libro, e qui cito ancora Giorgio Vittadini, se nel libro si risponde in qualche modo ad una curiosità o si cerca uno strumento. Io ricordo quando ero ragazzino, avevo 15 anni, ero studente liceale in un paesino della Basilicata, Policoro, e conobbi un sacerdote che forse qualcuno di voi ricorderà, insegnava religione nel mio istituto, si chiamava don Tommaso Latronico. Don Tommaso Latronico mi incontrò e mi disse: “Ma tu che libri leggi?”. E io, per fare bella figura davanti a lui che aveva la fama di uomo colto, gli risposi: “Tutti”. La sua risposta fu: “Ma allora sei una fogna!”. Io rimasi colpito da questa sua provocazione. “Beh” disse “nella fogna finiscono tutte le cose che uno pensa che possano essere utili ma che invece non sono utili”. Ecco, nella ricerca, nella riflessione, nel libro, noi cerchiamo un’utilità, la soddisfazione di una curiosità, di un’esperienza di ricerca. Se siamo riuscita ad incuriosirvi, leggete Radiocronaca di una crisi, ma se non siamo riusciti ad incuriosirvi, ricordatevi comunque che Radio1 e il Giornale Radio cercano di fare servizio pubblico, come diceva Vittadini, con quella onestà, con quella chiarezza, con quella completezza, sempre dalla parte del cittadino editore. Grazie per la pazienza.

CAMILLO FORNASIERI:
Chiedo una battuta, un’informazione finale su due aspetti, quando citavi l’Europa che è fatta di situazioni, Paesi e persone. Noi sentiamo spesso che non si riesce a conoscere il tipo di vita o di reazione che le persone hanno, i corpi sociali, i segmenti della società, di fronte a certe decisioni, quale tendenza ci sia in un dibattito prima di una votazione, ad esempio. Come hai cercato di raccontare questo aspetto dei popoli con cui siamo insieme nell’Europa? Secondo aspetto, brevissimamente, questo embrione di network europeo: quali sono i tasselli decisivi per partire o l’attitudine da scardinare, perché credo che debbano cambiare alcune metodiche. Facciamo fatica a fare unione tra i Governi, che dovrebbe essere una specie di istituzione obbligante, una cosa più libera come l’informazione sembra essere ardua.

ANTONIO PREZIOSI:
La risposta è banale ma, come sempre, nella banalità si cela anche la verità. C’è un elemento di assoluta veridicità e trasparenza, il superamento degli egoismi. Qualunque cosa ci richieda lo stare insieme, richiede una privazione, qualunque scelta in quanto esercizio della libertà ci propone di rinunciare a qualcos’altro. Una radio europea, un servizio pubblico radiotelevisivo europeo, per quanto oggi possa sembrare una sfida complicata e difficile da realizzare, richiede a monte questa rinuncia e questa privazione. Io credo che questo sia un ruolo che oggi l’Italia può svolgere: ricordiamoci che dal 1 luglio 2014 noi saremo Presidenti dell’Europa e che questa opportunità ci ricapiterà tra 14 anni. E’ l’occasione buona, giusta, da non rimandare, per realizzare alcune idee e alcuni progetti. Se tra queste idee e questi progetti ci fosse anche questa idea e questo progetto, io credo che ne gioverebbero l’informazione, la comunicazione, la consapevolezza e l’identità europea.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, aggiungiamo anche la tenacia di professionisti che poi le cose le cercano e le realizzano come Preziosi. Quindi grazie del tuo contributo professionale ed umano e ringraziamo anche Vittadini degli spunti dati. Leggiamo il libro, è all’esterno della sala o in libreria. Chiamo gli ospiti della prossima presentazione. Grazie. Ciao Antonio.
Dunque, è l’ultima proposta di lettura, siamo in chiusura di questo ciclo. Il libro di Rizzoli che presentiamo, insieme all’autore e ad alcuni amici, è Lettere a mia figlia di Antonio Socci, Sull’amore e la vita nel tempo del dolore. Abbiamo con noi, ad aiutarci ad ascoltare le prime reazioni dovute alla lettura e alla condivisione della storia che Antonio racconta da qualche tempo, Erasmo Figini, Presidente dell’associazione Cometa, siamo contenti di ascoltarlo, e Andrea Marinzi, sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo, che è insegnante e adesso è a Bologna. Brevissimamente, il libro di Socci è una lettera, è come una lunga lettera fatta di diverse parti, una sorta di diario scritto di giorno in giorno, dove riaffiorano spunti della vita, di ciò che Antonio ha ascoltato nella sua esistenza e che desidera comunicare a qualcuno, desidera comunicare, credo, anzitutto a Caterina, alla quale vorrebbe raccontare tutta l’intensità che c’è nel mondo e che il fatto cristiano accende, illumina e fa vedere. Compaiono tanti testimoni di questo tempo, gli amici che qui presentano il libro, persone di altre città d’Italia, testimoni di che cosa sono i santi. Testimoni del fatto che una cosa interessante del potere è che permette tutto ma vuole impedire che cresca la coscienza e la maturità di quell’inizio. Quell’inizio ci può essere, anche perché è inevitabile – l’inizio della vita, l’inizio dello stupore, il miracolo, l’accadere di un altro, l’avvenimento di dolore o di letizia nella vita – ma che questo diventi un cammino, è il punto che inizia ad essere pericoloso. Di fronte al fatto di sua figlia, di fronte ai fatti che accadono, come abbiamo sentito in questi incontri del Meeting, andare fino in fondo è una cosa che dà un’intensità e una continuità che trasforma la vita. Non è semplicemente un discorso, anche sentito, anche partecipato, ma un cambiamento di sé. Questo cambiamento è raccontato e nutrito di tante parole. Io chiedo subito a don Andrea di raccontarci. Grazie.

ANDREA MARINZI:
Buonasera a tutti. Volevo dire che sono onorato di essere qui a presentare il libro di Antonio. Qualche tempo fa, il Superiore della Fraternità San Carlo, don Paolo Sottopietra, in un incontro con noi preti ha ripreso un testo di Giussani che è un commento a un episodio del Vangelo, un episodio che credo conosciamo tutti, è noto come l’unzione di Betania. Si racconta che una donna, forse la Maddalena, entrò senza essere invitata nella stanza in cui Gesù stava mangiando, si presentò di fronte a Gesù e davanti a lui ruppe il vaso di alabastro che aveva tra le mani e ne usò il contenuto, dell’olio prezioso, per profumare i capelli di Gesù. Vedendo questo gesto, dice il Vangelo, tutti i commensali si sdegnavano, erano infuriati contro di lei perché quel gesto appariva come un’assurdità, come uno spreco. Dicevano: se avessimo venduto questo olio avremmo potuto ricavarne molto denaro, avremmo potuto darlo ai poveri: sono convinti di essere di fronte a una donna pazza, fuori dal mondo, che non sa vivere. Ma in realtà, commenta don Giussani, in quella sala solo lei viveva, perché solo amare è vivere. La storia di Caterina è la storia di un vaso prezioso che si rompe, perché la sua malattia così improvvisa – Antonio fa notare il 12 settembre, facendo un paragone col crollo delle Torri Gemelle – è davvero come qualcosa di molto valido che sembrerebbe andare perduto, perché Caterina, almeno al momento, non può fare nulla di ciò che le sue coetanee possono fare. Come non gridare allo scandalo, come non dire è assurdo? Come non ribellarsi con rabbia? Per lo stesso motivo che ha spinto la Maddalena a rompere il suo vaso di alabastro: per la presenza di Gesù, per la bellezza di Gesù, di fronte al quale quel gesto non è più uno spreco ma un grande canto d’amore. Alla Maddalena non importava nulla dell’olio, a lei importava di Gesù, o meglio, le importava dell’olio per rendere lode a Gesù. Commenta ancora Giussani: “Amare veramente può apparire come uno sciupare se stessi, energie, tempo, calcolo, tornaconto e gusti”. Io credo che questo libro di Antonio sia una grande testimonianza di amore, una grande testimonianza di fede. Infatti, chi lo legge, insieme al dolore immenso che c’è in ogni pagina, respira la pace. E’ un libro pieno di speranza. Nella Prefazione, Antonio riporta la lettera di una ragazza che gli ha scritto così: “Gentile signor Socci, ho visto il suo libro in libreria, con quel bel sorriso in copertina, e parlando con il mio ragazzo gli ho detto della mia curiosità al riguardo. Devo averglielo ripetuto spesso, perché per il mio compleanno me l’ha regalato. Visto il sottotitolo” parla del primo libro, Diario di un padre nella tempesta “credevo che avrei letto cosa avete passato lei e la sua famiglia ma con mio stupore, fin dalle prime pagine, ho respirato non disperazione ma la sua fede incrollabile, di cui è impregnato tutto il libro. Ho riscoperto il significato della preghiera e ho fortemente sentito l’amore di Dio per me”. Forse qualcuno sa che quando Caterina è stata male, poco tempo dopo, la famiglia Socci, per ragioni mediche, si è trasferita a Bologna per un anno e mezzo, due anni, quasi. Così ho potuto conoscere il terzo figlio della famiglia, qui presente, Michelangelo, ho avuto il grande onore di essere il suo professore – lui faceva la seconda media – di religione in seconda e terza media. Un ragazzo brillante, sebbene ascolti cattiva musica, che non è mai stato con me di grandi discorsi, anche se si capisce che sa cogliere il valore delle cose. Una volta gli ho domandato notizie circa la salute di Caterina e poi gli ho chiesto: “Come sta tuo padre?”. E lui mi ha risposto: “Sicuro”. Come si può essere sicuri di fronte all’imprevedibilità di Dio, che porta la tua vita lungo traiettorie che tu non puoi immaginare, a volte molto dolorose, quando sembra chiederti davvero tutto? Soltanto se si ha la confidenza in lui che nasce dall’amore. Ci penso spesso, guardando i miei ragazzi, insegnando specialmente alle medie. Tante volte, alla fine dell’anno, in terza media, questa sensazione, questo magone che ti prende perché tu non sai cosa sarà di questi figli, e ti prende l’ansia, la preoccupazione, l’angoscia. D’altronde, anche quando li hai fra le mani ti accorgi che tu non sei capace di compiere la loro vita come vorresti, e che la loro vita va dove tu non puoi immaginare. Come non tremare di fronte a questo? Soltanto per la confidenza che nasce dalla fiducia in Lui. Quando Gesù parla dei bambini, dice: “Guai a voi se fate scandalo a uno solo di questi piccoli”, e spiega il perché, “perché il loro angelo che è nei cieli guarda sempre la faccia dell’angelo mio che è nei cieli”. I bambini, i ragazzi e noi siamo suoi, siamo legame con Lui, e questo riempie di pace. Qualche tempo fa è venuto al ricevimento genitori, a scuola, il padre di un mio ragazzo di seconda media, preoccupatissimo per il figliolo. Mi ha spiegato il perché. Vedeva suo figlio eccessivamente sensibile al dolore, alle sofferenze del mondo, lo aveva sorpreso commuoversi nell’ascoltare qualche notizia dolorosa alla radio o in tv, lo avevo visto asciugarsi le lacrime dopo aver incontrato un mendicante al semaforo, e poi lo aveva visto impegnato in gesti assai generosi: per il compleanno, aveva chiesto di non ricevere regali perché i soldi fossero usati per le adozioni a distanza. Ha scoperto che spesso regalava la merenda ai compagni anche quando questi non gliela chiedevano. Dunque, questo genitore mi raccontava e diceva: “Evidentemente mio figlio è troppo stressato, il suo carico di lavoro è eccessivo, occorre che la scuola alleggerisca il carico dei compiti”. Naturalmente, io ho reagito dicendogli: “Ma guardi che noi non sappiamo che iniziativa Dio sta prendendo con questo ragazzo, non sappiamo se Dio voglia fare di lui un nuovo san Domenico Savio, una nuova Giovanna d’Arco”. Quando gli ho detto così, il padre si è fermato e ha sorriso, perché ha come riscoperto una grandezza di suo figlio che si era scordato. Dopo, abbiamo dovuto affrontare il problema, perché in effetti c’era e c’è un problema anche piuttosto grave. Però, quando poi il babbo è tornato per aggiornarmi, pur sapendo che c’era un problema molto grave, aveva il cuore pieno di pace, perché noi possiamo guardare i nostri figli e i nostri ragazzi senza angoscia quando ci ricordiamo che, prima di essere nostri, sono di Dio. “Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono i miei giorni”, dice il salmo 31. Quando tu ti ricordi che la vita di tua figlia è nelle mani di Dio, non è vero che tutto diventa facile ma tutto si riempie di pace. Il contrario della pace non è la guerra, perché un genitore che ha la figlia ammalata, e lo si vede a ogni riga, è veramente in lotta, fieramente in lotta. Il contrario di pace è paura. La paura ti viene quando non sai se ciò che sta accadendo a tuo figlio è per il suo bene, cioè quando ti dimentichi che Gesù è morto per tuo figlio. Dice don Giussani, cito l’ultimo libro: “La pace è data dal fatto che la mia vita è guardata, scelta, posseduta, abbracciata, sostenuta da una forza vittoriosa, da una forza più grande della mia debolezza”. Ho imparato questo, e nel libro di Antonio ho trovato una grande testimonianza, una grande conferma di questo, che la tua vita è abitata non dalla paura ma dalla speranza, e che rispetto ai più piccoli non hai un progetto, ma hai una grande curiosità. Hai proprio la curiosità di vedere “chissà il buon Dio che cosa combinerà con questo ragazzo che sembra così disgraziato?”. Dopo sette anni a Bologna, ho il piacere di vedere alcuni ragazzini, ragazzini quando li ho conosciuti io, che adesso sono diventati degli uomini di 21, 22, 23 anni. Di tutti loro potrei dire: “Caspita, ma chi l’avrebbe mai detto, chi l’avrebbe detto che Caterina avrebbe toccato il cuore di così tanti uomini? E chi avrebbe detto che l’avrebbe fatto in questo modo, immobile in un letto?”. E così il padre, l’educatore, è quello che vuole stare in prima fila per vedere, che vuole vedere Dio che apre il sipario per mostrare lo splendore della scena, che vuole vedere che pianta diventerà quel piccolo seme che ha davanti. A me è piaciuto molto – chissà se posso accennare a un altro libro -, mi è piaciuto da matti l’ultimo romanzo di Paola Mastrocola, si intitola Non so niente di te. E’ la storia di una famiglia dove i genitori vogliono fare del figlio grande, Phil, un grande economista. Dunque lo iscrivono, a prescindere dal suo parere, all’università Bocconi di Milano, poi a un corso ad Oxford, poi a un master a Londra o in America: soltanto che il figlio non vorrebbe fare quello, scopre che vuole fare altro e non ha il coraggio di dirlo. Fino a quando, però, non potendone più, si inventa una vita diversa, finge con i genitori di essere in posti dove non è, di fare cose che in realtà non fa. Suo padre lo cerca, quando si accorge che ha fatto perdere le sue tracce, lo cerca perché gli vuole bene anche se non lo ha mai capito. Il figlio pensa spesso al padre, sebbene non sia in grado di parlagli, ma finalmente si decide a scrivergli una mail che poi non gli invierà. Nella mail scrive così: “Non hai nessuna colpa, hai fatto tutto bene, papà, hai voluto sempre il meglio per me ma forse è proprio questo, un genitore non sa cos’è il meglio per suo figlio, non lo può sapere. Come potrebbe, è Dio? Legge nella sfera di cristallo? No, è solo un genitore e allora dovrebbe starsene a guardare, in silenzio, con grande calma. Un po’ come si sta davanti al mare, a guardare il mare, accompagnando le onde con lo sguardo, una per una”. Poi aggiunge: “Dovreste essere curiosi, voi genitori, molto curiosi dei figli, dovreste morire dalla curiosità di vedere dove diavolo andrà a finire quella linea spezzata che è partita da voi. Invece siete così privi di curiosità, voi genitori, peccato”. C’è in questa posizione, per me, il cuore della testimonianza di Antonio e di sua moglie, che è la posizione di chi si affida a Dio. Antonio parla di una santa insicurezza. Scrive così: “Perdute tutte le nostre sicurezze umane, le cose che più amiamo ma soprattutto i nostri progetti e i nostri tempi, come gli antichi pellegrini ci siamo messi in cammino. Questa santa insecuritas, questa precarietà, è diventata un grande passo della nostra conversione”. Mi sono domandato, come si può conquistare questa posizione di abbandono sofferente eppure lieto? E per me, qua, non dobbiamo girare troppo intorno al problema, può essere fiducioso in Dio soltanto l’uomo che prega. Don Massimo, monsignor Camisasca, Vescovo di Reggio Emilia, ama dire che sperare significa entrare nel punto di vista con cui Dio guarda le cose. Perché, dal punto di vista umano, la storia di Caterina fin qui è un fallimento, ma dal punto di vista di Dio è un’altra cosa. E come può uno uscire dal proprio sguardo, sempre calcolatore, senza pregare, senza mettersi lì in ginocchio davanti a Dio in silenzio, portandogli ogni giorno la propria vita, le proprie domande? Io ringrazio tanto la mia Fraternità che, tra virgolette, mi costringe ogni giorno a dire la messa, a pregare coi salmi e a fare un’ora di silenzio. Quell’ora di silenzio è la più preziosa della mia giornata, ed è la prima cosa che confesso quando non la faccio. Ci hanno insegnato a fare il silenzio cosi, ad andare possibilmente in cappella di fronte al tabernacolo e a stare dieci minuti, un quarto d’ora in ginocchio, magari dicendo il rosario, e già fare quello ti cambia, perché ti ricorda che tu hai bisogno di tutto. E dopo un’ora da solo con Gesù, io all’inizio dicevo un’ora in cui tutto il mondo è fuori, in realtà è un’ora in cui tutto il mondo è dentro. E ti accorgi che ogni Ave Maria del tuo rosario è piena dei nomi, delle facce dei tuoi amici, di Caterina, delle persone che hanno bisogno e poco alla volta si apre nel tuo cuore una misura nuova. Certamente, questo libro mi ha anche ricordato, come quello che è successo ad Antonio, che per uscire dalla misura nelle nostre giornate occorre dedicare del tempo alla preghiera. Come potrebbe un uomo che non prega scrivere quella lettera che c’è alla fine del libro? Antonio scrive così, parlando a sua figlia: “No, la felicità non si è scordata di noi, la felicità è sulla strada, sta tornando. Ci ha già fatto arrivare i suoi messaggeri e io andrò a cercarla affinché non si attardi. Chiederò ai venti di aiutarne il cammino, alle stelle di segnarle la via, incaricherò la luna di non farla assopire. Colui che ha promesso, Colui a cui sei cara, manterrà la sua parola, perché essa non può fallire. Mentre noi che apprendemmo un po’ di umiltà dal dolore impariamo ora la saggezza del tuo silenzio, Caterina. Non finirò mai di ringraziare il Cielo di averci dato una figlia come te e per averti ridonata a noi, quando sembrava che ci fossi stata tolta, e sono certo che il più bello dei mari è quello che non navigammo, i più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti, e quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto”. Finisco. In una pagina del suo diario, che Antonio riporta nel libro, Antonio scrive cosi: “In questi mesi di pessime notizie sembra che il Signore mi tolga tutti i possibili punti di riferimento umano, ogni sicurezza. Vuole che capiamo che Lui solo è la roccia su cui poggiare, l’unico in cui confidare”. Leggo in queste parole, in tutto il libro, una cosa che desidero tantissimo per me, una freschezza giovanile, una leggerezza, a me piace questa parola. La leggerezza di chi si affida in Dio, si affida a Dio. Tutti i santi hanno questa leggerezza, santa Teresina, san Francesco. I santi sono proprio quelle creature leggere che si fanno portare da Dio. Ha scritto una volta Mounier: “Dio non vuole gente che abbia delle virtù, ma fanciulli che Egli possa prendere come si solleva un bambino in un momento perché è leggero e ha grandi occhi”. Chiedo a Dio per Antonio, per la sua famiglia, per me e per tutti noi, di essere sempre esistenze lievi, portate da una grande speranza. Grazie.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie, Andrea. Ascoltiamo Erasmo.

ERASMO FIGINI:
Devo dire che questo libro mi ha molto provocato, perché dopo l’incontro a casa, quella sera, un incontro particolarmente vero, ci siamo incontrati la seconda volta. La lettura di questo libro mi ha provocato perché mi ha ridato l’opportunità di ripercorrere un po’ tutta la mia vita, che in qualche modo ritrovo nel libro. C’è un libro che ci affratella, credo, non per quei due capitoli che ci hai dedicato ma per tanti aspetti. Vedo i nostri figli seduti insieme in prima fila, scopro che Caterina ha incominciato a parlare il giorno del mio compleanno, sono piccoli segni. Però l’aspetto, le parole che mi hanno più colpito, perché sono le stesse parole che io dissi quasi trent’anni fa, le ho trovate nella penultima pagina, dove tu dici, ripeti un verso: “Non servono più le stelle, spegnetele anche tutte. Imballate la luna, smontate pure il sole. Svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco, perché ormai nulla può giovare”. Ecco, questo parole pronunciate ormai quasi trent’anni fa: per me, l’inizio fu veramente un grande dolore ma a distanza di trent’anni, come ho già detto più volte nelle mie testimonianze, dico grazie a questo dolore, un dolore permesso da Dio per introdurmi al vero significato della vita. Tant’è vero che la prima volta che ho avuto l’opportunità di incontrare Giussani, avevo tante domande da porgli ma la più prepotente di tutte era quella sul dolore. E lui, ricordo che me l’ha spazzata via velocemente, dicendomi: “Erasmo, tutto è positivo, tutto concorre al bene. Il dolore è la sapienza del cuore, perché fa domandare in ogni istante. Questa è la posizione vera per l’uomo, quella del mendicante”. Poi ha aggiunto: “Il cambiamento del cuore, la ricerca della verità è faticosa per ogni uomo, però ti fa abbracciare Colui che è verità e vita”. Ecco, prima di questo incontro, io chiaramente rifiutavo il dolore e non desideravo assolutamente la paternità. Queste parole, però, che ancora oggi mi accompagnano, devo dire che hanno segnato l’inizio del lavoro più acuto della mia vita. E questo dolore mi ha fatto capire che la paternità non è essenzialmente né parola né azione, ma è presenza. E’ quella che tu tiri fuori nel tuo libro. Ho capito che l’esperienza del dolore, del perdono e della misericordia sono dentro, sono insite nella paternità. Il padre, ho scoperto che è colui che non porta sé ma introduce al senso della vita, insegna al figlio a vivere la realtà, diventando così un testimone ideale. E qui, mi viene in mente una storia: il secondo figlio che ho in affido, dopo aver fatto il liceo, allettato da una promessa di guadagni più facili, scappa una notte di casa e dopo due mesi ritorna, insulta, una discussione molto forte, mi aggredisce dicendo: “Mi hai dato una coscienza con la quale non posso più fare il cazzo che voglio”. E poi scappa, ritorna a Torre Annunziata. E lì, io non l’ho mai abbandonato, l’ho sempre seguito con telefonate, ecc. E lo vedevo, lo sentivo irrequieto, fino a che, a un certo punto, sentendolo diradare, e visto che non voleva più che io andassi a trovarlo, ho pensato una cosa. Mi aveva scritto una bellissima lettera, durante una vacanzina estiva di GS, dove parlava dell’incontro che lui aveva fatto con Cristo e ringraziava per questo: ho deciso di ingrandire questa lettera, tre metri per due e qualcosa, m’era costato anche un botto spedirla con l’attracco a Torre Annunziata: lui è stato obbligato ad aprire questo manifesto in piazza, credo, o nella via. Da quel momento lì non mi ha più chiamato, dev’essere successo un casino infernale. Però, cos’è accaduto? Dopo due anni, non potendo più comunicare con lui, cosa mi rimaneva da fare se non affidarlo? Per cui, tutte le sere entravo nella cappellina che abbiamo a casa, e davanti al Santissimo, alla Vergine, dicevo: “Non posso più fare niente, come padre, questo tuo figlio te lo affido, non fare che si perda”. Dopo due anni mi telefona e mi dice: “Erasmo, io non ho solo bisogno di un lavoro onesto, che voglio intraprendere, aiutami a cercarlo, ma ho bisogno di ritornare, ho bisogno di paternità, ho bisogno di un padre”. E qui mi ricordo un’altra frase che Giussani mi aveva detto: “I figli devono riposare sulle nostre certezze”. Allora ho pensato: “Ma cos’è questa certezza, alla fine, se non l’unica certezza, la Fede?”. I figli devono vedere la nostra certezza di fronte alle loro ribellioni. E dopo, dopo trent’anni di lavoro e di cammino, Lui, con la “L” maiuscola, chiaramente, mi fa rivivere, mi ha dato l’opportunità di rivivere la stessa esperienza ma questa volta alla luce della Sua presenza, mi ha dato l’opportunità di redimere quell’antica ribellione, quel rifiuto al dolore. Che cosa è accaduto? Mi hanno telefonato i servizi sociali, chiedendo a me e a mia moglie Serena se ce la sentivamo di accompagnare alla morte una piccola bambina nata cerebrolesa che, per una malattia degenerativa, avrebbe potuto vivere al massimo due anni. Ecco, in quel momento ho capito anche che ciò che accade di doloroso nella vita fa emergere la natura del padre, che non è che diventi più padre se soffri di più: ma in questa attesa, apparentemente inerme ma ricca di domanda e di significato, è accaduto che quell’esperienza di paternità che stavo vivendo in quel momento mi ha portato a comprendere ancora di più la natura stessa dell’esperienza, cioè questo amore gratuito, amare gratis, no?, che è ontologico nella paternità, è insito nella paternità; è dentro la nostra natura. E così, dopo la morte di Chicca e il suo funerale, dove c’erano più di quattrocento amici, ho compreso che la vita nasce nel dolore e finisce nel dolore ma aprendosi alla vita. Si viene dal Padre e si ritorna al Padre. E non è una questione né di tempo né di spazio né di qualità, all’origine, come dicevo prima, è una questione ontologica, perché assistendo alla morte di questa bambina – Serena l’aveva tra le braccia e io le tenevo i piedini -, in quest’ultimo sguardo, con questi occhi che si dilatavano e questo primo sorriso, mai fatto prima, quegli occhi e quel sorriso per noi sono stati lo specchio del Paradiso. Sono stati la certezza, la riconferma della prima certezza, dell’esistenza del Paradiso. E così passando il tempo, come prima e anche dopo la morte di Chicca, il susseguirsi di tutte quelle accoglienze, iniziate anni fa con mio fratello e che oggi vedono coinvolte numerose famiglie di Cometa, tutto questo lavoro ha riempito sempre più di significato e di verità l’esperienza di essere padre, svelandola nella sua vera natura, insisto su questo punto, che è la “passione per il destino per ogni uomo”, questo amore gratis, che sperimento ultimamente anche in un altro gesto che ci hanno chiesto, quello di accogliere bambini neonati, bambini di qualche giorno, bambinetti di qualche giorno, accoglierli così come sono, amarli per quello che sono e dopo un anno e mezzo, anche due, consegnarli nelle braccia dei genitori adottivi. Ecco, qui sperimenti proprio questa natura, questo amore gratis che è insito nella paternità. Giussani ci diceva: “Ragazzi, l’avventura della vita è la passione per ogni uomo”. Ho voluto mettere queste parole all’ingresso della nostra scuola, per dire ai ragazzi, per far comprendere ai ragazzi la verità della nostra… la verità. Sì, l’avventura della vita, proprio come diceva lui, è la passione per ogni uomo, essere padri significa guardare la realtà, come la guarda il Mistero che la fa tutti i giorni. No, Eric?, stamattina cosa ti dicevo? Ma chi è ‘sto padre, chi è il padre? Secondo me, sono certo, il padre è colui che generando accoglie, ama, educa, accompagnando l’ospite, cioè il figlio – naturale, adottato o in affido, non ha importanza – con autorevolezza al senso della vita, al suo destino. E vi garantisco che con Chicca il destino non è stato certo una parola. Ecco, in tutto questo, il primo “sì”, che tu mi hai fatto ricordare, Antonio, il primo “sì” si ripete in ogni istante ed è lasciato alla tua libertà ripeterlo in ogni istante. Questa esperienza, l’ultima che vi ho raccontato, e tutte quelle che potrei raccontarvi per ore, fanno desiderare sempre di più che il mio io cambi e, cambiando il mio io, cambi l’io delle persone che mi stanno accanto, o almeno fa desiderare a queste persone di cambiare. Ecco, il segnale di questo inizio di gratuità per me è quando ho iniziato ad avere simpatia per tutto quello che incontro, perché la verità è la vera amica di tutti. Per cui, caro Antonio, ti ringrazio, ché mi hai fatto lavorare leggendo il tuo libro, rendendo sempre più certa la mia fede, sempre più pieno di gratitudine per Colui che ha preso il mio cuore e la mia vita, cioè per Cristo. Per cui, sono io che ringrazio te per avermi regalato il libro, per l’incontro che ho avuto con te, per questa storia che ci avvicenda, per questa gratuità tua e di tua figlia e per tutto quello che ho cercato di trasmettervi questa sera.

ANTONIO SOCCI:
Allora, ciao, buonasera a tutti. Queste due perle preziose delle testimonianze di Andrea e di Erasmo sono l’esempio dei tesori che noi abbiamo quotidianamente, che chi ha disegnato il nostro cammino ci ha fatto trovare sulla strada in questi quattro anni. E il libro parla di questi tesori qua. Non parla, questo libro, di Caterina: la vicenda di Caterina è ancora un mistero che io, ancora, forse, sto cominciando a capire adesso, dopo quattro anni. Non l’ho spiegato bene nel libro, ma la vicenda di Caterina è una vicenda di resurrezione, non metaforica ma di una persona che era morta e che Gesù, che può tutto, ha riportato alla vita. Esattamente come la bambina, figlia di Giairo, Talità Kum, esattamente in quei termini. Questa è storia che andrà ancora tutta raccontata, anche nel suo mistero, ma veramente, credetemi, non nel senso metaforico in cui anche io, in fondo, per un po’ di tempo l’ho detto. Diciamo in fondo, poi era un referto clinico, perché il medico del 118 che ha soccorso Caterina, a un certo punto ha telefonato all’ospedale e ha detto: “No, non portiamo più la ragazza perché è deceduta”. Quindi, questa è una storia ed è un mistero che ancora ci riempie di stupore e che però, poi, ci ha consegnato un cammino in cui ci chiede tanto amore e ci chiede di convertirci. E’ un cammino anche molto duro e drammatico. Ma in questo cammino, queste sono le perle e le carezze di cui noi siamo stati colmati: e se avete sentito queste due testimonianze, potete capire perché a me piace raccontare questi quattro anni con una immagine di un’antica omelia di don Giussani, del don Giussani giovane, credo avesse poco più di ventisei anni, un’omelia che è stata pubblicata recentemente da Tracce. In questa omelia di Santo Stefano, don Giussani diceva, ed è la fotografia di quello che noi abbiamo vissuto: “Lezione di sacrificio, quella di Natale e Santo Stefano. Ma qual è il mezzo per poterla vivere? Ce lo indica santo Stefano con la sua appassionata dedizione al Signore Gesù. Si potrebbe esprimere così: non bisogna sentirsi da soli. Quando due sposi fedeli si sentono l’uno vicino all’altro, quando i genitori si sentono vicini ai loro figli e i figli accanto ai genitori, la loro forza davanti al sacrificio non è forse centuplicata? E quando degli amici veri si sentono solidali e compatti nel loro ideale, la loro forza davanti ad ogni ostacolo non si ingigantisce a dismisura? O fratelli, e sposo, e genitore, e figlio, e amici, altro non sono che un’espressione sensibile di Cristo Benedetto, l’invisibile ma vero sposo e padre e madre, figlio e amico, sempre desto accanto a noi con affetto infinitamente premuroso per sostenerci con la sua forza divina”. Questa immagine è esattamente la nostra storia di questi quattro anni, tanto è vero che mi piacerebbe che qui, al posto mio, insieme ad Erasmo e Andrea, ci fossero le tantissime persone che sono state per noi questa “carezza del Nazareno”, in mille forme e in mille modi. Ma anche perché è una di quelle situazioni estreme in cui è evidente che non puoi niente senza Gesù, non puoi letteralmente viverla, una certa condizione, senza Gesù, ma questa è soltanto la verità di tutta la vita, la verità di tutte le giornate, la verità di tutte le condizioni, anche quelle apparentemente senza problemi. La verità è che la vita non si può vivere senza questa vicinanza di Gesù accanto. L’altra cosa che vi volevo dire, e che sta anche dentro l’emozione e il brivido delle cose che hanno detto loro, è che questo abbraccio premuroso, come dice don Giussani, del Nazareno, questa carezza e questo sostegno continuo, ha avuto l’aspetto di una fratellanza sempre disponibile e sempre calorosa, ma con dentro la traccia, come si sentiva anche prima, dalla loro testimonianza, di un fuoco, che è la cosa più grande, bella e preziosa che io nella mia vita ho incontrato e che voglio e vorrei conservare. Di questo libro, la cosa che mi piace di più è la copertina, è la faccia di Caterina, perché questa è proprio la sua faccia, la sua anima. Ed è una faccia che io ricordo e conosco molto bene, perché mi è capitata e mi capita di vederla molte volte anche adesso, quando le parlo di tanti amici, quando le parlo delle storie dei nostri santi, in terra e in cielo. L’ho vista tantissime volte in questa storia, nella storia del nostro popolo, della nostra gente. Allora volevo concludere con un’altra immagine che è questa. Una persona a me molto cara, nei giorni scorsi, mi ha mandato un sms molto lungo, una citazione di Jack Kerouac, che a me è molto caro, è un autore maledetto, che io amo non tanto per il suo libro On the Road, che è il libro che lo ha lanciato e, attraverso di lui, questo grido di trasgressione per cercare se stessi, ma l’uomo, soprattutto, che è il Kerouac dei diari, quello che è il Kerouac intimo, quello che era sempre rimasto cattolico e che alla fine l’ha riportato nella chiesa della sua infanzia a bearsi, come la racconta lui, per ore delle vetrate con i suoi santi. Il Kerouac che nell’ultima intervista al New York Times rispondeva alla domanda sul suo movimento Beat: “I’m not a beatnik, I am a catholic”, il Kerouac che diceva: “Non c’è abbastanza da desiderare sulla terra”. Il Kerouac che sognava i monaci del Medioevo. E però, nel libro On the Road, c’è questa frase che per lui ha un significato un po’ incasinato ma che, invece, descrive molto bene la mia esperienza, forse anche quella di qualcuno di voi: «A quel tempo danzavano per le strade come pazzi e io li seguivo a fatica, come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, pazzi di voglia di vivere di parole, di salvezza. I pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno: “Oh!”». Ecco, non so voi, ma io ho seguito e continuo a seguire questi pazzi, questi che bruciano così, perché quello che ha acceso questo fuoco duemila anni fa, bramava di accendere questo fuoco nel mondo. E allora penso che bisogna tener care queste presenze che portano il suo fuoco oggi fra noi. Prima, girando fra gli stand del Meeting, mi ha commosso trovare lo stand di Giovanni Testori, che è uno degli amici della nostra storia, in cui è stato molto evidente il sentire questo fuoco. Vi leggo solo una frase sua, dice: “Guardaci”, si rivolge a Gesù, “punta i tuoi occhi su questi stracci che ti bestemmiano, su questo niente che ti reclama. Te lo chiediamo con lo strazio delle nostre ossa e delle nostre carni finite. Liberaci dalla nostra carne, liberaci dal nostro sangue, liberaci dalla nostra morte o distruggiti anche tu nella nostra carne, nel nostro sangue e nella nostra morte. Ci senti? E allora liberaci, Cristo, liberaci!”. Ma insomma, di maestri così e di amici così ne abbiamo tanti, io ne ho incontrati tantissimi, abbiamo avuto e abbiamo la fortuna di essere concittadini dei santi, di aver mangiato e bevuto con i santi, e questo è quello che rende eroico il cammino nel quotidiano. L’ultima cosa che voglio dire è che per portare dentro questo fuoco non è necessario fare cose anomale o anormali o grandiose: voi vi ricordate che Gesù nel Vangelo a un certo punto usa una metafora impressionante, ché parlando del Regno dei Cieli dice che, per guadagnarlo, basta un bicchiere d’acqua? E’ impressionante, no? Vi ricordate quando dice: “Chi avrà dato un solo bicchiere d’acqua per amore mio a uno di questi piccoli”, no? E’ impressionante questa cosa, perché saremo giudicati su questo, sulla carità. E allora voglio concludere con un’altra cosa che ho trovato al Meeting di quest’anno, in un altro luogo di grande ardore e di cuori infiammati, che è lo stand dei martiri del comunismo, in cui uno dei martiri, il Vescovo Afanasij, scrive: “Tutto ha un senso, un significato e uno scopo. Non concepisco la possibilità che esistano gesti o persone inutili, non c’è uomo che almeno una volta nella vita non abbia servito qualcuno. E se ha servito, è per questa opera buona che è la vita che gli fu data. E se qualcuno in tutta la vita non ha offerto nemmeno un solo bicchier d’acqua, qualcuno l’avrà offerto a lui. Allora significa che il senso, che l’utilità di quella vita è tutta nel fatto che un altro ha potuto fare del bene grazie a lui”. Grazie a tutti voi. Grazie sul serio.

CAMILLO FORNASIERI:
Il senso di gratitudine che esprimiamo è la parola più sintetica, forse con un solo accenno di un coraggio che abbiamo sentito, un coraggio che viene dal fondo di noi stessi, quando abbiamo sentito le testimonianze di questa sera: e cioè che l’umano in noi è sempre rifatto da qualcuno e l’opera più grande che noi possiamo fare è quella di accompagnarci a quest’opera di rifacimento dell’umano in noi, nel modo con cui sceglie di farla, nel dolore e nella quotidianità e nella vita, come abbiamo sentito. Quindi, ripensare a questo “sì” ripetuto, questo tenere all’umano che è possibile, mi colpisce. Grazie davvero, Antonio e grazie ad Andrea Marinzi e a Erasmo per la loro opera.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

23 Agosto 2013

Ora

19:00

Edizione

2013

Luogo

eni Caffè Letterario A3
Categoria
Testi & Contesti