GIUSEPPE VERDI: RELIGIONE E FEDE. Letture, musiche e dialogo

Giuseppe Verdi: religione e fede. Letture, musiche e dialogo

Partecipano: Egidio Bandini, Giornalista e Presidente Club dei Ventitré; Adriano Contestabili, Amministratore Parrocchiale a Roncole Verdi; Corrado Medioli, Fisarmonicista. Introduce Michele Brambilla, Vice Direttore de La Stampa.

 

MICHELE BRAMBILLA:
Io sono Michele Brambilla, Vice Direttore de La Stampa e farò una breve introduzione a questo incontro su un tema abbastanza inconsueto, che è la religiosità in Giuseppe Verdi. Di solito di Verdi si parla per tanti motivi ma non per la sua religiosità. Ne parleranno oggi i nostri relatori che sono: Egidio Bandini, Presidente Club dei Ventitré, cioè l’Associazione degli amici di Giovannino Guareschi, che l’anno scorso ha parlato qua con Giorgio Vittadini e i figli di Guareschi del rapporto tra Giovannino Guareschi e Iannacci; don Adriano Contestabili, parroco della chiesa di san Michele a Roncole Verdi, il Paese natale di Giuseppe Verdi; il maestro Corrado Medioli, che vi farà sentire dei brani di Verdi. Il mio compito è quello di introdurre, ma io vorrei farlo cercando di trasportarvi tutti idealmente in un luogo, perché non si può capire Verdi se non si parte dalla sua terra. Verdi diceva di sé: “Sono e sarò sempre un paesano delle Roncole”. Roncole, che adesso si chiama Roncole Verdi, è una frazione di Busseto, provincia di Parma, quindi stiamo parlando di parmensi, non parmigiani, che sono i cittadini di Parma e guai a confonderli. Roncole Verdi è un Paese dove si concentrano almeno due grandi genialità, una appunto è quella di Giuseppe Verdi che nasce in una piccola casa, che potete ancora visitare e che sta esattamente a fianco, parlo proprio di pochi metri, della casa che Giovannino Guareschi aveva trasformato in un ristorante e che oggi è la sede del Club dei Ventitré, gli amici di Giovannino Guareschi. Quindi ci sono due grandissimi protagonisti, uno dell’Ottocento e l’altro del Novecento, della cultura italiana che stanno a pochi metri uno dall’altro e respirano l’atmosfera, l’anima, il clima di questa terra particolarissima che è la Bassa. Di fronte alla casa natale di Giuseppe Verdi c’è questa chiesa di san Michele, di cui è parroco don Adriano, che è una delle due chiese in cui Giuseppe Verdi bambino ha cominciato a suonare l’organo. Il prete, il parroco di san Michele, che non era all’epoca don Adriano, capisce che questo bambino ha del talento e lo segnala a un commerciante di Busseto che si chiama Barezzi, che poi diventerà il suocero di Verdi, che lo fa studiare, perché Verdi era un bambino molto povero e quindi senza questo benefattore non avrebbe potuto studiare. Da lì parte una stradina nei campi, in questa pianura per me meravigliosa, un posto dove di inverno c’è una nebbia tremenda ed in estate un caldo insopportabile. Ma è una terra di persone originali, forse anche perché il caldo batte sul cervello: pensate che la prima domenica di agosto, lì, davanti alla casa di Verdi, fanno la sagra delle cotiche coi fagioli. Immaginatevi che caldo che c’è in quel momento lì. Ecco, da lì parte una stradina che porta a un santuario, che porta alla Madonna dei prati, che è una frazione di Busseto. E’ una chiesa, mi pare del ’600, che i cittadini del posto ricordano per un miracolo mariano. C’è un’immagine miracolosa che tutti voi potete andare a vedere. E’ un posto, ahimè, tenuto malissimo. Bisogna che qualcuno se ne occupi per recuperare questo capolavoro della cristianità. In quella chiesa, Verdi comincia a suonare una spinetta, la spinetta è una specie di piccolo organo, alla quale resterà affezionato per tutta la vita, tanto che adesso questa spinetta è custodita nella casa di riposo per musicisti che c’è a Milano, fatta costruire da Verdi. Verdi dice che è stata la sua opera più bella. Ora, siccome questo pomeriggio parleremo della religiosità di Verdi e Verdi ha la fama di essere stato un grande anticlericale, ma non un grande ateo, perché sono due cose diverse, voglio raccontarvi un episodio che è legato drammaticamente alla fama di anticlericale che si è fatto Verdi e a questa chiesa che si chiama Madonna dei Prati. Quando Verdi era bambino, faceva il chierichetto in questo santuario, Madonna dei prati e un giorno si era distratto durante la messa e il parroco, che si chiamava don Masini, lo ha ripreso con due ceffoni. Allora si racconta che Giuseppe Verdi bambino gli rispose in malo modo, in parmese: adven saeta. Traduci tu che sei…

EGIDIO BANDINI:
Effettivamente in bussetano sarebbe “Ch’at gnìss un fülmin!”! Che ti prenda un fulmine!

MICHELE BRAMBILLA:
Che ti prenda un fulmine. Che cosa succede? Succede che il 14 settembe 1828, durante la festa patronale, c’è una messa e davvero un fulmine cade sulla chiesa della Madonna dei prati e ammazza sei persone: quattro preti, tra i quali questo don Masini, e due altre persone. Ora voi penserete che questa è una leggenda metropolitana, ma non è vero, perché dalla cronaca del registro della chiesa, leggo questo articolo che si chiama Avvenimenti funesti, in cui si racconta : “Destatosi fiero temporale mentre verso le tre pomeridiane si incominciavano i vesperi, un fulmine caduto uccise quattro preti e due scolari. Restava nel mezzo il prevosto di Roncole, don Pietro Montanari ed è rimasto illeso”. Quindi il predecessore di don Adriano è stato miracolosamente salvato. “A mano destra, presso di lui, don Pietro Ozzi, arciprete di Frescarolo, di anni 60, rimasto morto, era seduto ed in aspetto di uomo che mediti. Presso di questo e dalla parte del Vangelo, steso per terra morto, ma senza nessun segno, don Luigi Menegaglia, arciprete di Semoriva di anni 50. Vicino a questo e pure disteso e morto, senza alterazione del corpo, Francesco Luzi, di anni 36 circa, sarto di professione di santa Croce di Zibello, senza segni esteriori. Seduto, poi, quasi presso la portiera che mette nel santuario, morto ma con sembianza d’uomo che placidamente dormisse, Bianchi Gaetano, nubile, sarto di professione, di anni 25, delle Roncole. Dalla parte dell’epistola, steso per terra, annerito, don Matteo Orioli, arciprete di Spigarolo di anni 40. Presso questo, morto, ma seduto, ed in aspetto di uomo che soffra di grandi dolori, e senza nessuna ferita, stava il cadavere di don Giacomo Masini di Roncole, di anni 50”. Questa è una cronaca vera, scritta con lo stile che avete sentito e che racconta un episodio drammatico, che Verdi non ha mai dimenticato per tutta la vita. Tira una maledizione, la maledizione si compie: questo contribuisce ad alimentare per sempre la fama di un Verdi anticlericale, che era effettivamente anticlericale, ma anche di un Verdi anticristiano, che non è così. Adesso però, Egidio Bandini, che è del posto, ci racconta come poi, da anziano, Giuseppe Verdi ricordi questo episodio.

EGIDIO BANDINI:
Innanzitutto buonasera a tutti. Giuseppe Verdi, con un pizzico di civetteria, ricordava agli amici che gli dicevano: eh sì, ma tu da bambino hai augurato un fulmine al prete e quello poveretto è rimasto fulminato davvero. E lui, con un pizzico di civetteria, diceva: “Sì ma è stato il giusto castigo di Dio”. In realtà questa è una leggenda. Sta di fatto però, che Giuseppe Verdi, molto autobiograficamente, in Rigoletto, mette in bocca al buffone le parole: “Come fulmin scagliato da Dio, il buffone colpirti saprà” e quindi probabilmente c’è anche un fondo di questa leggenda nella musica del Rigoletto che sentiremo adesso dal maestro Medioli..

Musica

MICHELE BRAMBILLA:
Adesso don Adriano, che è un convinto sostenitore della religiosità di Verdi.

ADRIANO CONTESTABILI:
Grazie a tutti voi, siete troppi, io sono un po’ emozionato, perché sono un povero parroco di campagna e non sono né un musicologo, né un musicista, però sono un innamorato di Giuseppe Verdi, da quando avevo 8 anni. Un anno fa, a Madonna Prati, in un convegno che tutti gli anni si tiene, agli inizi di settembre, questo signore che ho alla mia destra mi obbligò a rispondere: perché ami Giuseppe Verdi? Voi sapete che l’amore non è unilaterale, l’amore nasce sempre da un rapporto a due. E’ così anche con nostro Signore Gesù Cristo. Se non scopro che Lui mi ama, difficilmente scopro cosa significa amarlo. E allora amo Giuseppe Verdi, perché attraverso la sua musica e le sue opere, io mi sento amato da Lui, canta se stesso e quindi canta tutti i sentimenti dell’uomo, canta tutti i sentimenti dell’umanità. D’annunzio, quando Verdi è morto, disse: “Cantò e pianse per tutti”. Ed è vero. Se voi ascoltaste Giuseppe Verdi nelle sue opere e lungo il suo cammino, potreste scoprire, non solo quando lui canta l’umanità, ma quando canta se stesso, i suoi dolori, che sono stati tanti, le sue gioie, le sue passioni, la sua drammaticità nel cammino della fede. Ed è proprio cercando di capire il suo linguaggio operistico, io, appassionato di Verdi, ho cercato di capire Verdi, che è un grande mistero, come tutti i geni, per cercare di capire la mia umanità e quindi ad un tempo il suo cammino di fede che è stato tribolatissimo, come per tanti di noi. Dimentichiamo troppo spesso, quando parliamo di Verdi – parliamo sempre della sua seconda moglie, la signora Strepponi – che è stato sposato per quattro anni precedentemente con una figura straordinaria di ragazza di Busseto, Margherita Barenzi, una fanciulla straordinaria, che lo ha amato straordinariamente, al punto tale da sacrificare la sua vita pur di stargli accanto e permettergli di finire di fare la sua seconda opera. E’ morta giovanissima per encefalite, a 26 anni e Verdi in due anni perse due figli piccoli e la moglie. Pensate in quale tragedia umana il suo spirito si trovava e forse anche la sua fede un attimo ha traballato. Però, scrive lui, che quando lesse il libretto del Nabucco, il Va pensiero, in quel periodo stava leggendo la Bibbia, quindi significa che cercava delle risposte. Dico un’ultima cosa. Assolutamente Verdi non era ateo, aveva una devozione per la Madonna straordinaria. E quando uno è devoto alla Madonna, difficilmente perde la fede, può avere dei dubbi, dei tentennamenti, degli interrogativi, ma la Madonna non gli molla mai la mano. E Verdi ha avuto il merito di sapere cantare l’amore per Maria, fin dall’inizio. Dopo il Va pensiero, io adoro Margherita Barezzi, perché è la donna che ha sacrificato la vita per lui e sono convinto che, in quell’abisso di dolore in cui lui si trovava, quando ha visto la frase del Va pensiero del Nabucco, non ha certo pensato all’Italia del Risorgimento, come si dice. Che volete che gli interessi a lui dell’unità d’Italia nel ’42! In quel momento, “va pensiero sull’ali dorate”, è andato alla sua patria, e la sua patria vera era sua moglie e i suoi figli.
Ne sono profondamente convinto. Quindi, uno che ha nell’anima questo, non può essere ateo. Nella sua seconda opera, che è I Lombardi alla prima crociata, compose la sua prima Ave Maria. Ebbene, qualche anno dopo, tanti anni dopo, l’editore francese delle sue opere, Escudier, passò a Sant’Agata a salutare Verdi. Verdi era tornato da Venezia, era ammalato, era molto fragile di bronchi, quindi era ammalato seriamente a letto. Escudier, avvicinandosi alla casa, sentì Verdi al pianoforte suonare e cantare l’Ave Maria dei Lombardi. Se questo è un ateo lascio decidere a voi.

MICHELE BRAMBILLA:
Grazie a don Adriano, che tra l’altro ha fatto cenno a Villa Sant’Agata, in provincia di Piacenza, perché Verdi aveva voluto varcare il confine perché non si sentiva compreso dai suoi. Quella è una villa dove Verdi viveva con la seconda moglie, la Strepponi e dove aveva la sua attività secondaria di possidente terriero, aveva, mi pare, 900 ettari di terra. Lo dico perché chi di voi capitasse da quella parti, vada a vederla, si può visitare. Villa Sant’Agata è un prodigio di macchina del tempo, sembra veramente di andare nell’ottocento, ci sono ancora tutte le cose come erano allora. Le carrozze, la ghiacciaia, il riscaldamento inventato da Verdi dopo un viaggio in Russia, con un sistema di aria calda che gli aveva fatto vedere lo zar, la sala del biliardo. E’ veramente un gioiello. C’è anche la camera da letto, dove Verdi aveva un crocifisso davanti, se non sbaglio anche un’immagine mariana e aveva, di fianco al letto, un tavolino, in cui in qualsiasi momento della notte avesse avuto un’intuizione si poteva alzare per scriverla. Anche questo è veramente un luogo che racconta di un genio straordinario della nostra cultura. Egidio Bandini è l’uomo che mi ha portato in questi posti, me li ha fatti conoscere tutti, perché ama profondamente quella terra e adesso ci parlerà della religiosità di Verdi nelle sue opere.

EGIDIO BANDINI:
Grazie Michele. Effettivamente c’è qualcosa che percorre tutta la vita di Verdi, perché la prima musica che Verdi compone giovanissimo è una messa, che lui va ad eseguire in quel di Croce Santo Spirito, altro paesino vicino a Villanova, vicino a Sant’Agata, addirittura c’è una cartolina che ritrae Verdi seduto all’organo di quella chiesa e sotto c’è scritto: “Verdi dodicenne esegue in pubblico la sua messa per la prima volta”.
Qualcuno potrebbe sostenere che non fosse vero, ma invece a dircelo è lo stesso Verdi, all’età di 83 anni, perché nel 1895 Giuseppe Verdi risponde a Caterina Pigorini Beri, una nobildonna di Parma, che gli scriveva per augurargli il buon compleanno per san Donnino: “Dunque, se sapessi scrivere bene, le direi chissà quante belle cose, e lasciando da parte san Donnino, le parlerei di altri santi, di diavoli, di arti e perfino di politica che detesto di giorno in giorno sempre di più. Ma ahimè, nato povero, in un povero villaggio, non ho avuto mezzi di istruirmi in nulla, mi hanno messo sotto le mani una meschina spinetta e qualche tempo dopo mi sono dato a scrivere note, note sopra note, e nient’altro che note. Ecco tutto. Il peggio è che ora, a 82 anni, dubito forte sul valore di quelle tante note, è un rimorso per me e una desolazione; fortunatamente a 82 anni c’è poco da desolarsi”.

Musica: Barcarola dei due Foscari

Uno degli aspetti più conosciuti delle tante facce della fede di Giuseppe Verdi è certamente la generosità, la carità che il maestro aveva. A parte la casa di riposo per i musicisti, di cui ha già detto prima Michele Brambilla, Giuseppe Verdi finanzia e fa costruire un ospedale a Villanova sull’Adda, dotandolo di rendite immense; fa costruire e finanzia a Corte Maggiore un asilo infantile per i bambini e la prima scuola elementare e continua a fornire risorse a queste sue opere di carità. Attorno alla metà del 1850, Giuseppe Verdi intreccia un’amicizia con il dottor Cesare Vigna, originario di Viadana, anche lui delle vicinanze del Po, che faceva lo psichiatra – allora li chiamavano alienisti, a Venezia. Questo dottor Cesare Vigna aveva una caratteristica particolare, utilizzava per il sollievo dei proprio pazienti la musica, ed è ipotizzabile, anzi quasi certo, che Giuseppe Verdi, spesso a Venezia per la rappresentazione delle proprie opere, abbia collaborato fattivamente per dare il via a quella che sarebbe poi diventata la musicoterapia, non soltanto per le malattie mentali, ma anche come cura per la depressione ed altri disordini di ordine neurologico. Giuseppe Verdi aveva anche questa qualità, uno spontaneo mettersi a disposizione di chi era più debole, di chi aveva bisogno, senza chiedere nulla, anzi risultando a volte molto duro con il suo fac totum presso l’ospedale di Villanova. Spesso scriveva dicendogli: “Mi riferiscono che date del vino cattivo, che il riso non è di prima qualità, che il pane non è ben cotto; quando ritornerò vi farò vedere io”. Era uno che amava che tutto fosse come egli aveva stabilito, anche in queste sue opere di carità per le quali lui non si vantava mai. L’unica cosa che ebbe a dire per la casa di riposo per i musicisti fu: “E’ l’opera mia più bella”. Quindi è la ventottesima opera di Giuseppe Verdi, ed è l’opera sua più bella, la casa di riposo per i musicisti tutt’ora attiva a Milano.
Una delle cose straordinarie dell’umanità del dramma che Verdi ha vissuto e di questo suo tormento, di questo suo percorso cui faceva cenno don Adriano, la possiamo leggere nella Traviata. La Traviata è un’opera molto semplice per una parte, e complessa per l’altra. Tra l’altro la protagonista, Marie Duplessis, era la signora delle camelie del romanzo di Dumas, aveva avuto, proprio negli ultimi istanti di vita, la consolazione della musica di un certo livello, perché a suonare il pianoforte per lei c’era un tale Franz Liszt, quindi si presume che la signora godesse certamente di un qualche privilegio. Allo stesso modo, però, Giuseppe Verdi, nel salone di casa Barezzi – ecco perché don Adriano faceva riferimento all’amore, all’affetto che mai dimenticò per Margherita Barezzi e per il padre Antonio, che lui riteneva un secondo padre – suonò al pianoforte il Va pensiero a confortare proprio le ultime ore del suocero, che sentendo queste note, sussurrò in dialetto bussetano “al me Verdi, al me Verdi”, il mio Verdi, mio Verdi. Ispirandosi alla Margherita Gautier di Dumas, al dramma di quella donna che fu Marie Duplessis, “Verdi – sostiene Giancarla Moscatelli – compose l’opera che traccia la sua autobiografia del sentimento, Traviata, un profondo accorato messaggio d’amore che sta tutto in quel rincorrersi di note nell’ouverture, che piano piano diminuiscono di numero finché alla fine, sul pentagramma, non ne rimane che una sola”.

Musica: Ouverture del terzo atto della Traviata

Un altro aspetto della generosità e della carità di Giuseppe Verdi era quello di riuscire a dare lavoro. Anche con questo voleva dire esprimere la propria fede nella Provvidenza che utilizzava lui in persona per aiutare chi aveva bisogno, chi era più debole.
Uno dei grandi amici di Giuseppe Verdi era il conte Opprandino Arrivabene, anche lui era parlamentare nel 1881, quando Verdi era già anziano. Il Maestro scrive al conte Arrivabene: “Tu dirai cosa diavolo vado a fare in campagna, ma tu sai che sono in fabbriche, che l’anno passato ho fabbricato una cascina, e quest’anno due ancora più grosse e che sono là circa 200 operai che hanno lavorato fino ad oggi e ai quali ho dovuto dare disposizioni per lavorare in avvenire appena il gelo lo permetterà. Sono lavori inutili per me, perché queste fabbriche non faranno che i fondi mi diano un centesimo di più di rendita, ma tanto tanto la gente guadagna e nel mio villaggio la gente non emigra”. Pensate all’attualità di un’affermazione di questo genere. Una fede che è cresciuta nella sua terra, è cresciuta lì, a Busseto, a Villanova, a Sant’Agata, nei posti dove riusciva a far vedere qual era la sua generosità. Ma una fede che comunque traspariva al punto che Arrigo Boito, che rimase vicino a Verdi fino alla morte, scrive a Camille Bellaigue: “Egli ha dato l’esempio della fede cristiana per la commovente bellezza delle sue opere, per l’osservanza dei riti, ti devi ricordare la sua bella testa abbassata nella cappella di Sant’Agata, sapeva che la fede è il sostegno dei cuori”.
Ed una delle più belle preghiere in musica che siano mai state scritte è appunto un inno alla Vergine. Verdi la scrisse per La forza del destino e si intitola la Vergine degli Angeli.

Musica: La Vergine degli angeli

ADRIANO CONTESTABILI:
La Vergine degli angeli, che avete appena ascoltato, è ancora una volta una preghiera che Verdi innalza alla Madonna. L’amore per Maria, in Verdi, è sempre stato costante, dall’inizio alla fine, ed è quello che forse gli ha permesso di superare i grandi traumi nei confronti della fede per tutti i dolori che aveva dovuto passare. La forza del destino rappresentava tanto della sua vita e ad un certo momento fa cantare al soprano “pietà di me, Signor mio Dio, non abbandonarmi”. Qui è la musica che ti fa capire il dramma del suo cuore e ti fa capire che il suo cuore non è ancora pacificato. Io sono convinto che lui, fino alla fine, come diceva Egidio, pensa a Margherita, questa donna straordinaria che non ha mai dimenticato, che ha sempre amato. Ha avuto una passione straordinaria per la Strepponi, ma passata la passione è rimasto l’affetto. L’amore vero era Margherita, che non ha mai, mai dimenticato. Siamo nel 1862, Verdi comincia ad avere uno squarcio di luce nella sua vita e che cosa riesce a fare? Una cosa che non ha mai fatto, l’opera comica e riesce, ne La forza del destino, a creare il personaggio estremamente comico di Fra Melitone. Vuol dire che il suo cuore, la sua anima si stanno aprendo ad una luce, ad una speranza che prima non c’era.
E concludo con l’Aida. Ascoltando Aida fina da quando ero alto un soldo di cacio, mi accorsi che l’”inno” è la più grande preghiera che ebbi mai sentita rivolta a Dio. Certo, è in Egitto. Verdi usa tutto ciò che di esotico rappresenta la sua opera, però quando canta l’inno di Fthà, che era il Dio degli Egizi, le parole sono straordinarie anche per noi: “Immenso Fthà, potremo dire immenso Dio, del mondo spirito animatore, noi ti invochiamo. Immenso Fthà del mondo spirito fecondatore. Fuoco e increato, eterno, onde ebbe luce il … tu che dal nulla hai tratto la terra e il cielo noi ti invochiamo, vita dell’universo, mito di eterno amor”. Verdi canta Dio e lo invoca perché vuole arrivare a quella fede a quella pace che tanto desidera. Però, c’è un però. Vero Egidio?

EGIDIO BANDINI:
C’è un però perché, come tutti gli uomini di cultura dell’’800, Giuseppe Verdi era, per certi versi, anticlericale. E quindi nella stessa opera, in Aida, a un certo momento Amneris si rivolge ai sacerdoti. E’ vero che sono sacerdoti egizi, ma in realtà il bersaglio era molto meno esotico, secondo me. Dice: “Empia razza, anatema su voi, la vendetta del ciel scenderà”. Questo era un po’ quello che Verdi combatteva dentro di sé. Rimane il fatto che Giuseppe Verdi ad un certo momento incontra Alessandro Manzoni, grazie i buoni uffici di Giuseppina Strepponi, che era sua moglie, che era quella che aveva toccato, in misura diversa ma altrettanto profondamente, il cuore del maestro, dopo Margherita Barezzi. Lei lo chiamava “il mago”, a volte anche “l’orso di Roncole”, perché il carattere era un po’ spigoloso, ma la Strepponi riesce ad un certo momento a ricondurlo non soltanto al fatto di avere fede, a ritrovare la fede, a credere ancora nella Provvidenza ma addirittura di partecipare ai riti religiosi. Questo lo racconta il grande tenore Tamagno, il quale ad un certo momento arriva a Genova e cerca Verdi nei luoghi dove lo trovava di solito, magari in un caffè e non lo trova. Lo trova all’uscita della Chiesa dell’Annunciata, aveva finito di ascoltare la Messa. E Verdi, alla meraviglia di Tamagno che era rimasto stupito di vederlo uscire dalla Chiesa, dice: “Per voialtri signori canterini non vi è altro santuario che il teatro. Caro Tamagno, dopo tanti dolori e tanti clamori, le ore che passo vicino a Dio sono le più dolci per me. Mi ero un po’ sbandato ma a Lui mi ha ricondotto la Peppina”. E una delle arie dove Verdi parla di questo ricondursi a Dio è quella dei Lombardi alla prima crociata: “Oh Signor che dal tetto natio”.

Musica

EGIDIO BANDINI:
Se Verdi è Verdi, lo si deve in buona parte alla nostra terra. Una terra che, diceva lo stesso maestro, “simile a sé l’abitator produce”. E’ una terra sanguigna, una terra forte, gente di carattere, gente anche dal punto di ebollizione abbastanza basso. Gente che prende fuoco piuttosto facilmente. Una terra dove il sole d’estate è caldissimo, dove l’inverno c’è una nebbia che non ci si vede ad un metro di distanza, però una terra che cattura, una terra che prende. Ve lo può testimoniare Michele, perché lui è arrivato alla Bassa per lavoro, fa il giornalista, e di questa terra è diventato un figlio adottivo, l’abbiamo adottato un paio di settimane fa noi del gruppo amici di Guareschi a Fontanelle, nel Paese natale di Giovannino. Verdi comunque dimostrava in un modo tutto suo questo attaccamento alle sue cose, alla sua terra, alla propria vita. A quella villa che aveva costruito a Sant’Agata a sua immagine e somiglianza. Però ad un certo momento “il mago”, siccome aveva un caratterino abbastanza vivace, scrive ad un amico: “Io detesto tutte le tirannie e specialmente le domestiche. Ora i grandi giardinieri, i grandi cuochi, i grandi cocchieri sono i veri tiranni di una casa. Con questi voi non siete più padroni di toccare un fiore del vostro giardino, di mangiare un semplice uovo con l’insalata, di adoperare i vostri cavalli se piove, se fa troppo sole, ecc. ecc. No, No. Di tiranni in casa basto io solo! E so ben io la fatica che mi costo. Peraltro io sono un tiranno che finisce a far sempre quello che non voglio. Ne volete una prova? Io scrivo Opere ed è la cosa che vorrei fare meno di tutte”. Quindi voi capite come l’amore per la propria terra, per la propria casa, per la propria gente fosse addirittura più forte che l’amore della musica. In realtà poi non era esattamente così, perché Verdi era innamoratissimo della musica. E pignolo al punto che voleva sempre che fosse suonata, eseguita come l’aveva scritta. Lui non perdonava alcuna libertà né ai direttori, né ai musicisti, né ai cantanti. Ad un certo momento arriva una prova difficilissima: nel 1887, a Milano, iniziano le prove dell’Otello. E Verdi è impegnatissimo ad ottenere il meglio da quest’opera che ha scritto 17 anni dopo l’Aida. Un’Opera che gli è costata una fatica immensa, che ha scritto a causa delle insistenze di Ricordi, che addirittura a Natale continuò a mandargli quel dolce che si chiama “moretto”, per ricordargli che doveva scrivere questo Otello. I contrabbassisti non riescono a superare un passo ritenuto di estrema difficoltà, anzi di esecuzione impossibile. Il maestro viene informato della cosa e risponde: “Ah non si può eseguire quel passo? Va bene, per oggi saltatelo, lo cambierò”. Dopo pochi giorni l’orchestra vede entrare un nuovo contrabbassista. Un omone grosso e tozzo con un faccione rotondo e allegro. I professori ridacchiano fra di loro mentre Eustachio Pinetti, questo è il suo nome, si mette in orchestra. Arrivati al passo ineseguibile, dirigeva Verdi, Pinetti lo supera con estrema disinvoltura. Ai professori rimasti interdetti, Verdi sorridendo disse: “Così signori si suona a Parma”. Arriva la sera della prima dell’Otello a Milano, alla Scala. Il successo è incredibile. Fuori del Teatro ci sono duemila persone che staccano i cavalli e portano a mano la carrozza di Verdi all’Hotel de Milan. Il Sindaco Gaetano Negri gli conferisce la cittadinanza onoraria della città. E’ un trionfo! E dice a Verdi: “L’aspettiamo presto, Maestro, con una nuova opera”. Ma Verdi da par suo, risponde: “La mia carriera è chiusa. (Non è vero perché poi scriverà il Falstaff.) “Fino a mezzanotte sono ancora il Maestro Verdi, poi ritorno il contadino di Sant’Agata”.

Musica: Da La traviata, “Brindisi”.

EGIDIO BANDINI:
Oltre le due bellissime preghiere scritte da Verdi nel 1858, quella tratta dall’Adelchi di Manzoni, i quattro pezzi sacri, certamente la massima espressione della fede, del timor di Dio del Maestro, senza dubbio è la Messa di Requiem, scritta per la morte di Alessandro Manzoni. Anche qui Verdi dimostra una sorta di modestia, di poco desiderio di apparire. E’ vero che lui scrive la messa per Manzoni, che addirittura viene chiamato “quel santo”, dopo averlo conosciuto; è vero che si stente trasportato da questa musica (il Dies ire della Messa di Requiem di Verdi è qualcosa di sconvolgente). Però a un certo momento Verdi scrive all’amico francese Camille Du Locle, il 28 Febbraio del 1874: “Io lavoro alla mia Messa e proprio con gran piacere, mi pare di essere diventato un uomo serio e di non essere più il pagliaccio del pubblico che con un gran tamburone e una grossa cassa grida: “Avanti! Avanti! Venite! Venite!” Voi capirete che ora sentirmi parlare di opere la mia coscienza se ne scandalizza e mi faccio presto presto il segno della croce. Che ne dite? Non siete edificato di me?”. Questo è il Requiem. È una composizione di una forza inaudita, è una composizione che tra l’altro sottolinea, con questa musica straordinaria, l’abbandono, il senso dell’inquietudine spirituale ma anche l’anelito verso Dio. Il “Libera me Domine: tu che perdonasti la Maddalena ed esaudisti il Buon Ladrone hai dato speranza anche a me”. E le parole di Sant’Agostino: “Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”. Questo Verdi cercava, questo Verdi voleva con la sua Messa, componendo la quale, pensando alle Opere per non incorrere nel rischio di mettere qualche cosa di lirico in una composizione così importante, si faceva il segno della croce.

Musica: Dalla Messa di Requiem, “Ingemisco”.

ADRIANO CONTESTABILI:
Corrado, nel tuo splendido repertorio verdiano, hai l’”Ave Maria” dell’Otello?
Stavamo prima discutendo con Egidio chi cantava meglio l’Ingemisco di Verdi e ci siamo messi d’accordo che il più grande era Carlo Bergonzi, ma non per nulla è di Vitalenzo, cioè in piena terra verdiana, tanto è vero che i genitori di Verdi sono sepolti nel cimitero di Vitalenzo. Arriviamo al 1887, sono passati sedici anni. Verdi, dopo l’Aida, non voleva più comporre, pensava che fosse il suo testamento finale, invece no, come diceva Egidio, Ricordi riesce a convincerlo, ci metton le mani anche la Strepponi e Boito, a comporre questa meraviglia straordinaria che è l’Otello. Dal punto di vista della religione, quello che mi interessa è che sono anni in cui Verdi è ormai molto anziano, naviga verso gli ottantanni, la vita in lui si è placata, sta recuperando terreni amplissimi, il suo carattere ombroso, direi anzi molto ombrosoe a volte molto duro, la Strepponi ne sa qualcosa, si stava ammorbidendo. Per Desdemona, la protagonista di Otello, compone una Ave Maria, una Ave Maria così colma di amore evidente, di malinconica venerazione che mi pare debba considerarsi, dal punto di vista della religiosità di Verdi, il suo più alto canto di amore e di fede, e direi di più, di speranza.

Musica

EGIDIO BANDINI:
Nel 1897 muore Giuseppina Strepponi e il Maestro, il Mago come lei lo chiamava affettuosamente, si sente inevitabilmente più solo, predispone il testamento e detta le sue condizioni e le sue volontà per l’ultimo viaggio: “I miei funerali devono essere fatti all’Ave Maria del mattino o all’Ave Maria di sera, senza cavalli e suoni, con un prete e due candele e voglio essere seppellito nel cimitero del mio villaggio in una modestissima tomba, che spero di poter far costruire io stesso”. Non fu così.
Giuseppe Verdi ha chiuso alle sue spalle il grande cancello di Villa Sant’Agata sul finire del 1900, ma è stato un arrivederci, non un addio, basta entrare nella grande casa per scoprire che Verdi non se ne è mai andato veramente da quelle stanze. Il Mago e la Peppina, il Maestro e Giuseppina Strepponi, sono ancora qui, intenti a discutere di rose e di cavalli, di pavane e di cavalletti, di Manzoni e di Rossini, prima di accogliere gli ospiti nel salotto rosso per un vermouth e l’immancabile caffè, il balsamo del cuore e dello spirito. che il Maestro preparava sempre personalmente. Peppino e la Peppina sono inevitabilmente ed eternamente insieme, nel modo più originale, quasi melodrammatico: le loro mani si sono ritrovate dopo centocinquant’anni proprio a Sant’Agata. Sono le mani in marmo posate all’estremità dello scrittoio di Verdi: a sinistra quella di lui, a destra quella di lei, entrambe le mani furono create in una stessa città, Firenze e da un unico artista: Giovanni Dupré. La mano di Giuseppina ha dovuto pazientare perché le fosse concesso di sfiorare di nuovo le dita del maestro. Di collezione in collezione, ha atteso che la voce di Villa Verdi richiamasse Franco Zeffirelli, l’ultimo dei suoi proprietari, melomane, verdiano e profondamente cristiano. Ne 2001, infatti, mentre era ospite della villa, il grande regista notò la mano del maestro posata sullo scrittoio e ne avvertì l’insostenibile solitudine. Senza bisogno di pensarci più a lungo, donò agli eredi di Verdi, l’unica mano che avrebbe potuto tenerle compagnia. Di certo sono le rime della canzone che Gabriele D’Annunzio scrisse quel 27 gennaio del 1901 a ritrarre, come meglio non si potrebbe, tutto ciò che Verdi era. “Ci nutrimmo di lui come dell’aria / libera ed infinita / cui dà la terra tutti i suoi sapori. / La bellezza e la forza di sua vita, / che parve solitaria, / furon come su noi cieli canori. / Egli trasse i suoi cori dall’imo gorgo dell’ansante folla. / Diede una voce alle speranze e ai lutti. / Pianse ed amò per tutti”.

Musica

MICHELE BRAMBILLA:
Adesso abbiamo parlato di Giuseppe Verdi, abbiamo parlato di cose serie, abbiamo ascoltato della musica classica, operistica, ma siccome noi veniamo da Parma, abbiamo una certa qual tradizione di musica popolare. Musica popolare che, tra l’altro, ha visto come protagonista un poveretto, un violinista cieco, che si chiamava Augusto Migliavacca, il quale, pur famoso alla sua epoca, suonava nei locali di Parma. Facevano addirittura dei concorsi per capire quale dovesse essere il trio che guadagnava quei quattro centesimi che pagava il titolare del locale per l’esibizione. Questo Augusto Migliavacca ha avuto la malaugurata idea di morire nel 1901, l’anno in cui è morto Verdi, per cui di Verdi si sono ricordati tutti, di Migliavacca nessuno. Fatto sta che Augusto Migliavacca ha composto uno dei brani più eseguiti al mondo: la famosa Flora. Lui l’ha intitolata così ma è molto più conosciuta come la Mazurca di Migliavacca. E’ un brano straordinario, per un motivo molto semplice, al di là della musica che è molto bella e trascinante: è un pezzo che comincia sempre e non finisce mai, volendo. È chiaro che poi lo facciamo finire. Maestro, io direi che, come omaggio a Parma, a Verdi e Augusto Migliavacca possa andar bene.

Musica: Flora di Augusto Migliavacca.

Data

22 Agosto 2015

Ora

15:00

Edizione

2015

Luogo

Sala Poste Italiane C2
Categoria
Incontri