ESPERIENZE ALLA PROVA. INCONTRO CON…

Esperienze alla prova. Incontro con...

25/082011 ore 15.00_x000D_ Partecipa Clara Gaymard, Fondazione Jérôme Lejeune, Vice President of Government Strategy and Sales at GE International, and President and CEO GE France. Introduce Letizia Bardazzi, Fondazione per la Sussidiarietà.

Partecipa Clara Gaymard, Fondazione Jérôme Lejeune, Vice President of Government Strategy and Sales at GE International, and President and CEO GE France. Introduce Letizia Bardazzi, Fondazione per la Sussidiarietà.

 

LETIZIA BARDAZZI:
Buon pomeriggio a tutti e benvenuti a quest’incontro del ciclo “Esperienze alla prova”. Il Meeting da sempre vuol offrire la possibilità di incontrare dei testimoni, di raccontare storie di persone che con il loro lavoro, con la loro umanità raccontano la possibilità di una vita diversa. “La vita amico è l’arte dell’incontro”, abbiamo letto nell’editoriale del Sussidiario stamani, perché l’incontro con uomini e donne più vivi rende più certi contro ogni difficoltà. E la protagonista dell’incontro di oggi è un ospite veramente eccezionale, si chiama Clara Gaymard Lejeune. È presidente (applauso)… chiedo allora immediatamente un altro applauso per un ospite che volevo immediatamente introdurre, che è la madre di Clara, la signora madame Jérôme Lejeune, che è stata qui, che ha già visto i palchi di Rimini con il marito, quando è venuto per dare delle grandi testimonianze della sua fede e del suo lavoro scientifico nel 1985 e nel 1990. Quindi i Clara è presidente CEO del General Elettric in France, è madre di ben nove figli e quindi manager all’apice dell’economia europea. È fra le cinquanta donne più potenti del mondo e soprattutto è figlia del famoso genetista Jérôme Lejeune, che è uno scienziato di fama internazionale, che, come dicevo, abbiamo avuto l’onore di conoscere, lo scopritore della trisomia 21, cioè delle cause cromosomiche della sindrome di Down, scomparso nel 1994 e del quale, nel 2007, l’arcivescovo di Parigi ha aperto la causa di beatificazione. Di lui Clara ha scritto un libro di cui le chiederemo di raccontare oggi: La vita è una benedizione. Inoltre Clara è fondatrice e socia della Fondazione Jérôme Lejeune, che è presente a Parigi e si occupa della ricerca a favore delle malattie dell’intelligenza. L’incontro con Clara è frutto di una grazia che una amica ha ricevuto. Un’amica che si trova a New York, ma di cui preferisco vi parli Clara direttamente. A lei oggi abbiamo chiesto di raccontarci della sua vita, del padre e di che cosa conserva maggiormente come la sua eredità, qual è l’esperienza di certezza che il padre le ha trasmesso in ogni ambito della sua vita, dal suo essere madre, alla sua esperienza lavorativa, alla sua concezione dell’azienda. Quindi lascio immediatamente la parola a Clara Gaymard Lejeune, ringraziandola ancora.

CLARA GAYMARD:
Era venerdì santo, nel ’94, l’ultima conversazione che ho avuto con lui è stata in quella data. Siamo andati da lui con mio marito e mio fratello. Era ormai in fin di vita ma era perfettamente lucido e abbiamo, come dire, evocato la possibilità che fosse richiamato a Dio, non riuscivo a crederci io. Non so se lui lo sapesse ma ci ha detto comunque: “non dimenticate che presto sarà Pasqua e che può succedere tutto il giorno di Pasqua”. Certo, abbiamo parlato di mamma, di quello che sarebbe successo dopo e ci ha lasciato dei messaggi che vorrei condividere con voi.
Il primo, forse il più importante. Non riusciva a respirare e quindi parlava molto, molto lentamente ma mi ha detto: “Clara mia, se c’è un messaggio che vi posso lasciare, l’ho potuto verificare tante volte in tante circostanze diverse della mia esistenza, i dettagli non sono importanti: siamo nelle mani di Dio”. Quando papà è morto il giorno di Pasqua, ero incinta del mio sesto figlio, del nostro sesto figlio, Faustina, una bimba che è nata pochi giorni dopo. Dormivamo a casa dei miei genitori, a un certo punto è squillato il telefono, alle sette del mattino, a quell’ora stessa in cui le donne si erano recate sulla tomba di Cristo. Ebbene in quel momento il medico ci ha annunciato che mio padre era salito al cielo. Con mamma siamo andati lì e il suo corpo era ancora caldo ma lui non c’era più, non era più lui e a quel punto ho capito, ho capito una cosa, ho capito cosa significhi anima. C’era lì la sua spoglia mortale, ma mio padre adesso si trovava ovunque: si trovava intorno a noi, e da quel giorno, per me ogni giorno traduce in pratica quello che leggiamo nel Vangelo: se il seme del grano cade per terra e muore, allora porterà frutti numerosi. Tredici giorni dopo, vi dicevo, ho partorito la piccola Faustina e allora mi sono detta: questa bambina che nel mio ventre ha conosciuto il nonno, non avrà ricordi del nonno. Anche mia sorella era incinta del suo settimo figlio che sarebbe nato un mese dopo. E mi sono detta che bisognava proprio che io raccontassi la vita di Jérôme Lejeune. Certo non avevo alcuna pretesa, perché non sono certo una storica, non sono una scienziata, non sono medico, non sono quindi certa neanche di avere la stessa fede che aveva lui. Però sono figlia sua, ho avuto questa fortuna, questa grazia di essere sua figlia e di vivere accanto a lui tutti i giorni e mi sembrava che per Faustina e per tutti gli altri suoi nipotini, per i suoi amici e magari anche per voi, che siete in questa sala, fosse importante dire chi fosse per noi che siamo i suoi parenti e la sua famiglia. Ho cominciato a scrivere quindi una trentina di pagine, certo non volevo farne un libro e le ho fatte vedere a un amico, un amico giornalista. Era un’estate in cui nei libri si parlava di famiglie distrutte, di bambini che soffrivano. E lui mi ha detto: racconta la storia di una famiglia normale, che si ama e molta gente si riconoscerà in essa, quindi scrivi, vai avanti. E quando sono andata a incontrare con il libro l’editore, abbiamo discusso del titolo e mi ha detto: è semplice, è facile il titolo, La vita è felicità. Perché la vita è felicità?
Magari bisognerebbe dire la vita è un miracolo, perché la vita è una felicità, è felicità, significa una cosa: il solo fatto di esistere, il fatto che oggi siamo qui, che siamo vivi malgrado tutte le difficoltà, malgrado tutte le prove che dobbiamo subire, è felicità. La vita di mio padre è stata proprio una testimonianza permanente di questo: la vita. La vita è felicità, la vita è un dono di Dio per noi che crediamo in Lui, ma la vita è felicità e allora cercherò con qualche piccolo tocco di pennello, certo non vi posso raccontare tutta la sua vita, ma comunque cercherò di dirvi come Jérôme Lejeune ha tradotto nei suoi gesti, nei suoi atti, nei suoi pensieri, nelle sue riflessioni, nel suo talento, questo fatto, che la vita è felicità. Nulla lo aveva predestinato ad essere un medico, veniva da una famiglia classica, tradizionale, borghese. Suo papà era un bravo uomo dal punto di vista, come dire, di cultura, ed era un dirigente d’azienda. Sua mamma invece era figlia unica, un intellettuale, un artista e non c’era nessun medico in famiglia. Questa vocazione gli venuta quando era molto giovane – ha fatto la maturità a quindici anni, durante la guerra, e malgrado il fatto che non andasse a scuola – e ha cominciato a studiare medicina, voleva essere chirurgo e quindi, come dire, riparare i corpi. E la vita invece ha deciso diversamente. La vita e anche la sua distrazione, perché papà era una persona distratta, perdeva sempre i documenti, le chiavi e mamma in un certo senso vegliava su di lui. Tante volte gli succedeva di essere così distratto e perso nei suoi pensieri che anche se vedeva la spazzatura, che mamma gli metteva fuori dalla porta, si dimenticava di buttarla. La sua distrazione… voleva allora diventare chirurgo, voleva fare il praticantato e che cosa fa?, sbaglia a prendere il treno, la metropolitana, lo prende nella direzione sbagliata, non riesce ad arrivare in tempo e non diventa mai chirurgo. A quel punto, a quel punto arriva la rivelazione della sua vita, perché incontra il professor Turpin e nello studio di questo professore vede questi bambini che sono più degli altri, che cosa voglio dire lo capite, sono bambini che hanno degli occhi particolari, con dita più corte, sorridenti, cicciotelli nel viso, che all’ epoca venivano chiamati mongoloidi. All’epoca venivano nascosti, perché ci si vergognava di loro, si diceva di loro cose terribili. Allora la mamma veniva accusata dicendo che aveva avuto la sifilide o si era comportata male, quindi si colpevolizzavano i genitori. E allora lui che fa? Si immerge nella ricerca per capire, vuole sapere, vuole capire per cercare di guarirli ed essendo medico, essendo quel medico diventa anche ricercatore. Mio padre è diventato ricercatore perché voleva curare i malati che vedeva tutti i giorni nel suo studio.
A quel punto, ci troviamo nel 1958 e non si sa nulla a quel punto delle malattie genetiche. Addirittura il termine genetica non esiste, si pensa che le malattie siano dovute a una serie di ragioni diverse ma il suo professore, proprio lui, afferma pubblicamente che il mongolismo non è nessuna malattia, anzi può essere spiegata attraverso una causa genetica. C’è anche un professore che qualche mese prima aveva scoperto come si potevano studiare i cromosomi che si trovano in tutte le cellule, che sono appunto caratterizzate dal patrimonio genetico. Papà, utilizzando un microscopio di fortuna, vecchio di vent’anni, del 1930, che è riuscito a rimettere a posto con molta intelligenza e pochi soldi, beh papà capisce che questi bambini, detti mongoloidi, non hanno niente di meno degli altri. Anzi hanno qualcosa di più. Invece di avere quarantotto copie di cromosomi, come abbiamo tutti nel nostro patrimonio genetico, per quanto riguarda il cromosoma 21 ne hanno non due, bensì tre. Quindi, come dire, hanno troppe informazioni per spiegare quello che succede, sicuramente papà ve lo ha già raccontato nel ’92, e come dire, riesce a spiegare la musica della vita, riprendendo il messaggio di san Giovanni. All’inizio c’è il messaggio e questo messaggio è nella vita e questo messaggio è la vita. La verità è che è la nostra storia questa, è la storia di ciascuno di noi, quello che siete, il fatto che siete magari mori, biondi, che abbiate gli occhi azzurri, che siate un po’ collerici o paciosi, che vi piaccia fare sport o leggere, che siate bravi in matematica o nelle lingue straniere, che vi piacciano i cibi dolci o salati. Tutto questo è scritto nella vostra storia. È il vostro messaggio e questo fa sì che voi siate unici.
Questo non è un messaggio biblico, né un messaggio che ci viene dalla fede. È il messaggio della scienza. Il vostro patrimonio genetico racconta la vostra storia. Sempre per quello che riguarda i mongoloidi, che però Jérôme Lejeune comincerà a chiamare i malati di trisomia 21, avviene come quei dischi, quella cassetta che si ascolta troppe volte e allora si riga e quindi la musica, la cassetta si ripete senza fine. E quindi questo ripetersi della storia che si scrive, fa sì che questi bambini siano più bambini degli altri, bambini affetti appunto da trisomia 21. E questa non sarà certo l’unica scoperta che farà Jérôme Lejeune, però diciamo che questa è la scoperta fondatrice, quella veramente storica, non semplicemente perché a quel punto si capisce che i mongoloidi in realtà sono affetti da trisomia 21, ma perché è la prima volta nella storia dell’umanità che si capisce che una malattia può avere una causa genetica e quindi lui diventa il padre della genetica moderna. In Francia proprio per lui, nel sessantatre, viene creata la prima facoltà di genetica. Quindi semplicemente a trentaquattro anni, giovanissimo, non smetterà mai di spiegare, di formare genetisti di tutto il mondo, anche qui in Italia, oppure in Israele, negli Stati Uniti, in Germania, un po’ dappertutto nel mondo.
Dopo di che, fa altre scoperte, altre malattie dell’intelligenza si capisce, che sono provocate da disturbi cromosomici; certo non ve ne posso parlare diffusamente, perché oggi se ne parla tutti i giorni. Oggi sappiamo che la nuova tappa della medicina moderna è la riparazione dei geni per quanto riguarda le malattie dell’intelligenza o per guarire l’Alzheimer o la mucoviscidosi. Con queste scoperte se ne va negli Stati Uniti. Siamo arrivati al 1959, dove è visiting professor nelle università americane e lì mostra le sue scoperte a tutti. Almeno venti o cento volte gli avrebbero potuto portar via le scoperte, ma nessuno ci crede. Lui torna a Parigi ed è una vera e propria rivoluzione della medicina moderna quella che si attua, riceve premi, premi dappertutto, anche un premio conferitogli dal presidente Kennedy e diventa un punto di riferimento. Il genetista, il padre della genetica moderna. Si potrebbe dire che a quel punto il suo destino era compiuto, un bel destino.
Ma la storia di Jérôme Lejeune non si ferma lì, perché, a un certo punto, ha uno studio dove vanno tutti i medici, riceve pazienti da tutto il mondo, migliaia di pazienti e li conosce tutti e li chiama tutti per nome, alcuni vengono anche da molto lontano e quando arrivano i genitori di questi bambini, soprattutto quando viene loro detto che il loro figlio è affetto dalla nascita dalla Trisomia 21, che cosa fanno? Spesso si disperano, è stato già detto loro che quel bambino non avrà futuro, non potrà parlare, non potrà camminare, sarà un vegetale. Quello che vi voglio raccontare è una storia che mi è stata raccontata dieci, venti volte: arrivano lì i genitori con questo bambino malato, con questo figlio malato e vedono soltanto la malattia; allora mio padre li riceve e mette addosso al papà e alla mamma un camice bianco e chiede alla mamma di sedersi di fronte a lui, una sedia qui e l’altra lì; prende il bambino, se lo mette in braccio, anche lui ha addosso un camice bianco e mette il bambino sulle ginocchia della mamma, si siede di fronte a lei e comincia a visitare il bambino dalle ginocchia della mamma o del papà, chiamandolo per nome. E’ a quel punto che la mamma capisce che è suo figlio. E’ malato, ma è il suo bimbo, è suo figlio, Paul, Pierre e quindi ad un certo punto da quella paura immensa, che si capisce benissimo quando si ha un bambino handicappato, improvvisamente si sviluppa l’amore, perché se ne va via la paura. Negli anni successivi mio padre si è sempre battuto per cercare di raccogliere denaro, per fare avanzare la ricerca, per capire come poter guarire questi bambini affetti da Trisomia 21. Parlo di loro perché questa è la malattia mentale più diffusa, ma naturalmente lui pensava che se si fosse riusciti a guarire la Trisomia 21, sarebbe stato possibile guarire tutte le malattie mentali con una causa genetica. E allora che fa? Si batte, combatte, corre qua e là, non va mai in vacanza, salvo qualche giorno per portarci in Danimarca. D’estate continuava le sue ricerche e ad un certo punto, un bel giorno, la cosa già era iniziata negli Stati Uniti, ma soprattutto in Francia questa lotta comincia e continua, nel ’70 c’è questo dibattito sull’aborto in Francia. Ad un certo punto, alla televisione c’è una trasmissione che si chiama Le dossier de l’Ecran e si fa vedere un film seguito da un dibattito. Il film riguarda una donna violentata che ha un bambino e quindi il dibattito riguarda la possibilità di mantenere il figlio o no e poi c’è un progetto di legge che in caso di violenza sessuale prevede l’aborto e anche in caso di handicap mentale. Il principale handicap mentale che si poteva diagnosticare prima della nascita, all’epoca, con le amniocentesi, era proprio la Trisomia 21. Il giorno dopo papà va allo studio e a quel punto entra una mamma con un bimbo di 10 anni; questo bambino piange, allora mio padre chiede alla mamma: “perché piange?” e la madre gli spiega che il bambino ha visto alla televisione la sera prima quella trasmissione e a quel punto il bambino si getta nelle braccia di mio padre e gli dice: “professore, professore ci devi salvare, perché ci vogliono uccidere e noi siamo troppo deboli per difenderci”.
Mio padre torna a pranzo a casa. Tutti i giorni lo faceva peraltro. Rendetevi conto della fortuna che abbiamo avuto noi bambini, riuscivamo a fare colazione, pranzare e cenare con nostro padre. La mattina andava in ospedale, il pomeriggio in laboratorio, velocemente, in bicicletta veniva a casa a pranzo con noi, per approfittare appunto della presenza della sua famiglia. Quindi a pranzo arriva a casa, ci parla di questa storia e ci dice: io che sono il loro medico e li devo curare, li devo difendere e se non lo faccio sono un disgraziato.
Allora a quel punto Jérôme Lejeune, membro del comitato dei saggi del Presidente della Repubblica francese, consultato su tutti gli argomenti scientifici, una gloria, un astro nascente della genetica, l’uomo consultato da tutti, beh è lui che evidentemente dovrà riporre il suo destino, la sua gloria personale e anche il suo successo al servizio della difesa di questi malati. Lui non giudicherà mai, mai leggerete da nessuna parte la parola di papà che condanna, che accusa o che sanziona una donna, che magari ha fatto un aborto, mai leggerete una cosa così. Semplicemente lui dirà quello che dice la scienza e lo dirà non perché è un uomo di fede, ma perché è un medico, e quindi ha fatto il giuramento di Ippocrate: proteggerai la vedova, i suoi figli, proteggerai la vita in tutte le circostanze. Il suo dovere di medico e ricercatore è dire una cosa semplicissima, una cosa addirittura evidente e che lui ha imparato con la genetica e cioè che in questo momento magico in cui si incontrano un uomo e una donna, un ovulo e uno spermatozoo, il momento in cui si sviluppano le cellule, l’essere umano è già lì, sin dall’inizio, con tutto il suo patrimonio genetico e questo essere umano è unico. E perché è un unico? Perché è un essere umano. Quindi è inattaccabile, lui non giudica, non dice altro se non quello che dice la scienza cioè che l’essere umano comincia a essere tale dal momento del concepimento. A quel punto cominciano i problemi. Me lo ricordo, avevo undici anni, anch’io andavo a scuola in bici e a un certo punto vedo scritto sui muri della facoltà: bisogna uccidere Jérôme Lejeune e quel piccolo mostro. Quindi impaurita torno a casa e dico: papà, ma ti vogliono ammazzare? E mio padre mi rassicura e mi dice: no, stai tranquilla, sono soltanto parole. Non ti preoccupare tesoro.
E quindi tutta la sua lotta e tutto il suo combattimento è stato in favore della vita, per proteggere i più deboli. Per proteggere certamente i suoi piccoli malati, ma anche il bambino che nascerà, che non ha diritto di parola, che è così piccolo che nessuno lo vede, che non può difendersi e dirà quindi la verità, la verità scientifica e cioè che ogni essere umano è tale sin dal momento del concepimento. E allora che cosa gli succede? Gli succedono tante piccole noie, ma se volete le potete leggere nel mio libro, non è di questo che vi voglio parlare adesso, vi voglio raccontare un’altra storia. Qualche anno dopo, si trova a Parigi, è estate. Io sono rimasta tante estati a Parigi perché preferivo rimanere con lui e approfittare della fortuna di essere con lui, lavorava sempre e anche d’estate appunto mangiava pochissimo ed era concentrato sulla sua ricerca. Un mese di agosto proprio come adesso, più o meno come oggi, riceve una telefonata dagli Stati Unti, è il suo vecchio amico Martin Palmer che gli telefona. Martin Palmer si trova in vacanza con i sui quattro figli e la moglie. Ha deciso di andare a mangiare dei granchi e quindi che fa? Compra il giornale per buttarci le scorze dei granchi, allora apre questo giornale, legge un articolo e legge la storia di una coppia che vuole divorziare. La moglie si chiama Marie, sono sposati da dieci anni, non sono riusciti ad avere figli, hanno fatto già la fecondazione in vitro e c’è un embrione congelato. Sono d’accordo a separarsi, sono d’accordo a divorziare, sono d’accordo su tutto, ma su una cosa no. Marie, la moglie, vuole che questo embrione le sia impiantato e invece il marito non vuole. Secondo la legge americana, è il giudice che deve decidere se gli embrioni possono essere soppressi oppure se gli embrioni non sono una cosa ma sono una persona. E allora bisognerà vedere chi ha ragione, se lei o lui. Questo giudice che decide si chiama Young, che in francese si dice “jeune”, si trova in una piccola città americana, fa richiesta di una consulenza di un medico e Martin Palmer chiama questo giudice e gli dice: io ho la persona che ti può dare la consulenza per permetterti di decidere, è un esperto di genetica, Jérôme Lejeune.
Allora il giudice Young, che si chiamava anche lui giovane (jeune), dice va bene, però l’udienza del tribunale si deve svolgere entro quarantotto ore. Allora Palmer chiama papà, papà dice che non può, Martin cerca di convincerlo e mio padre a quel punto gli fa una domanda: la madre cosa dice? E Martin dice: Marie, la madre, dice che se anche non fosse lei a ricevere quell’embrione, vuole che l’embrione possa vivere, magari utilizzato da qualsiasi altra donna. Allora a quel punto Jérôme Lejeune… beh, questo è come il processo di Salomone, ve lo ricordate? C’è questa donna che è pronta a dare suo figlio a un altra donna piuttosto che farla uccidere. Ogni duemila anni si ripropone la stessa storia di Salomone. Insomma, che cosa succede? All’inizio non trova posto sull’aereo, dopo un’ora lo chiama la compagnia aerea e gli dice si è fatto libero un posto, lui parte, va a testimoniare a questo processo e spiega, proprio lì, che gli embrioni sono una persona. Il giudice Young, qualche settimana dopo, deciderà in favore della madre.
Questa storia è stata ripresa in tutta la stampa americana, perché era agosto e sapete che gli americani sono ghiotti di questo tipo di storie, ma era un momento molto importante, mio padre ha anche scritto un libro su questa cosa, che Letizia adesso ha qui, che racconta proprio la storia di questo processo.
Se volete capire in modo scientifico, meglio di quanto non possa spiegarvi io, che cosa è l’inizio dell’essere umano, che cosa ci dice la scienza sulla nostra storia, beh leggetevi questa storia, che è assolutamente appassionante. Allora un medico, un ricercatore, un testimone del nostro tempo. Mio padre era anche un grande cattolico, ora non so se a lui piacerebbe che io dicessi questo, un grande cattolico… La mattina in cui è morto era venuto il prete per dargli l’estrema unzione, un paio di ore prima che morisse, il prete gli ha anche dato la Comunione, la Comunione della vigilia di Pasqua in quanto appunto era sabato santo. Mio padre ha pronunciato questa frase, che se ci pensiamo è straordinaria, assolutamente incredibile: “Caro amico sacerdote, non ho mai tradito la fede”. Essendo medico, essendo ricercatore, essendo uno scienziato, essendo cattolico in quanto era stato il padre della genetica moderna, Paolo VI gli chiede di far parte della Pontificia Accademia delle Scienze, riunisce tutti gli scienziati del mondo in tutti i campi, in modo da fare il punto della scienza a favore della chiesa, in modo da poter prendere posizione in modo illuminato su tutti gli argomenti che riguardano l’uomo. E poi quando Giovanni Paolo II diventa Papa, lo invita a pranzo, e questo è un altro incontro, un incontro di menti, di intelligenze e di cuori, diventano amici e mio padre insieme a mia mamma, che è qui in sala, lo incontreranno regolarmente. Quando il Papa viene in Francia per le primissime Giornate Mondiali della Gioventù, che ancora non si chiamavano così, si fece una grande messa. Avevamo fatto un pellegrinaggio durante la notte per recarci alla messa e con noi anche papà aveva fatto il pellegrinaggio durante la notte. Non stava con i vescovi, non stava con i preti, stava con gli altri pellegrini, sotto la pioggia insieme a noi, per assistere alla grande Messa in cui il Papa dirà per la prima volta questa frase, una frase che marcherà la storia della Chiesa moderna: “Non abbiate paura, non abbiate paura, Francia figlia maggiore della Chiesa, che cosa hai fatto del tuo Battesimo? Non abbiate paura!”
Non voleva che dicessi che era un amico del Papa, il Papa gli chiedeva sempre consigli, gli piaceva parlare con lui, lui si sentiva invece un fedele del Papa. Il 13 maggio del ’81, lui e mamma vengono invitati a pranzo dal Papa, pranzano insieme, a un certo punto escono, prendono un taxi e poi l’aereo e quando arrivano a Parigi, all’aeroporto, prendono ancora un taxi per tornare a casa e sentono questa notizia incredibile e cioè l’attentato contro Giovanni Paolo II. Mio padre e mia madre erano state le ultime persone a vedere il Papa prima dell’attentato. La sera stessa mio padre si ammala ed è portato in ospedale, gli viene la febbre, anche lui viene dimesso lo stesso giorno del Papa, ci sono tante somiglianze, ma lui che aveva spirito scientifico dice, no non è vero. In realtà, c’è stato un tale shock, una tale emozione che anche a lui gli è venuto un calcolo alla vescica ed è stato dovuto operare d’urgenza. L’amicizia con il papa è continuata e il giorno della morte di mio padre, il giorno di Pasqua, naturalmente abbiamo avvisato Roma per avvisare chi di dovere che papà era morto. Il giorno prima avevamo ricevuto un telegramma del Papa, in cui gli augurava pronta guarigione. Un grande amico di papà, Ministro della Giustizia in Francia, ci chiama e ci dice: ho visto Giovanni Paolo II dare la benedizione papale il giorno di Pasqua e ho visto che era triste e allora ho pensato che Jérôme era morto. Visto che ho solo ancora qualche minuto a disposizione, ho pensato che vi potrei leggere un paio di cose. Innanzitutto vi potrei leggere un passaggio, un brano che ha scritto mio padre, un giorno che si trovava sul Lago di Tiberiade, è un testo molto semplice in cui lui spiega, lui non era un mistico, non è che parlava di Dio, lo viveva, viveva la sua fede, ma spiega in questo testo il suo incontro con Dio. E poi per concludere vi vorrei leggere le parole che Giovanni Paolo II aveva scritto per lui, in occasione della sua morte. “In questa piccola cappella di cattivo gusto, su questo pavimento recente, mi sono disteso completamente per baciare la traccia immaginaria dei passi di Colui che era lì. Questo gesto ingenuo, istintivo vorrei dire, mi sembrava ridicolo di per sé, ma non il sentimento che lo spingeva a fare. Dire che si ama è sempre impossibile, è la classica dichiarazione d’amore di quando ci si inginocchia, che è molto più vera di quanto l’immagine teatrale ci faccia supporre. Soprattutto, caro fratello, non credere che io abbia avuto una visione, che io sia stato trasportato, rapito da un estasi indicibile. No, tutto in me era ragionevole come sempre, giudicando la mia azione derisoria e irragionevole, con una vibrazione sconosciuta e familiare, cercando di arrivare all’unisono a una destinazione alla quale non potevo pretendere di giungere. Un figlio che ritrova il padre amatissimo, un padre infine conosciuto, un maestro riverito, un cuore sacro scoperto. Di tutto questo c’era qualcosa e anche di più, come posso dire, c’era tenerezza, dolcezza, affetto, amore timido eppure deciso, un bisogno di far sapere quanto ero toccato fino al cuore da tanta gentilezza e bontà da parte sua che ha voluto essere lì, che ha accettato che io lo riconoscessi e che mi ha accolto, semplicemente e in modo fraterno”.
E poi le parole di Giovanni Paolo II, che lui ha inviato il giorno della morte. “Queste parole di Cristo ci vengono in mente il giorno della morte del professor Lejeune, se il padre l’ha chiamato dalla terra il giorno stesso della Risurrezione di Cristo, è difficile non vedere in questa coincidenza un segno. Una tale morte rende testimonianza ancora più forte alla vita in cui l’uomo è chiamato a Gesù Cristo. Come scienziato è stato appassionato per la vita, in questo campo è stato una delle maggiori autorità a livello mondiale. Vari organismi lo avevano invitato per le conferenze e chiedevano il suo parere, era rispettato anche da coloro che non condividevano le convinzioni più profonde. Oggi desideriamo ringraziare il Creatore, dobbiamo parlare qui di carisma, perché il professor Lejeune ha sempre saputo fare uso della profonda conoscenza della vita e dei suoi segreti per il vero bene dell’uomo e della sua umanità. E soltanto per questo è diventato uno dei difensori più ardenti della vita, soprattutto dei bambini ancora non nati, che nella nostra civiltà contemporanea sono spesso minacciati al punto che si può pensare a una minaccia programmata”.
Per concludere vi vorrei dire solo ancora un paio di cose su quello che per me è stato mio padre, e perché volevo dare questa testimonianza sulla fortuna e la grazia che ho avuto di vivere accanto a lui tutti i giorni. Io mi occupo di business, lavoro per un’azienda americana, si può dire che incarno il grande capitalismo americano. La verità è che non è così, ovunque noi siamo, quale che sia il lavoro che facciamo, dobbiamo sempre tenere in mente questa frase: Quello che farete al più piccolo di voi, lo farete a me. Rimanete umili, semplici, freschi e se in fondo di fatto non sappiamo molto, possiamo però avere fiducia e sapere che la vita è felicità, grazie.

LETIZIA BARDAZZI:
In questi giorni sono successe grandi cose e sicuramente il racconto di un testimone, di un santo dei nostri tempi, di un uomo così eccezionale, di un racconto con gli occhi della figlia è un altra di queste storie eccezionali che hanno accompagnato i nostri giorni. Ringrazio di cuore Clara per essere venuta fino qua, la invitiamo a ritornare spesso a raccontarci dei passi, degli sviluppi della Fondazione Jérôme Lejeune in tutto il mondo, sappiamo che a novembre la Fondazione sarà ufficialmente presentata a Washington, grazie anche a un rapporto d‘amicizia che è nato con questa persona di cui vi accennavo prima, che ha ricevuto una grande grazia da Jérôme Lejeune. Quindi grazie di nuovo a lei, alla madre e buona sera a tutti.

(Trascrizione non rivista dai relatori)

Data

25 Agosto 2011

Ora

15:00

Edizione

2011

Luogo

Sala A3
Categoria
Incontri