EMERGENZE NEL MONDO: IL RUOLO DEGLI ORGANISMI INTERNAZIONALI

Emergenze nel mondo: il ruolo degli organismi internazionali

Partecipano: Paolo Carozza, Direttore dell’Helen Kellogg Institute for International Studies all’Università di Notre Dame, USA; Giampaolo Silvestri, Segretario Generale Fondazione AVSI; S. Ecc. Mons. Silvano Maria Tomasi, Osservatore permanente della Santa Sede per le Nazioni Unite a Ginevra; Pasquale Valentini, Segretario di Stato per gli Affari Esteri e Politici della Repubblica di San Marino. Introduce Roberto Fontolan, Direttore Centro Internazionale di Comunione e Liberazione.

 

ROBERTO FONTOLAN:
Buona sera, benvenuti, abbiamo questa occasione di riflessione attorno ad un tema veramente cruciale in questa stagione. Emergenze nel mondo: il ruolo degli organismi internazionali. Ci dobbiamo riaggiornare su questa parola, emergenze, perché abbiamo l’impressione che l’emergenza sia la normalità del nostro contesto attuale. Viviamo come immersi nelle emergenze, se pensiamo solo alle cronache di questo periodo: conflitti, violenze, terrorismo, migranti, rifugiati, una nazione intera di circa 90 milioni di persone è considerata rifugiata, come fosse un Paese più grande dell’Italia disperso nel mondo in cerca di casa. Viviamo come attorniati, in qualche caso, come assaltatati dalle emergenze che da un lato ci fanno pensare che siamo impotenti ad affrontarle. Dall’altro, ci domandiamo: ma quelle grandi organizzazioni Internazionali, tutte queste realtà nate dalle speranze dell’umanità nel secolo scorso, i grandi organismi nati dall’esperienza tremenda fatta dagli uomini dopo le grandi guerre e le grandi esplosioni ideologiche, che fine hanno fatto? Perché non siamo in grado, perché questi organismi sembrano non essere in grado di fronteggiare quella che ormai ci pare essere una specie di normalità del mondo, come affrontare il tema dei rifugiati e dei migranti, come affrontare il tema dei conflitti? Se pensiamo a quello più eclatante in corso in questo momento, in Siria, per non parlare della Libia, come affrontare i grandi nodi posti dalla globalizzazione? Tante volte ci pare che le Nazioni Unite e tutti i grandi organismi, per non parlare dell’Europa di cui in Italia si parla tantissimo, sembrano incapaci di gestire, di fronteggiare. Così, nel Meeting di quest’anno, seguendo un po’ la nostra storica attenzione e l’interesse per queste tematiche – perché è il mondo in cui viviamo in questo momento – queste grandi agenzie sono quello che abbiamo per poterci incontrare, per poter dialogare, per poter comunque, anche in uno spazio complesso, affrontare qualcosa: questo è il contesto dell’incontro di questa sera per il quale abbiamo delle persone che sono, innanzitutto, amici del Meeting, a partire da Mons. Tomasi, che è Nunzio a Ginevra e che conosce il Meeting benissimo. Anche molti di noi lo conoscono bene perché è un grande amico della nostra manifestazione. Credo venga sempre più volentieri, nonostante lo tiriamo per la giacca ogni volta per tante cose. Pasquale Valentini, che è Segretario di Stato per gli Affari Esteri e Politici della Repubblica di San Marino ci porterà l’esperienza di una piccola realtà, per quanto nobile, prestigiosa, gloriosa. Ieri la First Lady dell’Afghanistan ha passato il pomeriggio e la serata a San Marino, perché noi sappiamo che con il poco si può fare molto e, in questo senso, l’esperienza di realtà come quella della Santa Sede, che è una piccola realtà, nei grandi meccanismi e nelle dinamiche internazionali, di una realtà come San Marino, possono comunque dare un grande contributo. Paolo Carozza dirige l’Helen Kellog Institute for International Studies all’Università di Notre Dame nell’Indiana (Usa) e Giampaolo Silvestri è il Segretario Generale della Fondazione Avsi: dando la parola, dirò qualcosa di più su di loro. Ma volevo subito chiedere a Mons. Tomasi di aiutarci ad inquadrare questa situazione perché ha delle tesi interessanti e suggestive su questo tema e su questo titolo che, per altro, nasce proprio da conversazioni che ho avuto con lui, quando gli chiedevamo come n suggerimento su questi temi e su come poterli affrontare. In realtà volevamo averlo come ospite, abbiamo cercato anche un tema che gli piacesse perché non potesse dire di no. Non leggo la sua biografia perché occuperebbe tutta la serata e non avremmo più tempo per parlare dell’argomento: sappiate che Mons. Tomasi è Nunzio a Ginevra, che vuol dire Ambasciatore della Santa Sede presso gli Organismi Internazionali che sono a Ginevra. Ginevra è una città fra le più internazionali, tra le più popolate di organismi internazionali nel mondo. Ci sono circa novemila incontri di carattere diplomatico, tra formali ed informali, ogni anno a Ginevra: quindi, pensate cosa vuol dire questa piccola missione della Santa Sede a fronte di moloch, di grandissimi Paesi che hanno decine e decine di funzionari. Invece, tutto ciò che riguarda le tematiche che afferiscono al Consiglio dei Diritti Umani, alla Organizzazione Internazionale del Lavoro, alla Organizzazione Mondiale della Sanità, per citare solo tre dei grandi organismi internazionali che sono a Ginevra, si appoggiano sulle spalle di Mons. Tomasi e del suo staff, piccolo, agguerrito e veramente efficace. Perciò le chiederei, Eccellenza, di aprire questa nostra serata. Grazie.

S. ECC. MONS. SILVANO MARIA TOMASI:
Grazie, Roberto, cercherò di essere all’altezza del compito, di dare una inquadratura di come la situazione internazionale si trovi in questo momento davanti agli organismi internazionali. Nel 1945, finita la Seconda Guerra Mondiale con i suoi orrori, nasceva l’organizzazione delle Nazioni Unite, settant’anni fa, struttura mondiale con un sistema di agenzie specializzate su lavoro, salute, rifugiati e simili settori. Fu vista come una necessità vitale per sostenere l’ordine internazionale, i diritti umani, la stabilità economica, la prosperità e la prevenzione di tragedie come quelle che avevamo appena vissuto della guerra e dell’Olocausto. Dopo la Grande Guerra del 1915/1918, era stata costituita nel 1919 la Società delle Nazioni con simili obiettivi, ma il prevalere di interessi nazionali, l’inabilità di far fronte al potere dell’Asse e altri limiti avevano portato alla sua fine nel 1946. Oggi le crisi sono diffuse e si accavallano, focolai di guerre in Medio Oriente, guerra civile in Ucraina, conflitti etnici e politici in Africa, esodi massivi di popolazioni con tragedie continue che fanno, per esempio, del mare Mediterraneo un cimitero di richiedenti asilo, che vi annegano portando nelle sue profondità i loro sogni di libertà e benessere. Ci si può chiedere, davanti a questa evidenza, se le organizzazioni internazionali realizzano il loro scopo istituzionale e gestiscono adeguatamente i gravi problemi del pianeta. La violenza continua a mietere vittime e le ingiustizie sociali si acuiscono. Si può pensare che un ciclo di storia si chiuda, l’ONU del 1945 è cambiata ma di più è cambiato il mondo, si prospetta quindi la necessità di una terza generazione di istituzioni internazionali, multinazionali, dopo la Società delle Nazioni e dopo l’Onu, capaci di gestire i problemi globali quali il cambiamento climatico del pianete, il terrorismo, la prolificazione nucleare che i singoli Stati non sono in grado di risolvere unilateralmente, perché, come diceva Kofi Annan, si tratta di problemi senza passaporto. Il blocco dell’efficacia della Società delle Nazioni, dell’Onu, degli sforzi ricorrenti degli organismi internazionali e governativi a trovare vie di uscita dalle varie crisi, è stato e rimane l’interesse nazionale che detta le decisioni reali. In pratica, la sovranità nazionale è il filo che lega i tentativi fatti e poco riusciti di aprirsi al bene comune e di aggiornare la struttura esistente per adeguarla alla società. Gli Stati divengono non solo sempre più connessi tra loro, ma anche sempre più interdipendenti, una lettura imparziale dell’attività dell’Onu, tuttavia, mostra che questa rappresenta il meccanismo migliore finora creato per trattare quei problemi che il sistema tradizionale di Stati non può affrontare. Arena di incontro, l’Onu ha offerto la possibilità di negoziare e prevenire conflitti, coordinare assistenza nelle emergenze, sostenere e legittimare il processo di indipendenza dei Paesi coloniali, del disarmo, lo sviluppo dei Paesi più poveri. Un esempio di come l’Onu ha cercato di rispondere meglio alle sensibilità culturali e politiche della comunità internazionale è il suo approccio ai diritti umani. Siamo passati dalla Commissione per i Diritti Umani, istituita nel 1948, al Consiglio dei Diritti Umani: è stato un passo in avanti perché nel nuovo sistema ogni Stato viene esaminato per come applica i diritti umani. Almeno in qualche modo, si forzano gli Stati a fare un esame di coscienza per come si rapportano con questo principio fondamentale che viene utilizzato nel linguaggio continuo della comunità internazionale. Ma a complicare la percezione di inefficienza e di incoerenza fra i principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, nei trattati e nelle dichiarazioni ufficiali, è lo sviluppo che ha preso la governance mondiale. Si è arrivati a quelle che potremmo chiamare tre nazioni unite, o a quelli che potremmo chiamare tre gruppi di attori nella governance mondiale. L’insieme di leggi, procedure, norme, costituzioni che costituiscono i rapporti tra i cittadini, il mercato e lo Stato è la governance. In questo contesto si muovono gli Stati, per esempio l’Assemblea Generale, i funzionari internazionali al servizio della macchina burocratica indispensabile per il funzionamento degli Stati e così via. Si tratta di un aspetto nuovo del multiculturalismo, il fatto che ci siano nuove forze che si coagulano per fare quello che dovrebbero fare gli enti ufficiali come le Nazioni Unite. Nella nebulosa della governance globale, si mescolano aspetti strutturali e interessi nazionali, mancanza di visione e manipolazioni burocratiche, duplicazione di servizi e raggruppamenti artificiali. Il risultato è lentezza di azione se non paralisi completa. In molti anni, da quando si discute la riforma della governance mondiale, sono emerse varie proposte: una riforma realista che faccia funzionare il sistema esistente, una riforma di tipo federale sul modello dell’attuale Unione Europea e infine una proposta di fare realmente uno Stato. Nell’ultimo decennio, il paradigma geopolitico ed economico che aveva portato a consolidare la divisione tra Nord e Sud del mondo è stato ampiamente superato. Come conclude lo Human Development Report del 2013, i principi che hanno motivato le istituzioni del dopo secondo conflitto mondiale e police-makers hanno bisogno di essere ricalibrati. In questo senso, il tentativo di sbloccare lo status quo ha spinto gli Stati alleatisi come gruppo intermedio tra i Paesi sviluppati e i Paesi in via di sviluppo – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – che rappresentano circa metà della popolazione mondiale, ad affermare la loro autonomia con la creazione della nuova Banca di Sviluppo. Quindi, abbiamo un fenomeno nuovo che sta avvenendo: in risposta alla lentezza e alla incapacità delle istituzioni esistenti, stanno nascendo la Global Economic Forum, la nuova Banca Mondiale per lo Sviluppo, alleanze politiche come il gruppo del G20. Tali rapporti sono l’espressione di alleanze tra forti e orientate a preservare il potere di chi già lo detiene, inevitabilmente provocando delle reazioni. Inoltre, iniziative private si mostrano più efficaci. Ad esempio, le decisioni prese da strutture come il World Economic Forum riescono a mobilitare i leader e a dare delle idee che le Nazioni Unite non danno. Da parte sua, la Dottrina Sociale della Chiesa offre una dottrina di principio ed appoggia il progetto di un’autorità mondiale, partendo da una base etica che rende possibile un’azione inclusiva e universale. Questo dall’inizio degli anni ’60, con Giovanni XXIII che già proponeva nella Pacem in terris l’esigenza di un’autorità mondiale, ragionando così: ci sono dei problemi che non possono essere risolti da un singolo Stato e che quindi trascendono la capacità di uno Stato. Per cui, per il bene comune, è necessario trovare un’autorità mondiale che riesca a rispondere alle esigenze della gente. Il principio di sussidiarietà sarebbe la via per cui questa autorità affronterebbe le questioni che lo Stato da solo non riesce a risolvere. Mentre l’ONU attualmente non è in grado di farlo, l’autorità proposta avrebbe la capacità politica di obbligare l’attuazione dei diritti. Il Concilio Vaticano II, poi, con la costituzione Gaudium in Spes, riprende gli argomenti di Pacem in terris, ripresi da vari papi, da Paolo VI nella Populorum progressio: c’è tutto un filone della Dottrina Sociale della Chiesa che sostiene l’esigenza di una autorità globale. Non di uno Stato globale ma di un’autorità che abbia potere efficace di intervenire e di decidere. Nel 2009, l’enciclica di Papa Benedetto Caritas in veritate opta per una visione comprensiva. Dice Papa Benedetto: “In una società in via di globalizzazione il bene comune e l’impegno per esso non possono che assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle nazioni, così da dare forma di dignità e di pace alla città dell’uomo e renderla in qualche modo figura anticipatrice della città senza barriere di Dio”. Parla della necessità di dare risposta alle implicazioni della globalizzazione da una solidarietà universale intesa come solidarietà internazionale e tra i popoli tendente a raggiungere una meta di autentico sviluppo planetario. Guardando al futuro, cosa possiamo proiettare? Che tipo di aspettative possiamo anticipare? Le fondamenta su cui costruire le istituzioni internazionali del futuro non possono essere traballanti. L’andamento zoppicante del sistema internazionale odierno ha prodotto una nebulosa di enti che assieme esercitano un government globale che ci aiuta a capire quello che sta avvenendo, ma non ci sospinge ad accordarci su quello che dovrebbe accadere. Senza entrare in proposte specifiche, se uno Stato globale o enti tematici debbano essere istituiti, la Dottrina Sociale della Chiesa propone che abbiano un’autorità reale capace di decidere e quindi di risolvere il problema globale. Le forze sociali transnazionali si muovono in questa direzione, che trascende il sistema che è emerso dal Trattato di Vestfalia. La base etica che sottende la carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo rimane valida. La controcultura degli anni ’60, simboleggiata da Woodstock, ha introdotto una interpretazione diversa delle parole utilizzate in questi documenti, parole che vengono ridefinite nel contesto di un individualismo ad oltranza. Qui mi viene in mente una frase che Roberto aveva coniato: “Il festival di Woodstock ammazza le Nazioni Unite e ora le Nazioni Unite devono essere rifatte”. Per esempio, la parola sesso viene sostituita da gender, discriminazione da distinzione, famiglia da famiglie, mentre mancano parole come matrimonio, religione, fede e amore: sono sparite. Nel testo degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile del 2015, la dignità della persona non è inerente alla sua natura ma il risultato di benessere economico e uguaglianza sociale, e deve essere conquistata con le nostre proprie forze, con programmi e strategie politiche. Indipendentemente quindi da ogni riferimento alla trascendenza. In sostanza si tratta di due antropologie diverse e di due filosofie opposte: una che parte dal realismo dell’essere come tale, e l’altra da una definizione ideologica soggettiva delle cose. In questa mentalità, i tribunali tendono a misconoscere degli atti intrinsecamente cattivi, dato che tutto è questione di circostanze salvo la libertà: ma, osserva Papa Francesco nella recente enciclica Laudato si’, “un antropocentrismo deviato dà vita ad un stile di vita deviato, il relativismo pratico caratterizza la nostra epoca ed è ancora più pericoloso di quello dottrinale”. Quando l’essere umano pone se stesso al centro finisce per dare priorità assoluta ai suoi interessi contingenti e tutto il resto diventa relativo. Perciò non dovrebbe meravigliare il fatto che insieme all’onnipresenza e onnipotenza del paradigma tecnocratico e alla adorazione del potere umano senza limiti si sviluppi nei soggetti questo relativismo in cui tutto diventa irrilevante se non serve ai propri interessi immediati. In questo contesto, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i Governi nazionali e dotate di potere di sanzione. Ma non sarà possibile sviluppare quadri regolatori globali che impongano obblighi e che impediscano azioni inaccettabili, come vediamo nelle crisi attuali, la crudeltà, per esempio, del cosiddetto Stato islamico, senza il superamento degli interessi nazionali e senza rimpiazzare l’individualismo imperante con una vera globalizzazione della solidarietà. In conclusione, non sarà la moltiplicazione delle strutture ad hoc, né l’efficienza accresciuta delle istituzioni come tali che porteranno allo sviluppo integrale, ma la creatività della persona posta al centro di ogni programmazione, dandole gli spazi necessari affinché possa affermarsi. Grazie.

ROBERTO FONTOLAN:
Bene, grazie, Eccellenza, perché come speravo ci ha aiutato non solo a capire, a imparare qualche cosa di più di questo contesto internazionale, ma ha anche dato una lettura nuova, innovativa di quello che accade, che vediamo. Ed ora, sapete che c’è un rapporto storico di amicizia tra il Meeting e la Repubblica di San Marino: questo rapporto è incarnato qui oggi da Pasquale Valentini che dal 2012 è Segretario di Stato per gli Affari Esteri e Politici, per il Turismo e i Rapporti con le Associazioni. Ha una lunga biografia di impegno, sia nel campo politico che sociale e del non profit, però oggi è qui in questa qualità di Ministro degli Esteri di San Marino, che partecipa anche alla vita reale di questi organismi internazionali. Siamo qui per ascoltare anche il suo contributo e i suoi punti di vista.

PASQUALE VALENTINI:
Grazie, prendo per buone tutte le cose che mi hai detto anche se esagerate. Il contributo che voglio portare, ringraziando di questa opportunità, nel quadro generale che Mons. Tomasi ha definito, è il punto di osservazione che un piccolo Stato ha nei confronti di questi organismi, essendone parte, membro. Alcune osservazioni del quadro generale per dire come affrontare questa situazione. Innanzitutto, è chiaro che di fronte alla gravità e alla globalità delle emergenze nelle quali ci troviamo immersi, l’esistenza di un ambito multilaterale nel quale le nazioni possano dialogare e confrontarsi e cercare soluzioni che necessariamente, diceva prima Mons. Tomasi, devono essere globali, che superino il potere dei singoli Stati, è indispensabile, è importantissima. San Giovanni Paolo II, nel suo intervento all’Onu nel ’95, definiva questo ambito come “il centro morale in cui tutte le nazioni del mondo si sentono a casa loro, per così dire una famiglia di anziani”: è la definizione che dava allora dell’organizzazione delle Nazioni Unite. E immaginate che per una realtà di 60 kmq e 32 mila abitanti come è la Repubblica di San Marino, che non è una potenza né economica né militare, non ha nel sottosuolo né petrolio né diamanti, è chiaro che essere parte di un ambito come questo è una grossa responsabilità ma è anche una garanzia, perché vuol dire che di fronte ad ogni prevaricazione comunque possiamo rifarci a questa grande famiglia. Però, è evidente credo nell’esperienza, soprattutto di questi ultimi tempi, l’esigenza di un ripensamento, perché la percezione generale è quella di una impotenza, di un indebolimento della capacità di intervento di questi organismi di fronte alla gravità dell’emergenza. Per cui, il tema di una riforma delle varie articolazione delle Nazioni Unite – un tema che mi sono trovato sul tavolo dei lavori quando ho preso questa responsabilità – è un tema che anima il dibattito all’interno dell’Assemblea Generale delle varie organizzazioni. Per cui, vorrei dare un piccolo contributo in questo senso, rispetto alla direzione in cui possiamo affrontare questo ripensamento. Certamente, credo che il punto di riferimento sia il discorso del rispetto dei diritti umani: la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è sicuramente la base del dialogo tra le nazioni. Perché, anche qui, per dialogare occorre andare alla radice del dialogo, quindi occorre andare a qualcosa che tutte le nazioni possano considerare come qualcosa di universale. E credo che ci siano due grossi limiti che stanno emergendo, li ha sottolineati Mons. Tomasi: uno è che siamo davanti ad uno spostamento del diritto da quelle che erano le evidenze naturali, quindi il carattere universale che questo diritto aveva, la base della Dichiarazione stessa, per affermare invece una visione individualistica del diritto che perde di vista l’obiettivo principale, per cui alla fine quella che doveva essere la promozione della persona umana in tutte le sue dimensioni, anche religiosa, e in tutte le sue relazioni, quella familiare in particolare, vede questi elementi scomparire dai documenti. Addirittura il diritto fa uno spostamento grave. Per cui, è chiaro che quel punto di riferimento universale, se non si ripensa a questa radice, è eliminato, quindi gli interessi particolari avranno e hanno sulle decisioni sicuramente il sopravvento. Conseguenza di questo è il divario fra gli obiettivi generali che l’organizzazione delle Nazioni Unite si può dare e le decisioni dei singoli Stati. Oggi non ci sono ancora – anche se il bell’esempio del Consiglio sui Diritti Umani va in questa direzione, strumenti e metodi che consentano che quello che è universalmente riconosciuto possa essere poi qualcosa su cui anche le politiche dei singoli Stati sono in qualche modo esaminate. Accanto a questo, c’è sicuramente uno scenario mondiale che è cambiato per cui la configurazione di questi organismi non rispecchia più la realtà degli Stati. Ad esempio, il continente africano è quasi del tutto inincidente dal punto di vista delle decisioni, non è negli organismi decisionali e questa è una spinta notevole a chiedere una rappresentanza diversa. L’altra cosa è la ricerca delle soluzioni a tutte queste problematiche, in cui si perde di vista il fatto che forse occorre partire dai fatti di dialogo, di solidarietà esistenti, dai fatti che dimostrano che ci sono nel mondo comunque tentativi, comunque soggetti, comunque esperienze che, di fatto, quello che dal punto di vista ideale viene affermato, è praticato. E anziché lo spirito di sussidiarietà, anziché immaginare astrattamente le soluzioni ai problemi, forse la prima cosa da fare sarebbe una logica di valorizzazione e di sostegno di quelle esperienze che di fronte a questi problemi delle soluzioni le stanno sperimentando, le stanno trovando. Un esempio l’ho avuto anche oggi, ascoltando la signora afghana. Lei chiede un sostegno all’azione che stanno portando avanti perché non potremmo pensare alle soluzioni di quel Paese a prescindere dai tentativi che loro stanno concretamente portando avanti. L’ultimo suggerimento che è una riflessione generale: io credo che la crisi di questi organismi rispecchi un po’ la crisi che tutta la politica sta vivendo, per cui mi viene da dire un nota bene finale. Credo che ci sia bisogno di un impegno comune per vivere la politica in un altro modo, per poter esprimere rappresentanze istituzionali anche all’interno di questo organismo, che sia all’altezza dell’emergenza che stiamo vivendo perché questo, nella piccola esperienza che sto facendo, è ciò con cui molte volte mi scontro. Parliamo di problemi di una profondità, di una tale gravità, a volte con un approccio non assolutamente adeguato: l’obiettivo che dovremmo avere è quello della promozione della persona umana.

ROBERTO FONTOLAN:
Grazie. Davanti a tanta complessità, noi, io, che cosa posso fare? Siamo solo granellini di sabbia nel grande ingranaggio, nella storia di queste cose che ci superano, ci sentiamo come dire totalmente schiacciati da queste realtà e da queste crisi, da queste paralisi, come sono state definite? E allora, qui forse diventa interessante, importante, decisiva l’esperienza della cosiddetta società civile, cioè le realtà che si muovono per una espressività sociale vera, forte e autentica e che collaborano e vivono comunque all’interno di questo sistema, che lavorano tantissimo anche nell’ambito dell’emergenza. Qui è interessante a questo punto l’esperienza di Avsi che porta Giampaolo Silvestri, da luglio 2013 Segretario Generale della Fondazione Avsi, una organizzazione non governativa attiva in oltre 30 Paesi del mondo con progetti di vario tipi e in vari campi, e che lavora assiduamente nei settori delle cosiddette emergenze. Nello scorso mese di aprile, Giampaolo Silvestri è stato nominato dal Ministero degli Esteri membro del Consiglio Nazionale per la Cooperazione e lo Sviluppo, in qualità di rappresentante delle organizzazioni della società civile. A questo punto, è la tua parola che vogliamo sentire su questa dimensione della crisi degli organismi internazionali.

GIAMPAOLO SILVESTRI:
Grazie, buona sera a tutti. Chiaramente io cercherò di portare degli esempi di quella che è la nostra esperienza sul terreno, dove avviene questa collaborazione, questo lavoro con gli organismi internazionali nelle situazioni di emergenza. Cercherò quindi di far vedere come tutte quelle problematiche, la crisi di cui parlava Mons. Tomasi, in qualche modo si riflettano poi nell’operatività di tutti i giorni. Innanzitutto, parlerei più di crisi che di emergenza, perché comunque ormai ci sono situazioni nel mondo in cui le difficoltà vanno avanti da moltissimi anni, basta pensare alle vicenda di Siria, Iraq: non si può più parlare di emergenza perché lì stiamo parlando di 5, 6 anni, forse è più corretto parlare di situazioni di crisi. Oggi noi, come Avsi, siamo impegnati nella situazione della crisi di Siria e Iraq, quindi nel sistema dei rifugiati siriani in Libano, in Giordania. Siamo impegnati nella crisi del Sud Sudan, di cui nessuno parla ma che ormai da due anni va avanti, con una guerra civile più o meno mascherata; ad Adab, dove c’è il più grande campo profughi del mondo, nel nord del Kenya, dove ci sono 400 mila rifugiati somali. Lì stiamo parlando di una situazione dove il campo esiste dal 1992, quindi più di 20 anni. E poi, c’è la Repubblica Democratica del Congo, dove si parla di qualche milione di sfollati interni, una situazione di guerra, anche lì una situazione di cui sui giornali, sui mass media non si parla. E poi, la Sierra Leone, dove c’è stata l’emergenza Ebola che purtroppo non è ancora finita: ancora oggi la Sierra Leone non è stata dichiarata ebola free. Allora, cosa succede a queste persone quando si verifica una emergenza? Queste persone perdono tutto in queste emergenze dovute sostanzialmente a motivi di sicurezza, nella maggior parte dei casi, o comunque a crisi economiche. Da una parte, fino a pochi anni fa, eravamo abituati a queste crisi in Africa, dove si poteva forse dire, superficialmente, che queste persone già avevano poco, e dovendo scappare perdevano poco, che però per loro valeva molto. Ma oggi questa crisi è arrivata in contesti molto più simili a noi, dove queste persone hanno un livello e un tenore di vita abbastanza simile al nostro: penso alla Siria ma soprattutto penso all’Iraq. Queste persone da un giorno all’altro hanno perso tutto. Dovete immaginare di essere a casa vostra, con il vostro tenore di vita, telefono, wi-fi, macchina, frigo, condizionatore: dall’oggi al domani, non avete nulla, provate a pensare, nulla se non i vestiti che avete addosso. Questo bisogna ogni tanto immaginarselo, per capire cosa vogliono dire queste situazioni, perché è quello che è successo ai profughi iracheni. Vivevano come noi, Mosul aveva un tenore di vita, non dico simile a Rimini, ma molte persone vivevano con le stesse modalità: da un giorno all’altro, nulla se non i vestiti che avevano addosso. Capite bene che la situazione diventa enormemente grave: queste persone hanno bisogno di tutto, tutto dal punto di vista materiale, di aiuti, vestiti, cibo, case, tutto quello che è necessario. Ma soprattutto hanno bisogno di non essere abbandonate, hanno bisogno di uno sguardo diverso. Perché è questo quello che loro ci hanno chiesto e ci chiedono in queste situazioni: questo vale dappertutto, chiedono di non essere abbandonati, di non essere lasciati soli, di uno sguardo diverso. E’ quello che noi proviamo a fare, cioè promuovere la dignità della loro persona con interventi che evidentemente sono limitati. Quello che noi possiamo fare è limitato, non possiamo risolvere i problemi di tutti, possiamo però fare dei piccoli interventi in cui si possa vedere cosa vuol dire non lasciarli soli, che siano poi anche esemplificativi per altri. Quando succede una emergenza in cui riteniamo di dovere intervenire, molto spesso perché siamo già presenti o perché comunque c’è qualcuno che ci chiede un aiuto direttamente, noi lanciamo sempre una campagna di raccolta fondi. Questo è molto importante perché non è solo per una questione di soldi: certo, con la raccolta fondi ci sono i soldi e si possono fare degli interventi. Ma comunque dietro di noi c’è un popolo. Noi abbiamo spesso lanciato queste campagne di raccolta fondi qui al Meeting di Rimini, e c’è sempre stata una grande risposta, molto positiva, di tantissima gente che ha aderito. Questo fa vedere che c’è un popolo che si muove, che fa quello che può, un piccolo gesto di carità, di solidarietà e questo noi cerchiamo di comunicarlo alle persone che aiutiamo, che nell’aiuto che noi portiamo c’è dietro un popolo che si muove. E quando riusciamo a comunicarlo, si vede, queste persone capiscono che non è solamente il gesto di dargli la coperta oppure il pacco del cibo oppure mandare a scuola i bambini, ma è frutto di un lavoro che c’è dietro. Cerchiamo sempre di spiegarlo, che dietro c’è un lavoro di persone che si muovono, che fanno delle iniziative, che qua in Italia c’è un popolo di persone che si muove perché ha deciso di non lasciarli soli. Anche questo è un aspetto fondamentale, perché crea comunque una coscienza nuova. Ora io vorrei far vedere un breve video di 5’, un esempio di quello che facciamo sul terreno, in collaborazione con gli organismi internazionali, in Libano in collaborazione con l’Unicef per i rifugiati siriani.

Video.

E’ solo l’esempio di un’attività che facciamo in un progetto in collaborazione con Unicef, uno degli organismi internazionali con cui collaboriamo. Volevo fare alcuni esempi per far capire cosa significa collaborare con questi organismi e le difficoltà che ci sono, che derivano dall’approccio che diceva prima Monsignor Tomasi. Oggi, ad esempio, in Libano, ma in molti Paesi, un modo che questi organismi vogliono introdurre e stanno introducendo per aiutare i profughi è quello di dargli una tessera prepagata: questo è possibile solo in Paesi dove c’è un contesto commerciale, bancario, ecc. Però questa è la politica: ad ogni profugo viene data una tessera prepagata con dei soldi che può spendere a seconda dei casi, dove vuole o solo in certi negozi. Questo approccio ha un vantaggio: riduce molto i costi di gestione, come si dice oggi, cost-effective, ma è estremamente spersonalizzante, cioè alla fine il profugo, la persona, diventa un numero di codice. Noi combattiamo molto gli organismi su questo approccio, perché crediamo che alla fine sia vero, forse costa di meno, ma non aiuta a promuovere la dignità, perché rende la persona totalmente dipendente dall’aiuto. Quello che proponiamo in alternativa sono, per esempio, programmi di cash for work: dove è possibile, far lavorare gli uomini che sono in questi campi o in queste situazioni. Dovete considerare che qua ci sono profughi da cinque anni, uomini che non lavorano, non fanno nulla: potete bene immaginare come sia estremamente degradante non lavorare. Quindi, farli lavorare in piccoli lavori di utilità sociale che in qualche modo aiutano queste persone a recuperare una propria dignità. Questo è molto difficile da far passare, perché costa di più, perché è più complicato gestirlo, perché ha bisogno di tutta una serie di controlli, però è questo l’approccio che noi proponiamo perché riteniamo che in questo modo si possa promuovere meglio la dignità della persona. Però, è in un dialogo con questi organismi che riusciamo a trovare dei varchi: non è semplice perché bisogna combattere una battaglia ogni giorno. Questi organismi sono molto importanti perché spesso sono gli unici ad intervenire in certe situazioni, ma poi hanno tutto il peso della burocratizzazione, della sovrapposizione, ecc. La nostra esperienza ci dice che però questi organismi sono fatti anche di persone che, se in qualche modo colpite, affascinate, vedendo qualcosa di diverso, qualcosa di più efficace, qualcosa di più interessante anche per loro, che possa promuovere meglio la dignità della persona, possono capire il vantaggio di un certo approccio diverso. La nostra esperienza ci dice che in queste situazioni di crisi, che aumentano, come ha detto anche prima Roberto – oggi nel mondo 70 milioni di profughi e sfollati è forse il punto più alto della storia per numero di profughi – è possibile rimanerci con una identità chiara che però non deve essere solo proclamata ma che si deve vedere nei fatti, in soluzione alternative, diverse ed efficaci che si propongono. Questo è quello che noi cerchiamo di fare, facendo vedere un’identità diversa che poi non è altro che gesti di carità che possano sconfiggere il nichilismo e lo scetticismo che in qualche modo avvolgono anche noi. Solo attraverso questi che sono segni di una presenza diversa, è possibile fare qualcosa di diverso, è possibile provare ad attraversare questa mancanza di cui parla anche il Meeting e che ci ha citato il Papa nel discorso che ha fatto al Meeting. Ecco quello che proviamo a fare. Faccio l’ultimo esempio: in Libano c’è un ragazzo sciita che noi abbiamo aiutato con il programma di sostegno a distanza, essendo lì da molti anni, che quindi ha potuto studiare e in qualche modo crescere, anche attraverso il nostro contributo, che vedendo quello che noi facciamo ha deciso di venire a lavorare con noi e aiuta dei profughi sunniti. Voi potete immaginare come questo sia dirompente per la mentalità che c’è lì, cioè uno sciita che lavora a favore di profughi sunniti. Sapete bene che oggi il contrasto maggiore è proprio tra sunniti e sciiti in tutto il Medio Oriente. Ecco, cose come queste, che nascono da una educazione, che nascono da una presenza di anni, che nascono da un modo diverso di vedere le cose e di proporre soluzioni diverse, sono quelle che fanno vedere qualcosa di differente anche a questi organismi internazionali altamente burocratizzati, pieni di politiche, di regole, in cui si cerca appunto di declinare queste teorie dei diritti umani, di cui parlava prima il Nunzio. Questa è la chiave di volta, quello che noi proviamo a fare e che riusciamo a fare, anche grazie soprattutto al vostro contributo.

ROBERTO FONTOLAN:
Ed ora, Paolo Carozza. Come dicevo, è Direttore del Kellogg Institute per gli Studi Internazionali, Professore di Legge, uno specialista in Diritto Comparato Costituzionale. Ha lavorato anche a lungo in un organismo internazionale perché è stato membro per parecchi anni della Commissione Interamericana sui Diritti Umani, un organismo molto importante: perciò la sua è la visione dello studioso, dell’analista ma anche di chi ha lavorato dentro queste situazioni. Paolo, a te la parola.

PAOLO CAROZZA:
Grazie Roberto. Mi colpisce, essendo l’ultimo a intervenire, che nonostante una prospettiva che potrebbe essere molto diversa – sono l’unico che viene da Oltreoceano, di lingua madre italiana, l’unico che viene dal mondo universitario -, quanto condividiamo il giudizio sul valore e sui vizi degli organismi internazionali. Ho impostato la mia relazione secondo una prospettiva leggermente differente da quella dei miei colleghi. Come unico Professore e accademico del gruppo, ritengo possa essere significativo portare un contributo teorico e comprensivo circa la discussione del ruolo degli organismi internazionali nel mondo. Per prima cosa, vorrei invitarvi a riflettere sul contesto sociale e politico in cui le istituzioni internazionali si collocano a livello globale. Non dovremmo, infatti, dare per scontato che si tratta spesso e volentieri di fenomeni molto recenti nella storia del mondo. Sino al ventesimo secolo, ad esempio, non esisteva nessuna delle istituzioni di cui parliamo oggi. Pertanto, è utile domandarsi come si siano fondate, perché siano emerse ora, e con quale scopo. Quello che constatiamo è il volto di un mondo in evoluzione nella sua complessità, dove il numero di attori è aumentato esponenzialmente e dunque il bisogno di ordine nel mondo non è più un’esigenza di fazioni politiche elitarie. Viviamo in un mondo in cui, in termini materiali, si assiste ad una grande interdipendenza di Stati e nazioni, dove le azioni verificatesi in una parte del mondo possono facilmente influenzare il benessere di gente che vive agli antipodi. Quindi, emerge un bisogno fondamentale di coordinazione, emerge la necessità che le istituzioni internazionali diventino capaci di coordinare una folta platea di attori diversi, affinché questi possano cooperare per il bene comune. Per questa ragione, vista la complessità e l’interdipendenza del mondo, oggi non possiamo più immaginare una realtà senza organismi internazionali, nonostante questi siano di recente formazione. Per comprenderne l’essenzialità, pensiamo al ruolo che occupano nella società di oggi. Li riteniamo essenziali nello scambio di delicate informazioni, nel raggiungimento di accordi internazionali, nel controllo di abusi di potere e nello sviluppo dell’integrazione di nuovi attori e/o comunità emarginate. Queste istituzioni ci aiutano a ingaggiare le dinamiche di interesse e potere che governano il mondo e si impegnano nel tentativo di armonizzare questi poteri e interessi con lo scopo finale di ogni singolo organismo. Intendono, dunque, trasformare principi e valori teorici in pratiche realistiche che possano produrre effetti concreti nell’affrontare le grandi sfide della nostra epoca. Tuttavia, abbiamo creato ogni organizzazione internazionale secondo una specifica e limitata funzione, senza che alcuna di esse abbia la facoltà di rispondere ai bisogni della comunità umana nel suo complesso. Non esiste un’organizzazione che, singolarmente, possa elaborare un approccio generale che riesca a far fronte all’intera gamma di bisogni umani internazionali. In questo, il sistema di governance della società internazionale è molto diverso da quello che ci aspettiamo dall’assetto costituzionale di un singolo Paese, dove lo Stato ha il compito di sottendere ai bisogni generali del Paese secondo un’unica prospettiva che integra e armonizza complessivamente i vari interessi del popolo. Ciascuna istituzione internazionale, invece, rappresenta solo un frammento del bisogno che abbiamo di coordinazione e sviluppo dell’ordine generale della famiglia umana nel suo complesso.
Questo ci porta a riflettere sulla debolezza di un sistema che sembra mancare di un’unità centrale, un moto propulsore che muova organicamente tutte le membra e faccia di questi organismi distinti un corpo solo. Sebbene il diritto internazionale riconosca la personalità legale delle istituzioni internazionali secondo certe capacità e specifici ruoli, questi organismi nel complesso non riflettono ancora una comunità umana, coesa a livello internazionale. Come nel caso della celebre favola di Pinocchio, queste istituzioni sembrano rappresentare un bambino in carne ed ossa ma in realtà rimangono nei loro aspetti fondamentali dei burattini, delle marionette. Infatti, esattamente come delle marionette, tendono ad essere vulnerabili alle manipolazioni dagli specifici interessi di potere di coloro che le controllano. Esattamente come Pinocchio, che veniva persuaso dagli interessi dal gatto e della volpe, le organizzazioni internazionali molto spesso si trovano sballottate in una direzione o nell’altra da quei poteri che li vorrebbero usare per interessi molto particolari – di natura politica o economica o ideologica -, invece di utilizzarli come strumenti necessari per costruire il bene comune di tutta la famiglia umana.
Questa è anche la percezione che è emersa concretamente nella mia esperienza di lavoro negli organismi internazionali: in particolare, dal tempo trascorso in istituzioni orientate alla difesa dei diritti umani in ambito internazionale. Sebbene creati per rispondere a specifici bisogni umani, molto spesso queste istituzioni e i diritti che difendono vengono manipolati e utilizzati nell’interesse di giochi di potere ideologici. Come esempio, basta guardare alla dicotomia fra le intenzioni dei Trattati che proteggono il diritto alla vita in termini molto ampi e il tentativo di strumentalizzarne l’interpretazione compiuto da parte di questi organismi internazionali in modo da costringere gli Stati a liberalizzare le leggi sull’aborto in tutto il mondo. Cosi il diritto alla vita viene trasformato nell’obbligo di eliminare la vita. Altro esempio di tale manipolazione, che Sua Eccellenza Tomasi conosce molto bene, è la proposta attuale di creare un nuovo strumento giuridico internazionale che “tuteli” gli anziani, dando loro il diritto di richiedere l’assistenza statale al suicidio. Qui siamo davvero entrati nel mondo di George Orwell… Tornando alla favola di Pinocchio, di che cosa aveva bisogno Pinocchio per diventare un ragazzo vero? Necessitava di diventare buono, cioè dell’esercizio della virtù, della capacità di ragione, e soprattutto della disponibilità a riconoscere la sua dipendenza dal padre che lo aveva creato, invece di scapparsene via. In altre parole, ciò di cui Pinocchio aveva bisogno era un cuore nel senso più costitutivo del termine. In termini analoghi, possiamo porci la stessa domanda rispetto agli organismi internazionali. Di che cosa necessitano per diventare più completi nelle loro capacità umane? Come Pinocchio, hanno bisogno di un cuore, inteso come capacità di comprensione del bene e volontà di perseguirlo: questo bene umano si esprime come desiderio di libertà, giustizia, comunità, sviluppo. In cambio di un chiaro orientamento verso questi bisogni umani autentici, spesso troviamo solo un’intrecciatura di fili che tirano il burattino nella direzione di qualche interesse parziale. Il problema, ovviamente, riguarda la modalità secondo cui sia possibile creare risposte che veramente favoriscano il bene comune a livello globale. Ciò che manca è una politica internazionale che sia in grado di proporre e implementare un impegno nei confronti del bene comune dell’umanità. In tempi recenti, si è prestata molta attenzione alla simpatia che il Papa ha mostrato nei confronti di certi discorsi ambientalisti riportati nella sua enciclica Laudato si’. Per quanto sia infatti interessante questo aspetto dell’enciclica, anche più rilevante e in certa misura sottovalutati sono, tuttavia, altri due punti. Il primo è la sua denuncia sulla mancanza di una politica globale capace di proporre il bene comune. E il secondo è la sua osservazione che la frammentazione della conoscenza della realtà – conseguenza di quello che il Papa chiama il “paradigma tecnocratico” – porta ad una riduzione della capacità di comprendere le grandi sfide del mondo nella totalità delle loro dimensioni umane. Questa è infatti la diagnosi che immancabilmente emerge da uno sguardo trasversale al lavoro delle varie organizzazioni internazionali. L’assenza di un’autentica politica di comunità internazionale è dovuta a molteplici fattori. Il primo è la frammentazione di cui ho parlato prima, dove non esiste una singola organizzazione con una visione generale di fronte a tutta la gamma di bisogni umani: ognuna ha infatti un orizzonte specifico e limitato. E questo, a sua volta, rappresenta la riduzione tecnocratica tanto criticata dal Papa. Un secondo fattore riguarda il fatto che le organizzazioni internazionali rimangono subordinate ai vari Stati. Questi Stati non solo sono drammaticamente disuniti fra di loro ma spesso sono anche a loro a volta il luogo di disfunzioni politiche a livello nazionale. Quanti di noi sono in grado di nominare anche una dozzina di Stati nel mondo dove la politica interna è in uno stato di salute, dove si può avere fiducia che questa aiuti i propri popoli a perseguire il bene comune? Sicuramente non la mia, quella degli Stati Uniti, e mi sembra (con occhi da straniero) che non sia neanche il caso di quella del Paese in cui mi trovo adesso. Queste patologie a livello di politica interna provocano necessariamente un impatto negativo anche a livello di istituzioni globali. A questo punto: qual è la prossima mossa di fronte a una strada che pare senza uscita? Proviamo ad identificare anzitutto una posizione che sicuramente non potrebbe rappresentare la soluzione adeguata: la creazione di una nuova organizzazione a statuto speciale che abbia potere decisionale rispetto alle altre, cioè cercare di costituire una sorta di super-Stato che replichi i poteri dello Stato a livello globale. Ad esempio, espandere semplicemente il potere delle Nazioni Unite non risolverebbe nulla. Possiamo creare qualsiasi tipo di organizzazione e conferirle formale autorità, e tuttavia non sarebbe in grado di esercitare alcuna funzione risolutiva a meno che ad essa non fosse sottesa una legittimità morale e sociale. Uno può costruire un burattino più grande ma sempre rimane un burattino. Pertanto, una sincera politica globale per il bene comune, che ha un cuore, un orientamento verso i bisogni umani autentici e una capacità di rispondere alle necessità dell’uomo, ha bisogno di nascere dal basso, da comunità umane esistenti e reali, dove la pratica della solidarietà possa svilupparsi come virtù. Qui possiamo dare come esempio alcune delle esperienze concrete di AVSI, dove si può sperimentare concretamente l’emergere della riconoscenza della dignità umana. Questa nuova politica globale che parte dal basso – arrivando fino all’io (e che quindi ha molto in comune con la situazione delle Mesopotamia presentata nella mostra su Abramo qui al Meeting) – dipende pertanto dalla sussidiarietà. Ma non la sussidiarietà nel senso ridotto di una dispersione del potere e delle autorità globali. Abbiamo bisogno di una sussidiarietà che riconosca che una vera politica globale, in grado di rispondere ai bisogni umani autentici, deve inevitabilmente originarsi nell’ambito delle comunità locali, dove le persone facciano un’esperienza diretta e concreta della propria dignità e del proprio sviluppo umano, dove possano riconoscere e valutare la grande ricchezza della diversità della famiglia umana.
Infine, ricordiamoci anche che Pinocchio non è stato capace di diventare umano con le sue sole forze. Anche lui ha avuto bisogno della grazia della Fata turchina. Allo stesso modo, non arriveremo mai a una politica comune per la famiglia umana senza il riconoscimento della dimensione trascendente di ogni vita umana, come l’incontro di apertura del Meeting di quest’anno ci ha ricordato, riproponendo le religioni come contributo alla soluzione del problema, e non sua causa. Ancora una volta, in questo caso, Papa Francesco è estremamente risoluto nella sua enciclica, quando afferma che nessuna soluzione tecnica al problema dell’ambiente è sufficiente se non è suffragata dal comune riconoscimento che tutta la creazione è un dono di Dio. Il filosofo Alisdair MacIntyre, mio collega all’università di Notre Dame, disse, come è noto, che nel mondo di oggi stiamo aspettando un nuovo san Benedetto. Forse il problema della globalizzazione è ancora più elementare: stiamo aspettando un nuovo Abramo, il primo a riconoscere che l’io, e di conseguenza il popolo, nasce originariamente dalla riconoscenza della sua dipendenza da un Altro. Anche quando non si riconosce, questa dipendenza originale da un Altro è infatti l’origine del sentimento di mancanza che ci accompagna ogni volta che mendichiamo per la giustizia o lavoriamo per la pace e lo sviluppo umano.

ROBERTO FONTOLAN:
Grazie anche a Paolo Carozza. Ho un attimo ancora prima di concludere e di augurarvi buona serata, e non se ne avranno gli altri relatori se voglio occupare questo attimo con Monsignor Tomasi su questo punto: c’è un bellissimo libro di Mary Ann Glendon in cui viene descritta la nascita, la creazione, il manipolo di uomini e di donne che crearono la Dichiarazione Internazionale dei Diritti dell’Uomo. Era una certa generazione umana, parliamo degli anni immediatamente successivi al Dopoguerra, quindi dal ’46 al ’48. Monsignor Tomasi ha parlato della Woodstock generation che è succeduta a questa prima e che ha impregnato di sé, con una nuova cultura, un nuovo orientamento anche degli organismi internazionali. Quale terza generazione vede arrivare?

S. ECC. MONS. SILVANO MARIA TOMASI:
Il nuovo passo che rende possibile l’efficienza degli organismi internazionali che esistono oppure che potrebbero essere creati, è quel tipo di struttura che non è più basata sulla necessità di rispondere alle esigenze dell’individuo e delle sue aspirazioni, ma che è basata sulla persona che è aperta all’altro ed aperta anche all’altro che sta sopra e quindi rende possibile la creazione di comunità e dà una possibilità di creare una risposta che prenda in considerazione il bene di tutti, il bene comune. Questo, che è sostanzialmente il messaggio della Dottrina Sociale della Chiesa, che poi, per ridurlo in maniera ancora più semplice, è il messaggio di Gesù, dice che ci dobbiamo voler bene gli uni gli altri. Se manca questa capacità di voler bene all’altro, non si costruisce niente che vada al di là del mio egoismo.

ROBERTO FONTOLAN:
Allora grazie a Monsignor Tomasi, Paolo Carozza, Pasquale Valentini, Giampaolo Silvestri: abbiamo molto di che pensare e molto di che lavorare anche nei prossimi giorni al Meeting. Buona serata.

Data

21 Agosto 2015

Ora

19:00

Edizione

2015

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri