ECONOMIA GLOBALE E COMPLESSITÀ

ECONOMIA GLOBALE E COMPLESSITÀ

In collaborazione con CIGI (Centre for International Governance Innovation, Canada). Partecipano: Amar Bhattacharya, Senior Fellow at the Global Economy and Development Program at Brookings Institution, USA; Fan He, Senior Fellow of Institute of World Economics and Politics, Chinese Academy of Social Sciences, Cina; Daniele Mancini, Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede. Introduce Domenico Lombardi, Direttore Global Economy Department presso il CIGI (Centre for International Governance Innovation), Canada.

 

DOMENICO LOMBARDI:
Buongiorno a tutti, sono Domenico Lombardi del “Centre for International Governance Innovation”. Benvenuti a questo incontro su “Economia globale e complessità”. Richiamando il tema della trentasettesima edizione del Meeting, “Tu sei un bene per me”, l’interazione a livello globale dal secondo dopo guerra ad oggi ha generato una straordinaria crescita cui abbiamo assistito in varie parti del mondo, anche se non in tutte. Eppure oggi stiamo anche assistendo ad un’ondata di antiglobalizzazione, che si manifesta non tanto nella periferia del mondo, ma in quei Paesi che sono il centro economico e finanziario dell’economia globale e che hanno tanto beneficiato della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia mondiale negli ultimi decenni. E’ indicativo per esempio che nel Regno Unito, le regioni che hanno usufruito in larga misura dei fondi dell’Unione Europea, abbiano votato contro la permanenza del Regno Unito nella stessa Unione e negli Stati Uniti si tende ad attribuire alla globalizzazione problemi e fenomeni che hanno un’origine assai complessa. Probabilmente è la scarsa comprensione del fenomeno dell’economia globale che rende problematico governare la sua dinamica. Di questo ne parleremo con un pool di relatori che vengono da vari background, da vari Continenti, ma che hanno tutti maturato un’esperienza di carattere mondiale con la quale, spero in questa sessione, ci aiuteranno a decifrare il tema di questo incontro: “Economia globale e complessità”. Passo ora ad introdurre i relatori: alla mia sinistra c’è l’ambasciatore Daniele Mancini, ambasciatore presso la Santa Sede. Prima dell’attuale incarico, l’ambasciatore è stato ambasciatore in India, ambasciatore in Romania, ha ricoperto ruoli di rilievo nelle ambasciate italiane a Washington, Parigi, Baghdad ed è stato consigliere diplomatico nel Ministero dello Sviluppo economico, Commercio internazionale, Energie e comunicazione, ha ricoperto infine grandi incarichi presso il gabinetto del Ministro degli Esteri e presso la Presidenza della Repubblica. Nella sua attività di diplomatico ha ricevuto numerose onorificenze, cito solo la più recente, quella di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica, di cui è stato insignito questo stesso anno. He Fan è l’autore di numerose pubblicazioni, è un ricercatore straordinario, è anche consulente del Ministro delle finanze, del Ministero del Commercio, della Banca Centrale Cinese e membro del gruppo di Bellagio, che è un gruppo informale di banchieri centrali e di esperti di altissimo livello. Alla mia estrema destra c’è Amar Bhattacharya, che è il signor Fellow della Brookings Institution. Il Dottor Bhattacharya è stato in precedenza Segretario generale del Gruppo dei “Ventiquattro”, che è un’organizzazione i cui membri sono i Ministri delle Finanze e i Governatori di Banche Centrali dei Paesi emergenti, in via di sviluppo e prima ancora è stato per molti anni Consigliere del Presidente della Banca Mondiale, lavorando sempre su questioni di global governance e rappresentando la Banca Mondiale in una serie di consessi internazionali, come il G7, il G20 e altri consessi ancora. Ecco, è un panel con relatori che hanno acquisito un’esperienza preziosa e che ci aiuteranno ad elaborare su questo tema molto complesso, che gli organizzatori del Meeting hanno voluto che noi discutessimo. Quindi passerei la parola all’ambasciatore Mancini.

DANIELE MANCINI:
Grazie, buongiorno a tutti e buongiorno al Dottor Lombardi, grazie per l’invito. Buongiorno al Dottor Bhattacharya e al Dottor Fan He. Lieto di essere qui al Meeting. Non è la mia prima esperienza, sono venuto in passato sovente ed è sempre una bella esperienza tornare perché si incontrano volti di amici e al tempo stesso nuove persone. Non mi addentrerò specificamente sul terreno economico. perché lo lascerò fare ai miei colleghi molto più qualificati, che sono alla mia destra. Mi intratterrò invece con voi, con alcune riflessioni, sulla complessità, sul tema della complessità, di per sé aiutato in parte dal percorso professionale ormai lungo che ho alle spalle, che mi ha insegnato che appunto è importante parlare ma è anche importante ascoltare. Mai nulla è definitivo, mai nulla è completamente bianco o completamente nero e per dirla come la diceva Romano Guardin, “occorre essere degli uomini che camminano solitari”, quindi avere la capacità di distaccarsi dagli eventi per poter avere lo sguardo lungo, la visione olistica. Soprattutto un tema, che la problematica dell’immigrazione oggi ci ricorda, è che un uomo è sempre un uomo e quale ne sia il colore della pelle, è ovunque un essere umano. Il tema che ci è proposto oggi, è un tema di grandissima, di straordinaria importanza e una delle tesi che svilupperò questa mattina con voi e che tutto sommato è spesso quello che ci manca, è proprio l’interpretazione culturale della dimensione globale del mondo nel quale viviamo, di cui l’economia è una componente ma non è la totalità. I miei punti di riferimento in questa rapida cavalcata con voi sono i seguenti: non è complessa l’economia globale è complesso il mondo di cui oggi l’economia è divenuta la forza motrice. Se io dovessi andare via adesso, a questo punto di questa rappresentazione, vi avrei comunque lasciato il mio messaggio. Si dice anche nel titolo che ci è proposto, “Economia globale e complessità”: non è complessa l’economia, è complesso il mondo di cui l’economia rappresenta oggi la forza motrice, ma che non esaurisce la gamma delle relazioni che abbiamo di fronte a noi. Viviamo poi in una fase del post tutto, del dopo tutto, abbiamo globalizzazione e antiglobalizzazione, abbiamo avuto il marxismo e abbiamo avuto il liberalismo, abbiamo avuto sviluppo e sottosviluppo. Oggi la realtà, – ricordiamo quanto McLuan diceva agli inizi degli anni ’60, quando sviluppò per primo il concetto del “villaggio globale” -, ecco oggi viviamo non in un villaggio ma viviamo in un mondo e quindi non stiamo parlando di poche migliaia di persone ma stiamo parlando di miliardi, di più di sette miliardi di persone, che interagiscono tra di loro continuamente a tutti i livelli, quindi è un mondo molto difficile da comprendere, da interpretare e da indirizzare, da governare. La politica, le classi dirigenti hanno perduto, non per propria responsabilità ma anche proprio specificamente per la complessità di questo scenario, hanno perduto la capacità di comprendere e di indirizzare le scelte soprattutto, ma non esclusivamente, quelle economiche, e oggi l’agenda è soprattutto dettata dall’economia alle stesse classi dirigenti. Manca quindi nell’establishment il coraggio di pensare il nuovo e di proporre un set di politiche adeguate. Per giungere a definire quelle che Jacques Attali, consigliere degli anni d’oro del presidente Mitterrand definiva le linee d’orizzonte, cioè riuscire a vedere ciò che si situa sulla linea dell’orizzonte, possibilmente appena al di là dell’orizzonte stesso. Abbiamo quindi al tempo stesso il bisogno e l’impossibilità di cambiare, di vivere questo cambiamento e quindi dobbiamo effettuare un salto di qualità: imparare a pensare in modo diverso da quello in cui abbiamo pensato fino ad adesso. La mia tesi è che questo nostro problema, questo empasse nel quale viviamo, rappresenti un limite soprattutto culturale. Abbiamo difficoltà a riconcettualizzare il mondo nel quale viviamo i nostri valori, il mondo liquido, come lo definisce il filosofo e sociologo polacco Bauman. Ecco la complessità, i colleghi parleranno, sono certo, di complessità sotto il profilo economico, io cerco di metterla su un piano leggermente diverso. Comunque, anche se vogliamo parlare di complessità economica, di economia complessa, vediamo un attimo come dovremmo rapportarci a questo fenomeno della complessità. C’è uno studioso che ha tanto riflettuto sul tema della complessità, che è il francese Edgar Morin. Lui, e non solo lui, diceva “dovremmo essere più interdisciplinari”, io andrei anche un po’ oltre, dovremmo sviluppare un approccio transdisciplinare, cioè entrare nelle materie, superare la visione cartesiana che è stata quella del sistema educativo che ci ha allevati, soprattutto in Occidente, che è quella di allineare gli insegnamenti accademici l’uno accanto all’altro, studio da ingegnere, studio da avvocato, studio da filosofo, e così via. La realtà è appunto molto più complessa, la realtà, nonostante noi si utilizzi il termine complesso nel senso di oscuro, di intricato ecc., la realtà è uniforme. Dovremmo tentare di ricomporre questi concetti che normalmente, invece, ci hanno insegnato a scomporre, dividere: siamo passati al singolare, al caso specifico perdendo di vista la concezione unitaria del mondo che ci circonda. Quindi la sfida della complessità, come la chiamo io. Non c’è bisogno che mi soffermi sulla complessità degli scenari internazionali che abbiamo sotto le mani e soprattutto un tema che sono certo verrà dibattuto è quello del crescente sentimento antisistema, assolutamente preoccupante, che ci sta circondando. Perché non è un sentimento antisistema nel senso che viene proposto un sistema differente da quello nel quale stiamo vivendo, perciò un modello che cerchi di sostituire quello di oggi vigente, è semplicemente il desiderio di distruggere, il desiderio di lasciare andare, il desiderio di emanciparci da un mondo che non ci soddisfa più, dalla globalizzazione che da opportunità viene oggi percepita in crescenti strati di popolazione come elemento di divisione e di crisi, dall’ipertrofia della finanzia. Questa iper-finanziarizzazione dell’economia, il tema delle disuguaglianze economiche crescenti che stanno minando il sistema del welfare state, al quale siamo stati abituati dopo il 1945 nei nostri Paesi occidentali, le ondate migratorie che si stanno succedendo e che sono sempre meno episodiche, i conflitti su base etnica, il fattore religioso come base identitaria, il richiamo dei fondamentalismi. Richiamo la vostra attenzione su questo: la nostalgia come forma di utopia retrograda del “si stava meglio prima, al tempo dei nostri genitori, dei nostri nonni”. Quindi queste sirene nazionalistiche che tornano a farsi vive, che incitano alla xenofobia, il mondo delle piccole patrie. No l’Unione Europea, no le Nazioni Unite, questi sentimenti che pervadono piano piano, che fanno i titoli dei giornali, cominciano ad avvelenare questo nostro modo di guardare il mondo. Appena una decina di anni fa avevamo una narrativa tecnocratica, se vogliamo elitaria, una narrativa populista, una di serie A e una di serie B, sbagliando la definizione di serie a e di serie b, comunque non erano allo stesso livello l’una rispetto all’altra. Oggi hanno lo stesso peso e addirittura la narrativa populista, e lo vediamo anche in grandi Paesi europei, è in grado oggi di forgiare le agende non solo dei sentimenti personali ma anche delle opinioni pubbliche delle classi dirigenti. Da qui deriva anche l’esaurimento della forza propulsiva delle grandi forze liberal democratiche, riformistiche, popolari, la fine di una visione alta della politica. Qui c’è una bellissima esposizione che ho potuto visitare questa mattina sulla Fondazione della Repubblica italiana: basti vedere la speranza negli occhi di quella gente povera che credeva nel futuro che stava forgiando con le proprie mani per la prima volta nella propria vita. Quindi contratto sociale tra governanti e governati che oggi non funziona più. Abbiamo dunque questa crisi nell’ordine internazionale che è sotto gli occhi di tutti. I processi aggregativi sono molto complessi e difficili da realizzare. Parlavo poco anzi con gli altri relatori dell’esperienza della Cop 21 di Parigi: anni di negoziati dopo i fallimenti di Copenhagen, quel mezzo compromesso di Kioto in precedenza, il nucleare, il negoziato sul nucleare iraniano, anni e anni di difficilissimi negoziati, l’agenda 2030 delle Nazioni Unite che è un successo, un successo molto faticoso, e poi hai dei fatti esplosivi rapidissimi di disgregazione come il Bataclan, le torri gemelle, il Brexit. Quindi hai la fatica che le istituzioni internazionali hanno nel creare e la facilità con la quale questi processi disgregativi hanno luogo. Io una ventina d’anni fa ero negli Stati Uniti per una missione diplomatica ed ebbi un qualche rapporto con uno straordinario autore americano che si chiama Benjamin Barber che scrisse un libro per me illuminante e che si intitolava Jihad Vs. McWorld. Pensate, parlava di Jihad vent’anni fa. L’idea è: oggi sono al lavoro nel mondo forze disgregatrici, quindi centrifughe e aggregatrici cioè centripete, il futuro non è scritto nelle mani di ciascuno, non è detto, diceva vent’anni fa, se il mondo andrà in una direzione piuttosto che in un’altra. Quella che era una visione all’epoca forse di frontiera, purtroppo dopo vent’anni vediamo che si è pienamente concretizzata. Quindi abbiamo il vecchio paradigma dell’ordine internazionale stabile e prevedibile, che è il sogno di ogni diplomatico, la pax romana, la pax britannica, la guerra fredda e il sistema di Yalta: oggi quegli ordini non esistono più, finiti. Quando non vi è stato un ordine internazionale, il vecchio ma sempre saggio Kissinger ce lo ricorda nel suo ultimo libro, c’è stata la guerra, la guerra dei 30 anni, guerra dei 100 anni, abbiamo avuto la prima e la seconda guerra mondiale. Attenzione, per essere stabile e produrre frutti, un ordine internazionale deve essere accettato: chi non lo accetta, chi è su posizioni di contraddizione rispetto a quell’ordine internazionale, promuove delle azioni, che siano guerre commerciali o guerre vere e proprie, che quell’ordine mirano a cambiare. Perché un ordine venga accettato normalmente, the rule of the fund, cioè la regola semplice è che questo ordine debba avere una potenza egemone: fu la Roma dei cesari, fu il Sacro romano impero, fu la Gran Bretagna, è stato gli USA. Oggi non vi è più nessun ordine accettato. Un altro studioso americano che a me piace molto Charles Kupchan ha scritto un bellissimo libro tre o quattro anni fa che invito chi volesse leggerlo a leggerlo, No one’s world, il mondo di nessuno. E’ un mondo che va a ruota libera e non c’è nessuno in cabina di pilotaggio di questo treno che sta andando da qualche parte a velocità crescente e e le traversine di legno vengono gettate man mano che questo treno avanza, quindi non c’è nessuna certezza che fra qualche chilometro questo treno rimanga in pista. Non mi sento di fare raccomandazioni a nessuno, ma se dovessi darne a me stesso, direi cominciamo a non dare per scontata la globalizzazione e non incominciamo a pensare che si parli di deglobalizzazione così con facilità. Nessuno può scendere da questo treno in corsa di cui parlavo poc’anzi, perché non si sta fermando in nessuna stazione, il che implica una responsabilità personale di ciascuno di noi. Quindi, per portare avanti questo mondo che è un mondo multipolare, multireligioso, occorre una visione integrata che stabilisca una nuova alleanza tra i saperi e le discipline, tra l’uomo e la natura. Io, con il lavoro che faccio oggi, rappresento l’Italia presso la Santa Sede, presso Papa Francesco. C’è questa straordinaria Enciclica che egli ha scritto lo scorso anno, questo Laudato Si’ , in cui ci ricorda che tutto si tiene, tutti siamo cittadini di questo mondo e tutte le specie che popolano questo nostro mondo hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, soprattutto noi esseri senzienti. Quindi occorre coraggio e immaginazione per questo mondo che è il nostro e quindi formulo un invito ai tanti giovani che vedo qui presenti, perché siano pellegrini, pellegrini di saggezza, pellegrini alla ricerca della verità, cercatori di risposte. Pensare, come dicono gli americani, out of the box, cioè “fuori dalla scatola”, richiede immaginazione, un approccio trans disciplinare come dicevo poc’anzi, lo sviluppo di un pensiero strategico sul lungo periodo, una nuova mappa mentale. Ci dobbiamo disfare dei paradigmi del ’900 ormai non più attuali, stabilire quello che Papa Benedetto XVI definì un leale patto intergenerazionale. Quando noi visitiamo le cattedrali della nostra Europa, i templi in India, piuttosto che i templi in Cina con i nostri amici che abbiamo in quei due Paesi straordinari, vediamo che ciascuna di quelle grandi costruzioni è stata cominciata da una generazione che non è quella che l’ha vista concludere, quindi si faceva un investimento multigenerazionale. Noi dobbiamo ricominciare, se facciamo ancora in tempo, a pensare in termini multigenerazionali. Questo è veramente ciò ritengo importante. Non è soltanto il PIL che deve aumentare, deve essere la coscienza planetaria che deve aumentare, devono essere le occasioni di incontri, deve essere la possibilità di empatia all’interno delle famiglie, delle comunità organizzate, dei quartieri, quindi non Washington consensus ma neanche un Belgic consensus ma un human consensus, cioè l’essere umano che diventa un global player. Concludo in questo modo: noi abbiamo bisogno di una nuova bussola, di una bussola che ci dia un orientamento per gli anni a venire, ma per farlo dobbiamo avere una migliore percezione delle interazioni che si stabiliscono tra la dimensione politica, quella economica, quella culturale e quella sociale, legarle insieme strettamente. Quella che il club di Roma già quasi cinquant’ anni fa definiva la grande transizione, è quella in cui ora siamo in mezzo. La chiave o il fallimento di questa transizione sarà assicurata dall’assimilazione culturale, e insisto culturale tra virgolette, dei seguenti fattori: alle grandi questioni sociali, economiche, eccetera, nessun Paese, nessun gruppo di interessi, nessuna compagnia multinazionale può pensare di rispondere singolarmente. Le risposte oggi devono essere collettive e debbono essere globali e sovranazionali. Nelle fasi di smarrimento, questa nostra è una fase di smarrimento, servono guide sicure e rotte affidabili. Va metabolizzata la rapidità e l’urgenza del cambiamento per guidare questa transizione. Ultimissima raccomandazione: dobbiamo essere pronti continuamente a fare autocritica, a cambiare in modo costruttivo la nostra opinione sui fenomeni della realtà che ci circonda. I cambiamenti sono all’ordine del giorno, dobbiamo essere reattivi, dobbiamo in sintesi viaggiare leggeri. Noi, all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, il 21 settembre di quest’anno, realizzeremo un bel convegno in collaborazione con l’Accademia Pontificia della Cultura, dal titolo “Per un’economia più giusta ed inclusiva”, con il premio Nobel per l’economia dello scorso anno, l’americano di origine scozzese, Angus Deaton e altri professori universitari e quindi l’idea è proprio di studiare un po’ questi percorsi della complessità. Grazie per l’attenzione.

DOMENICO LOMBARDI:
La ringrazio ambasciatore per questa relazione transdisciplinare che credo fluisca molto bene rispetto ai contributi che ora andremo ad ascoltare e passerei la parola a Fan He e poi a seguire ad Amar Bhattacharya.

FAN HE:
Grazie. E’ un grande onore per me essere stato invitato qui oggi al Meeting di Rimini. Debbo dire che io non ero mai stato al Meeting di Rimini ed è veramente incredibile, unico questo evento e quindi in futuro spero che ci saranno altri studiosi o altri imprenditori cinesi che verranno e lo faranno con grande entusiasmo, perché la Cina è un Paese con una lunga storia, una lunga tradizione di contatto con i Paesi come l’Italia e l’India. Vi avevo preparato una presentazione power point per questa sessione, ma visto che il tempo stringe, preferisco parlare brevemente dell’economia cinese e la relazione tra essa e l’economia globale e quelle che sono le implicazioni per l’Italia e per l’economia globale. Negli ultimi vent’anni abbiamo visto l’espansione molto rapida dell’economia cinese, si parla addirittura di miracolo cinese ed è in effetti un miracolo, perché la Cina è divenuta la fabbrica, l’industria del mondo. Negli anni ’50 fino agli anni ’70, avevamo fatto un altro tentativo, cercando di sviluppare l’industria pesante e perché l’industria pesante poteva gettare le basi per quella che poteva essere anche una potenza di carattere militare. Si lavorava in modo molto intensivo, quindi immaginate un Paese povero come la Cina che cercava di sviluppare l’industria pesante. Non potevamo certo basarci sull’economia di mercato, avevamo infatti un’economia pianificata simile a quella dell’Unione Sovietica. Inizialmente sembrò funzionare, ma poi in realtà la cosa è divenuta sempre meno efficiente e quindi a partire dagli anni ’80, abbiamo avviato un percorso di riforme dell’economia del Paese. Molte piccole aziende, piccole imprese di villaggio nacquero in quel periodo. Si trattava molto spesso di piccole imprese, addirittura a conduzione familiare, come possiamo trovarle qui in Italia. Ma non abbiamo avuto un grande successo in questo modo in termini di riforma dell’economia nazionale, perché queste piccole imprese non riuscivano ad arrivare alla produzione di merci e prodotti che potessero essere venduti sul mercato estero, quindi si trattava di prodotti venduti soltanto su mercati locali. Negli anni ’90, all’inizio del XXI secolo, la Cina cominciò la sua fase di apertura e di integrazione nell’economia globale e una pietra miliare fu l’ingresso della Cina nel OEMC nel 2000. Si trattò di una questione molto controversa all’epoca, perché molti ritenevano che questa apertura alla competizione sul mercato globale avrebbe condannato l’economia cinese e molti imprenditori cinesi avevano avvisato i propri colleghi a prepararsi a ballare con i lupi – i lupi erano in questo case le imprese straniere -, ma alla fine in realtà furono proprio le imprese cinesi ad essere i lupi della situazione. Ora siamo davvero molto competitivi anche a livello internazionale. Perché è accaduto questo? Innanzitutto perché c’è stata una modifica, un cambiamento dello schema commerciale, che ha abbandonato il mercato tradizionale interindustriale. Ad esempio quando un Paese produce abbigliamento e calzature e un altro Paese produce aeroplani e il primo Paese vende l’abbigliamento in cambio degli aeroplani prodotti dal secondo Paese, questo è lo schema tradizionale del commercio. Invece il nuovo schema è quello che noi possiamo definire un commercio intraindustriale, cioè per ogni prodotto, per ogni settore industriale, la Cina riesce a trovare la propria collocazione. Siamo partiti dalla fase di assemblaggio, laddove non è necessario avere una mano d’opera particolarmente qualificata, e poi siamo saliti nella filiera produttiva industriale. Queste sono, diciamo così le fondamenta economiche. Nel frattempo altri Paesi, per esempio gli Stati Uniti, si sono rivolti interessati alla Cina ed in questo senso hanno accompagnato l’ingresso della Cina nel commercio internazionale e la Cina è diventato un ottimo allievo dei maestri più esperti. Un aspetto fondamentale è che il vantaggio comparativo dell’economia cinese è che noi abbiamo una mano d’opera non qualificata con dei costi molto ridotti, e andando a presentarci sul palcoscenico del commercio globale, noi possiamo avvalerci di questa grande risorsa. Ma questo non è il lieto fine della storia, il successo è la madre del fallimento, quindi sono state necessarie delle profonde trasformazioni dell’economia cinese, perché questo schema commerciale che sembrava funzionare, in realtà non era sostenibile, innanzitutto perché in Cina abbiamo un livello di consumo molto basso e invece un altissimo livello di risparmio, una forma diciamo precauzionale di risparmio. Le famiglie cinesi da sempre sono portate al risparmio, perché hanno questa sorta di incertezza per il futuro che è dovuta all’assenza di un sistema assistenziale. E quindi se il tasso di risparmio è molto alto e invece il consumo è molto basso, ci si trova in una situazione molto difficile. Abbiamo accumulato riserve in monete straniere e ora abbiamo investito sui diversi mercati, in particolare sul mercato statunitense, ma il rendimento attualmente è pari a zero. In questo senso, quindi, il Governo cinese ha cercato di trasformare l’economia e intraprendere una nuova strada per un’economia più stabile e per uno sviluppo più sostenibile. Facile dirlo, più difficile farlo, perché ci sono molti vincoli. Innanzitutto il primo vincolo è quello che chiamiamo il trilemma dell’economia cinese. I politici cinesi hanno tre aspetti da tenere in considerazione, la crescita economica, l’occupazione, quindi è necessario garantire sufficienti posti di lavoro per il popolo cinese, poi la stabilità finanziaria, perché noi non vogliamo che ci sia in Cina una crisi come quella della Lehman Brother. Questi tre obiettivi politici sono tutti estremamente importanti. Ma la complessità dell’economia cinese deriva dal fatto che se si prende uno di questi obiettivi politici, esso può essere in conflitto con gli altri due. Per esempio, se il Governo decide che la crescita è l’obiettivo più importante e il modo migliore per seguire questo obiettivo è quello di continuare a seguire il modello di crescita tradizionale, cioè basarsi sull’investimento governativo pubblico, quindi è il governo che inietta denaro nella costruzione di infrastrutture, la costruzione di infrastruttura diventa troppo intensiva e va a incidere sul PIL e diventa difficile creare nuovi posti di lavoro e qui abbiamo il problema dell’occupazione. Cosa è successo poi dopo la crisi finanziaria globale? Siamo riusciti ad evitare il peggio, però abbiamo avuto molti altri problemi, per esempio l’accumulo di prestito a basso rendimento nel sistema finanziario e questo naturalmente è andato a influenzare la stabilità finanziaria. Se invece il Governo cinese ritiene che l’occupazione sia l’obiettivo più importante, quello che si fa è dare impulso al settore terziario, che rappresenta il settore che fornisce più posti di lavoro attualmente. Il settore produttivo in Cina attualmente sta rallentando, quindi sviluppando il settore dei servizi possiamo mantenere un alto tasso di occupazione e una buona crescita economica. Ma in realtà le cose non stanno proprio così, perché se andiamo a vedere il tasso di crescita della produttività dei centri produttivi e facciamo un paragone con il settore dei servizi, la crescita del settore produttivo è molto più elevata di quella dei settori dei servizi, e se si vuole acquistare uno smartphone si compra un iPhone5 o iPhone6 e dopo sei mesi ci si aspetta di avere l’iPhone7 o l’iPhone8. Ecco, questi prodotti possono essere migliorati molto rapidamente. Questo però non succede nel settore dei servizi, in particolare nel settore dei servizi tradizionali. Se c’è una babysitter, una tata che lavora in una famiglia, non possiamo passare dalla versione Tata 1.0 alla versione Tata 2.0 in sei mesi come si fa coi telefoni. Quindi l’obbligazione qual è? E’ che l’aspetto legato ai servizi inevitabilmente non mi può impedire un rallentamento della crescita, però lo sviluppo del settore dei servizi può comunque garantire un buon livello occupazionale, adeguato non solo per i lavoratori meno qualificati, ma anche per quelli più qualificati, del settore accademico per esempio. Ma come ho detto, se si lavora alla riforma del settore dei servizi, probabilmente si potrà avere soltanto un ulteriore caduta della crescita ed il sistema finanziario cinese ancora non è in grado di far fronte a questo cambiamento della struttura economica. I clienti cinesi tradizionali delle banche sono soprattutto le aziende produttive e questo modello funziona molto bene, perché queste aziende produttive vanno dalle banche, chiedono dei prestiti, le banche richiedono naturalmente delle garanzie e le aziende produttive hanno la possibilità di fornire queste garanzie, perché possiedono edifici, possiedono terreni, eccetera. E quindi in questo modo riescono ad avere un flusso di denaro molto stabile. La struttura finanziaria in passato non ha creato nessun tipo di problema, ma se vogliamo sviluppare il settore dei servizi, invece, dobbiamo pensare che le molte nuove ‘start-up’ nel settore dei servizi chiedono prestiti alle banche e le banche non sanno come comportarsi, come accontentarle. E’ vero che alla fine ci potranno essere delle compagnie di servizi estremamente performanti, come per esempio Alibaba, la compagnia di internet, ma come possiamo dire quale sarà quella che alla fine davvero avrà successo? Vent’anni fa abbiamo avuto la richiesta di un prestito da r questa compagnia, l’Alibaba, ma come facevamo a sapere trent’anni fa se avrebbe avuto successo oppure no? Come si faceva a sapere chi avrebbe avuto successo come Alibaba o chi non lo avrebbe avuto per niente? Alla fine avremo molte situazioni di prestito che consentiranno proprio lo sviluppo del settore dei servizi e se il governo ritiene di doversi preoccupare dei prestiti a basso o nullo rendimento e della possibilità di una crisi finanziaria potenziale, allora sarà necessario riformare il sistema bancario. Uno dei motivi che sta alla base di questo rischio finanziario, è che abbiamo in Cina una situazione in cui si va a guardare al resto del mondo. Pensiamo a quello che è successo negli Stati Uniti, nel Giappone, in Europa. Dopo la crisi finanziaria globale c’è stata questa fase di leverage molto, molto difficile. In Cina dopo la crisi, invece, il livello di leverage è aumentato, non è diminuito e questo è il motivo per cui il Governo cinese ha fatto un elenco di quelli che sono i punti principali della riforma ed uno è proprio il deleverage. Ma pensate cosa accadrebbe se si imponesse il deleverange a tutte le aziende proprio in un momento in cui c’è un rallentamento della crescita economica. Questo potrebbe veramente dar vita ad una spirale negativa e portare una crisi finanziaria. Ma se non lo facciamo ci saranno ulteriori prestiti a reddito zero, a rendimento zero e alla fine dovremo affrontare comunque questi problemi. Quindi qual è la morale di questa storia della Cina? Qual è il messaggio che possiamo dare in Italia? Innanzitutto sono qui per ricordare agli amici italiani che l’Italia non è l’unico Paese ad avere dei problemi, anche noi abbiamo molti problemi. Tutte le economie felici sono tra loro uguali, invece quelle infelici sono infelici a modo loro, ciascuna infelice a modo suo. Se voi poteste venire in Cina per un giorno, beh devo dire sono certo che vi sentireste molto felici e fortunati di essere italiani, non cinesi. E poi un altro messaggio per l’Italia, ma anche per altri Paesi è questo: la Cina ha imparato dalla propria esperienza che la globalizzazione è un bene per tutti i Paesi, soprattutto per i Paesi in via di sviluppo. Quindi la Cina è stato uno dei Paesi che ha beneficiato di questa rapida globalizzazione degli ultimi decenni, ma il rovescio della medaglia è che ci sono dei Paesi in cui la globalizzazione ha avuto altri tempi e adesso la Cina si sta facendo leader della globalizzazione. E devo dire che ci vuole un bel coraggio a farsi sostenitori della globalizzazione in un momento come questo e per far funzionare la globalizzazione anche per tutti gli altri Paesi ci deve essere un maggiore impegno, ma anche una maggiore disponibilità alla collaborazione per trovare insieme nuove soluzioni, per far fronte a questa sempre maggiore complessità dell’economia mondiale. Perché il problema che oggi ci troviamo ad affrontare è un problema di carattere globale, quindi dobbiamo trovare delle soluzioni che sono globali, non a livello del singolo Paese o addirittura al livello della singola regione, ma solo ed esclusivamente a livello mondiale. In questo senso credo che il significato di questo Meeting di Rimini, in questo formato davvero unico, stia in un messaggio molto importante che può davvero incentivare la comprensione reciproca dei popoli di diversi Paesi e questo per molti diversi aspetti. E mi fermo qui.

DOMENICO LOMBARDI:
Ti ringrazio Fan per averci portato questa testimonianza diretta dalla Cina e ora chiamerei Amar Bhattacharya per l’intervento conclusivo.

AMAR BHATTACHARYA:
Grazie Domenico. Desidero ringraziare anch’io gli organizzatori per avermi invitato a partecipare al Meeting. E’ anche per me la prima volta, ma devo dire che è un’esperienza incredibile, perché, camminando nei padiglioni della fiera, si ha una sensazione molto forte ed è davvero un piacere condividere questo panel con il collega Domenico, l’ambasciatore Mancini e con Fan He. Mi concentrerò nella mia presentazione su quattro punti: come possiamo salvare la economia globale da questa empasse in cui si trova? Secondo: qual è il futuro della globalizzazione, partendo proprio anche da quello che diceva l’ambasciatore Mancini? Terzo: come possiamo vivere nei confini del nostro pianeta e far fronte alle variazioni climatiche? E quattro: come possiamo mantenere la promessa della agenda per lo sviluppo 2030 adottata dai leader mondiali lo scorso settembre?
Per ciascuno di questi punti potrei parlare per ore, ma non lo farò. Cinque minuti per punto.
Per quanto riguarda l’economia globale, la crescita nel 2016 è la più lenta mai registrata non solo dalla crisi finanziaria, ma negli ultimi vent’anni. Alla base ci sono delle grandi differenze tra i diversi Paesi, dei momenti positivi e dei momenti negativi. Vi faccio un esempio: gli Stati Uniti hanno registrato una crescita dell’1% soltanto nel primo trimestre del 2016, ma ora la crescita è in ripresa non solo per il secondo trimestre, ma per tutto il resto dell’anno, secondo le previsioni. Per contro nell’Eurozona la crescita è stata piuttosto forte, il 2%, adesso però si ritiene che ci sarà un calo considerevole dopo la Brexit e nel Regni Unito gli economisti si aspettano una recessione nel 2016. In Giappone la crescita era al 2% nel primo trimestre del 2016, ma le stime prevedono un’ulteriore accelerazione della crescita. E un’altra cosa che ci colpisce, è che i Paesi in via di sviluppo e i mercati emergenti stanno entrando anche loro in questo vortice di crescita lenta. Due dei più importanti Paesi in via di sviluppo, comunque emergenti, cioè il Brasile e la Russia, sono in recessione. La crescita si è praticamente fermata in Sud Africa e come ha detto Fan He, la crescita in Cina sta perdendo la sua accelerazione, ma con 6,7% continua ad essere il più importante stimolo dell’economia mondiale. L’unico mercato emergente che continua a registrare una crescita robusta è il mio, quello dell’India, dove la crescita è quasi all’8%. Quindi che cosa è necessario per stimolare l’economia globale in questa situazione? Noi sappiamo che la politica monetaria è in effetti straordinaria, per quanto riguarda le economia più avanzate, in termini di quello che può fare, però sta ormai raggiungendo il limite e si potrebbe dire che ci sono alcuni effetti molto negativi, distorsivi, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti legati al rischio. Nei mercati emergenti la politica monetaria non è uno strumento che funziona, perché il rischio è quello di arrivare alla instabilità finanziaria. Per quanto riguarda poi la politica fiscale, c’è ancora un dibattito in corso per quanto riguarda l’austerity. I Paesi che hanno un certo margine per quanto riguarda la fiscalità non vogliono farne uso e molti Paesi, tra cui anche l’Italia, non hanno questo margine dal punto di vista fiscale. Quindi si parla di riforme strutturali e anche all’interno del G20 quest’anno ci sarà un impegno per un rafforzamento delle riforme strutturali. Le riforme strutturali sono senz’altro positive ma non sono delle bacchette magiche e quindi non potranno produrre degli stimoli forti sul breve periodo. Alcuni di noi spingono per un altro modo di procedere, cioè concentrarsi sugli investimenti, in particolare investimenti nelle strutture delle infrastrutture sostenibili. Nelle economie più avanzate l’invecchiamento delle infrastrutture costituisce un’opportunità di rafforzare gli investimenti e nei Paesi in via di sviluppo e nei mercati emergenti c’è una forte necessità di investimenti nelle infrastrutture. I tassi di interesse attuali, attualmente molto bassi e le opportunità tecnologiche forniscono una base solida per un incremento notevole degli investimenti nelle infrastrutture. Come Hillary Clinton, uno dei candidati alla Presidenza ha detto, questa è l’unica cosa su cui Hillary Clinton e Donald Trump sono d’accordo, cioè la necessità di rivitalizzare le infrastrutture. Ma questo è vero anche in Europa, sia per la Grecia che per la Germania. Insomma, praticamente anche in tutto il resto del mondo, inclusi i Paesi in via di sviluppo. L’unica eccezione è la Cina. Ciò che più ci colpisce è che la Cina investe nelle infrastrutture più di tutti gli altri Paesi in via di sviluppo messi insieme. Ma come mostra l’esperienza della Cina, si tratta di avere delle infrastrutture migliori e tornerò su questo, tra poco.
Il secondo aspetto è quello del futuro della globalizzazione. Negli ultimi anni, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, il commercio mondiale ha avuto una crescita inferiore rispetto alla produzione mondiale. E si attesta ovunque una forma sempre più forte di protezionismo. Ma, cosa ancora più importante, c’è stata una reazione forte contro la globalizzazione, il che si traduce in una nuova forma di populismo, che possiamo vedere per esempio nel voto della Brexit, lo si vede nel panorama politico qui in Europa e lo si vede anche nelle elezioni americane sia a sinistra che da destra. C’è poi una reazione negativa contro il commercio, contro gli investimenti e contro l’immigrazione. Ora questo non avviene solo per la globalizzazione, ma anche per quelli che sono ad esempio i cambiamenti nelle tecnologie e perché c’è una trascuratezza a livello politico nell’impatto su coloro che sono più poveri e meno sicuri economicamente. In particolare c’è una forte insicurezza economica dovuta non soltanto all’alto livello di disoccupazione, ma anche alla mancanza della creazione di posti di lavoro e anche a causa di una situazione di ineguaglianza sempre crescente. Angus Deaton, citato dall’Ambasciatore Mancini, ha in effetti dimostrato come ci sia una insicurezza sempre più forte negli Stati Uniti dovuta proprio a questa sempre maggiore ineguaglianza che si riflette nelle scelte politiche di cui siamo testimoni. Quindi deve esserci un nuovo dialogo su una globalizzazione che sia inclusiva. Il professor Lawrence Summers, economista americano, parla di nazionalismo responsabile. Quindi i leader nazionali devono essere dire più sensibili al benessere economico e agli interessi economici dei propri cittadini, ma devono anche tenere conto delle implicazioni per il resto del mondo. Deve esserci anche un dialogo sulla globalizzazione responsabile, che deve essere più inclusiva, proteggere gli interessi dei lavoratori e delle persone meno vantaggiate, non solo nelle economie più avanzate, ma anche nei mercati emergenti e nei Paesi in via di sviluppo.
La terza questione che dobbiamo affrontare riguarda il fatto di saper vivere entro i confini del nostro pianeta. Abbiamo già visto gli effetti devastanti delle variazioni climatiche, dei cambiamenti climatici e purtroppo i cambiamenti climatici vanno a colpire proprio le popolazioni più vulnerabili della terra. A Parigi, i leader hanno raggiunto un accordo storico sui cambiamenti climatici, ma quello che ci colpisce veramente è che Paesi come gli Stati Uniti, la Cina e l’India si sono riuniti per riconoscere insieme questa situazione e per prendere un impegno, un impegno attivo. Quindi a Parigi il mondo si è impegnato ad agire, a reagire alla questione del riscaldamento globale che non deve superare i 2 gradi, possibilmente non deve superare 1,5 gradi, questo è l’obiettivo. Però la realtà è un’altra. Con la tendenza attuale, probabilmente arriveremo ad un incremento di 3 o più gradi della temperatura, quindi è necessario fare molto di più. E direi che ci troviamo in un momento davvero epocale perché nei prossimi vent’anni il mondo realizzerà sempre più infrastrutture, molte di più di quante non ci siano oggi sul pianeta e molte di queste infrastrutture si troveranno nei Paesi in via di sviluppo e sui mercati emergenti e se tutto ciò verrà fatto così come abbiamo costruito le infrastrutture in passato, non soltanto non riusciremo a raggiungere l’obiettivo che ci siamo prefissi in termini di cambiamento climatico, ma avremo delle città in cui sarà impossibile vivere, uccideremo la gente e distruggeremo quindi le fondamenta della crescita economica. Dei sette miliardi di persone che popolano il nostro pianeta, circa la metà oggi vive in città. Per il 2050 la popolazione mondiale sarà arrivata a 9 miliardi ed il 70% vivrà nelle città. Quindi il numero di persone che vivrà nelle città aumenterà di più di 2 miliardi e questo in effetti rappresenta una grande opportunità, ma anche una enorme sfida. Perché ci sono state nella storia del mondo due città, Roma qui in Europa e Xiang in Cina, che hanno avuto una popolazione superiore ad un milione di abitanti; all’inizio del ventesimo secolo c’erano diverse città, dieci città, che avevano questo numero di abitanti, adesso naturalmente il numero di città con più di un milione di abitanti è aumentato considerevolmente ed arriverà a cinquecento nei prossimi venti-trent’anni. Quindi abbiamo davvero una grandissima opportunità che possiamo cogliere, cioè quella di cercare di dare la giusta forma all’urbanizzazione per garantire un mondo migliore per il nostro pianeta e per gli essere umani che lo abitano. Quindi ancora una volta il tasso di interesse così basso che registriamo e le promesse che arrivano dalle nuove tecnologie ci consentono di fare un balzo in avanti, lasciandoci alle spalle i vecchi modi, i vecchi approcci per creare un nuovo futuro. Come ha detto l’ambasciatore Mancini, ci vuole un approccio culturale completamente diverso da quello del passato, in particolare nei Paesi più avanzati come gli Stati Uniti. E’ necessario che i leader mondiali sia dei Paesi più avanzati che dei mercati emergenti si facciano carico delle proprie responsabilità. E qui devo dire che la Cina, quest’anno, con il G20 e questo nuovo piano sta mostrando delle forti doti di leadership nel riconoscere questa necessità di un cambiamento di direzione. Noi dovremmo rallegrarcene, dovremmo anche cercare di spingere altri leader mondiali a fare lo stesso. E per concludere desidero sottolineare che il 2015 è stato un anno straordinario per la cooperazione internazionale in un momento di grande difficoltà, il mondo si è unito, con tre importantissimi incontri: il summit, il vertice dello scorso luglio sul finanziamenti allo sviluppo, il vertice dell’ONU a settembre, che ha stabilito gli obiettivi dello sviluppo sostenibile e l’agenda per lo sviluppo 2030 e come ho detto anche l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Quindi oggi abbiamo una nuova agenda a livello globale che è davvero universale, che riconosce la necessità di eliminare la povertà senza lasciare indietro nessuno e questo non riguarda solo gli aspetti economici, ma anche la giustizia sociale, la pace e la sicurezza, la protezione e la tutela del pianeta. Riuscire quindi a perseguire gli obiettivi di questa agenda, richiederà delle azioni congiunte e quindi azioni comuni dei diversi Paesi, ma non solo a livello di Governi, ma anche a livello di economia, di società civile e di cittadinanza globale. Per concludere, desidero rendere omaggio a quegli sforzi di cittadinanza globale che si traducono in eventi come questo del Meeting. In effetti, gli accordi del 2015 non sarebbero mai stati raggiunti se la cittadinanza globale non avesse chiamato i leader mondiali a far fronte alle proprie responsabilità. Ci troviamo in un momento completamente nuovo della storia, le sfide economiche globali non sono mai state più complesse di oggi, ma non ci sono mai state maggiori opportunità di creare o meglio di avere una creatività, un’innovazione ed un impegno comune, collettivo. Invece di vedere tutto questo come un gioco a somma zero, come hanno detto i colleghi Fan He e l’Ambasciatore Mancini, dobbiamo insieme trovare un nuovo obiettivo comune, che è quello di operare per raggiungere un nuovo ordine globale in cui tutti i Paesi e tutti i cittadini facciano la loro parte. Grazie per questa opportunità di parlare qui oggi e a tutti voi auguro buon lavoro.

DOMENICO LOMBARDI:
Grazie Amar per il tuo intervento molto esaustivo. Per il tempo che ci rimane, vorrei rivolgere ai relatori una domanda. Amar Bhattacharya parlava del G20 presieduto dalla Cina che ospiterà tra un paio di settimane il primo summit a presidenza cinese. Ricollegandomi a quello che ha detto l’Ambasciatore Mancini nella sua relazione, abbiamo visto che il G20 è stato fondato come organo legittimante dell’economia globale. Si riteneva che le istituzioni internazionali, le istituzioni multilaterali fossero un po’ appesantite dalla loro dinamica burocratica e quindi provassero una certa difficoltà nel riformarsi e quindi l’idea era di creare questo foro internazionale composto inizialmente dai Ministri delle Finanze e poi dai leader politici che in qualche modo potesse aiutare la comunità internazionale a prendere delle decisioni. Quello che noi abbiamo visto è che al vertice della crisi internazionale, il G20 ha agito con efficacia, facilitando una serie di decisioni senza le quali l’economia globale si sarebbe probabilmente disintegrata. Successivamente, venendo meno l’impeto, l’emergenza e la necessità della crisi finanziaria internazionale, il G20 sembra aver perso trazione. Qui vedo una fondamentale tensione, beneficiando del contributo che l’Ambasciatore ci ha fornito, tra un mandato che il G20 si è auto attribuito, un mandato che è abbastanza ristretto, di facilitare decisioni in campo economico e finanziario, soprattutto limitate al breve periodo e invece la complessità dell’economia globale, come appunto è stata elaborata dai vari relatori. Vorrei chiedere all’Ambasciatore Mancini se ci fornisce delle riflessioni e dei commenti a questo proposito, facendo leva sulla sua prospettiva privilegiata di diplomatico che è stato in varie parti del nord e del sud del mondo. Invece ad Amar Bhattacharya e a Fan He vorrei chiedere quali sono le loro aspettative per questo summit. In particolare cosa noi ci dovremmo attendere, cosa sarebbe necessario che i leader decidessero fra due settimane e cosa realisticamente accadrà?

DANIELE MANCINI:
Grazie molte Dottor Lombardi. Mi permetta innanzitutto di complimentarmi per l’organizzazione di questo evento così interessante, che ha fornito a tutti i noi molti spunti di riflessione. I compiti a casa non finiscono mai, così come gli esami si soleva dire un tempo. Sulla sua domanda, io parto da una constatazione. C’è un filosofico tedesco Ulrich Beck che dice: “C’è una discrepanza fondamentale tra l’essere tutti noi ormai oggettivamente viventi in una condizione cosmopolita sempre più globale e il fatto che non ce ne rendiamo conto”. In realtà secondo questa visione, paradossale ma fino ad un certo punto, noi siamo cittadini globali ma non sappiamo di esserlo. Il risultato, il punto di caduta di questa argomentazione, è che noi tutti consideriamo le grandi organizzazioni internazionali, dalle Nazioni Unite a quei fori come il G8 e il G20, l’Unione Europea, responsabili dei nostri singoli destini, perché prendono decisioni che ci riguardano, ma senza che noi abbiamo la possibilità di influire su quei destini. Un’altra constatazione che mi veniva alla mente ascoltando i colleghi che parlavano poc’anzi e come ormai effettivamente globale sia divenuto il nostro mondo. Qui abbiamo avuto, a parte il Dr. Lombardi, un diplomatico italiano che viene da un Paese fondatore dell’Unione Europea, due studiosi, professionisti, uno che viene dalla Cina e l’altro che lavora negli Stati Uniti ma di origine indiana. Non era scontato che, pur parlando alfabeti differenti, parlassero la stessa lingua. Abbiamo al massimo bisogno dell’interprete. Ripeto, in un mondo fratturato come il nostro questo non era scontato. Per venire alla sua domanda Dottor Lombardi, posso dire che noi abbiamo bisogno di immaginazione e di ambizione, dobbiamo pensare al futuro. Recentemente mi è venuto per le mani uno studio dell’OCSE, secondo il quale al livello attuale di crescita economica, per soddisfare le nostre necessità, l’economia del 2050 dovrebbe avere una dimensione 15 volte superiore a quella odierna e nel 2100, 40 volte. E’ evidente che tutto ciò non possa neanche essere concepito, figuriamoci di esistere. Se noi metabolizziamo questa velocità del cambiamento che sta accadendo e al tempo stesso immaginiamo di dover trovare delle soluzioni, dobbiamo mandare avanti la politica dei due fuochi. Da una parte dobbiamo incentivare a lavorare sempre di più e meglio le organizzazioni internazionali che abbiamo sotto mano: dalle Nazioni Unite all’Unione Europea, al G8 per quel che esiste ancora, al G20 e quindi le istituzioni che abbiamo. Non dobbiamo gettare via i bambini nell’acqua sporca, non funzioneranno come vorremmo funzionassero, però esistono e dobbiamo lavorare con loro sempre meglio. Dall’altra mi rifaccio ad un suggerimento che ci ha formulato il nostro collega indiano. Noi dobbiamo incentivare sempre più questa opinione pubblica planetaria. Un tempo eravamo confinati alle dimensioni del villaggio, dello Stato, della città, del quartiere, al massimo del Continente nel quale viviamo. Oggi viviamo in un mondo totalmente differente che è quello dell’integrazione istantanea, la possibilità, non solo commerciare, di comunicare qualsiasi cosa da una parte all’altra del mondo in un nano secondo. Noi stiamo dando vita ad un embrione di opinione pubblica planetaria. Quando da qualche parte del mondo ancora si applica la pena di morte, possiamo metterci un cartello al collo dicendo “not in my name” , non a nome mio: lo fate ma ve ne assumete la responsabilità. Quando si fanno delle cose che andrebbero fatte in un modo piuttosto che in un altro, abbiamo la nostra piccola possibilità di fare la differenza. C’è la mostra bellissima su Madre di Teresa di Calcutta, fu lei che parlò per prima della piccola goccia nel mare che fa la differenza. Noi abbiamo quella possibilità. Un tempo il mondo era popolato dai soggetti del Re, adesso noi siamo cittadini che viviamo un embrione di opinione pubblica internazionale, quindi ben venga il G20, ma accanto al G20 ci siamo anche noi.

FAN HE:
Innanzitutto dobbiamo cercare di essere realistici per quanto riguarda questo G20. Una conferenza non può risolvere tutti i problemi dell’economia globale, ma volevo sottolineare due aspetti che dal punto di vista della Cina sono estremamente importanti. Uno, i Paesi membri del G20 devono prestare più attenzione alle implicazioni e alle conseguenze delle loro politiche macro economiche, in particolare alle politiche dei tassi di cambio, le politiche monetarie e in un certo senso anche le politiche fiscali. Deve esserci quindi un maggior coordinamento e un miglior dialogo. Sarebbe troppo ambizioso immaginare che il G20 possa fornire un sistema che possa guidare tutti i singoli Paesi in questa direzione, ma dobbiamo comunque sottolineare l’importanza della coordinazione, della cooperazione, perché alcuni Paesi per esempio non sembrano essere inclusi in questa cooperazione. Abbiamo questa filosofia che ci viene dagli Stati Uniti della mano invisibile. Ci sono Paesi che in effetti portano avanti le loro politiche in modo molto individualista, ma sono in un certo senso guidati da questa mano invisibile che li potrebbe coordinare e questo potrebbe essere una cosa molto positiva per tutti. Nel periodo tra le due guerre c’è stata tutta una serie di aspetti conflittuali che sarebbero stati risolvibili con la cooperazione, anche per quanto riguarda le riforme strutturali. Ogni Paese naturalmente ha il proprio programma in questo senso, però nel Platform del G20 è necessario che venga esercitata una maggior pressione tra pari ed è proprio questo l’obiettivo del G20: avere la possibilità di scambiare informazioni e far sì che la piattaforma del G20 venga utilizzata per facilitare le riforme interne a livello nazionale. Un secondo aspetto riguarda lo sviluppo. La Cina ha cercato di includere le questioni legate allo sviluppo nell’agenda del G20. Alcuni dicono che questo ordine del giorno sta diventando troppo prolisso, troppo lungo e che sarà difficile poi poter attuare tutte le proposte che potranno essere presentate al vertice del G20. Ma io non sono d’accordo. Come ha detto il collega, anche attualmente ci sono fasi positive e fasi negative, anche per i mercati emergenti, ma se andiamo a guardare la situazione sul lungo periodo, dobbiamo ammettere che i mercati emergenti formeranno un grosso impulso per la crescita globale per tutta una serie di ragioni: perché hanno una popolazione più giovane, perché hanno un maggiore margine di cambiamento e quindi sperando che questi Paesi in via di sviluppo non agiscano solo per il proprio benessere, questo potrà essere veramente un grande effetto positivo per l’economia globale. I 20 Paesi del G20 più l’Unione Europea non possono certamente risolvere tutti i problemi che ci sono attualmente, ma se c’è un dibattito tra questi Stati membri che rimane soltanto un dibattito sterile, il G20 perderà la propria legittimità. Quindi, per aumentarne invece la legittimità, il G20 deve rivolgersi anche ad altri Paesi, soprattutto ai Paesi in via di sviluppo, ai Paesi emergenti. Credo che la questione dello sviluppo sull’agenda dell’ordine del G20 sia davvero cruciale.

AMAR BHATTACHARYA:
Volevo soltanto aggiungere un paio di riflessioni molto brevi. Come ha detto l’Ambasciatore, il G20 è stato fondato in seguito a delle crisi. E ha fatto un buon lavoro per quanto riguarda la gestione delle crisi. L’apice è stato raggiunto nel 2009, ma da allora, ogni anno, sta reagendo a diverse crisi di diverso tipo. La più recente è la Brexit, le difficoltà delle banche europee, come ben sapete qui in Italia, e la crescente incertezza geopolitica. Quindi avere questo forum dove i rappresentanti, i leader di questi venti Paesi e i Ministri delle Finanze di questi Paesi possono ritrovarsi per cercare insieme di discutere di possibili soluzioni, è molto importante. E devo dire che è stato anche efficace. Ecco, la parte più frustrante del lavoro del G20 riguarda il fatto di affrontare questioni più a lungo termine, incluso l’aspetto legato a un’insufficiente crescita economica. Ma come ha detto il collega Fan He, anche in questo caso, ci sono dei dibattiti molto produttivi, molto positivi, soprattutto per quanto riguarda le riforme strutturali e come ha detto il collega, credo sia estremamente importante che il G20 si impegni per quanto riguarda le questioni che riguardano lo sviluppo, ma anche per quanto riguarda la cooperazione fiscale, la riforma del settore finanziario e la riforma delle istituzioni internazionali. E, in ciascuno di questi casi, il bicchiere è mezzo vuoto, ma è sempre meglio che totalmente vuoto. Ma c’è un aspetto su cui credo che il G20 debba impegnarsi ancora di più ed è quello di cui parlava l’Ambasciatore Mancini: deve esserci un dialogo sul nuovo ordine economico globale, che colleghi tra di loro tutti i cittadini del mondo, ed è proprio questo che i cittadini del nostro pianeta stanno aspettando. Quindi il G20 deve abbandonare le discussioni, i dibattiti meramente tecnocratici e spostarsi a un livello, diciamo così, di dibattiti più filosofici e impegnarsi maggiormente per il bene della società civile e dei cittadini così come per esempio fanno le Nazioni Unite. Ricordo quando ho cominciato la mia collaborazione con il G20, quindi quando questo gruppo è stato formato nel 1999, che era in corso un grosso dibattito su cosa sia la globalizzazione e su che tipo di globalizzazione potesse essere definita dal G20. Ora sedici anni dopo, questo dibattito sta ritornando alla ribalta e quindi il G20 deve definire una nuova globalizzazione, che si impegni anche sul fronte dell’insicurezza economica e sul fronte delle sempre maggiori ineguaglianze. Quindi credo che il G20 dovrebbe avere un dibattito proattivo sulla globalizzazione inclusiva e le sfide che ci derivano dalla disoccupazione e dall’invecchiamento della popolazione. E così concludo e vi ringrazio.

DOMENICO LOMBARDI:
Bene, ci avviamo allora alla chiusura. Io prima di concludere l’incontro, vorrei ringraziare i relatori per l’entusiasmo con cui hanno risposto all’invito da parte del Meeting di Rimini. Grazie.

Data

22 Agosto 2016

Ora

11:15

Edizione

2016

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri