“COSÌ LE NOSTRE VITE SONO CAMBIATE”. LA GIUSTIZIA OLTRE LA PENA

“COSÌ LE NOSTRE VITE SONO CAMBIATE”. LA GIUSTIZIA OLTRE LA PENA

Partecipano: Adolfo Ceretti, Docente di Criminologia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca; Maria Grazia Grena, Già appartenente alle organizzazioni di lotta armata degli anni ‘70; Agnese Moro, Figlia di Aldo Moro. Introduce Marta Cartabia, Vice Presidente della Corte Costituzionale.

 

MARTA CARTABIA:
Buona sera, benvenuti a questo incontro dal titolo “Così le nostre vite sono cambiate: la giustizia oltre la pena”. Quello che sta per iniziare è un incontro da maneggiare con cura, occorre addentrarci nelle vicende che tratteremo in punta di piedi, con delicatezza, parlando sottovoce e soprattutto predisponendoci ad ascoltare veramente, un ascolto che – per usare le parole dei protagonisti di questo incontro – metta da parte l’impulso a voler avere tutto chiaro e la tentazione di giudicare subito. Un ascolto che ci richiede la disponibilità a lasciarci coinvolgere, anche se non necessariamente convincere, dicono loro della loro stessa esperienza. Le citazioni sono tutte tratte dal libro meraviglioso che è all’origine di questo incontro e che racconta questa storia. Questo della delicatezza, dell’attenzione alle parole, del silenzio e dell’ascolto, è anche il metodo che è stato seguito dall’esperienza che stiamo per incontrare. Di che cosa si tratta? Stiamo per ascoltare i frutti di una esperienza sviluppatasi in un disteso arco temporale, sette anni d’incontri tra alcune vittime e i loro familiari e alcuni responsabili della lotta armata che ha segnato l’Italia negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Una vicenda delicatissima sul piano personale per coloro che ne sono direttamente coinvolti – e qui presenti ci sono alcuni dei protagonisti -, delicatissima anche sul piano del senso politico. Si tratta di pagine della storia d’Italia tra le più laceranti e divisive, pagine su cui tutt’ora si stenta a trovare una versione condivisa di verità fattuali legali e storiche. Parleremo di ferite, di ferite forse inguaribili, e di dissidi insanabili per la profondità dei sentimenti umani che toccheremo e per la delicatezza delle implicazioni storiche e istituzionali, delle problematiche che sfioreremo. Occorre dunque accostarci a questo incontro con grande circospezione e grande rispetto. Intendiamoci, quella che ci attende non è un’analisi storico-politica degli anni di piombo, i nostri protagonisti sono qui perché sono stati di nuovo protagonisti di una storia dentro la storia d’Italia, fatta del cammino umano delle persone che si sono lasciate implicare. Come dicono di se stessi – le citazioni di nuovo vengono da questo libro – centro costante della nostra attenzione è l’aspetto umano, il cammino delle persone, racconti e vissuti, esperienze e sentimenti che traggono la loro forza e la loro credibilità semplicemente dal fatto di essere stati narrati sempre in presenza della controparte. E’ una storia che racconta davvero di incontri impensabili, di ricostruzioni di legami, di un cammino impossibile, imprevedibile tra gli autori di gravi atti di violenza e le loro vittime. Ascolteremo esperienze personali ma non meramente private, benché si siano svolte nella più assoluta riservatezza: nessuno ne sapeva niente in questi sette anni pregressi. Il loro moltiplicarsi spontaneo e gli insegnamenti culturali che ne emergono conferiscono però un rilievo pubblico a ciò che è accaduto a questo gruppo. Per questo, il Meeting che ringrazio per la generosità, il coraggio, la disponibilità a ospitare questo incontro, vuole e desidera che questa ricchezza vissuta da un gruppo relativamente piccolo di persone, alcune decine, possa recare beneficio a tutti. Dunque, attenzione agli aggettivi: esperienze personalissime riservate ma non private, similmente pubbliche ma non istituzionali o politiche, la loro esperienza si è svolta del tutto al di fuori di mandati o riconoscimenti formali. Che cosa dunque ha messo in moto un’esperienza così? Anzitutto, il bisogno personale di ciascuno di loro di ricominciare un cammino della vita, tanto da parte dei colpevoli quanto da parte delle vittime. In secondo luogo, un’esperienza ispiratrice avvenuta in un’altra parte del mondo, nel Sudafrica, l’esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione, che ha permesso a un Paese spaccato dall’apartheid di ritrovare la forza di legami e di un’unità sotto la presidenza carismatica di Desmond Tutu. Nelle parole di Adolfo Ceretti, che sentiremo più tardi, si legge: “Quando abbiamo raccolto l’invito di alcuni ex appartenenti alla lotta armata, di alcune vittime, di alcuni loro familiari, ad accompagnarli perché le loro vite non cadessero per sempre nella rimozione, nella negazione o nel rancore, ma si aprissero a una presa di coscienza a una ricerca della verità e responsabilità costruttivamente intese, per uscire dalle memorie congelate, fissate sul dolore inferto e subìto, la Commissione sudafricana si è proposta di fatto come il paradigma ideale al quale attingere senso per imboccare il sentiero che stiamo ancora percorrendo. I fatti sono incancellabili ma il loro significato può essere rivisitato e aprire un futuro”. Colpisce sin dalle prime pagine del libro la presenza ricorrente di due blocchi semantici di parole. Le prime sono caratterizzate dal prefisso di negazione in: si tratta di parole ricorrenti come improbabile, inenarrabile, irreparabile, incommensurabile, irriducibile, incompatibile, ingiusto, che richiamano la negazione, la rimozione, la condanna a subire perennemente il peso di un passato che condiziona inesorabilmente il presente. Ma non si ferma qui, c’è un secondo blocco di parole ricorrenti caratterizzate dal prefisso ri: si tratta di parole come riguardare, ripartenza, riconoscimento, giustizia riparativa, ristorativa, restituire, rimettersi in gioco, ricomporre, riparazione e così via. Alludono queste parole alla possibilità di una prospettiva che diventa nuova pur essendo la stessa di prima. Tutta questa incurabilità, insanabilità, imperdonabilità, tutta questa negazione come prefisso in, suggerisce che si è aperta una possibile rinascita per un imprevisto – dice una delle autrice del libro, Claudia Mazzuccato, che non ha potuto essere presente ma che ringraziamo per il lavoro svolto. Che quello che è accaduto le ricorda un verso famoso e noto a questo auditorio di Eugenio Montale: “un imprevisto è la sola speranza”. Mi permetto di prendere ancora qualche minuto per rivolgere due parole specie alle generazioni più giovani presenti in grande numero in questa sala, per ricordare velocemente il contesto degli anni di piombo, noi lo ricordiamo, i libri di storia non arrivano fino a lì. Gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso sono stati due decenni di altissimo livello di conflittualità sociale, alcuni conflitti avevano già attraversato tutto il decennio precedente ma il 12 dicembre 1969 si verifica un salto di qualità nella violenza, che ha come obiettivo il rovesciamento dello status quo. E’ il giorno in cui all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, a piazza Fontana, nel cuore di Milano, dietro il Duomo scoppia una bomba che provoca 17 morti e 88 feriti. Verrà definita la madre di tutte le stragi e cambierà il destino di molti che da quel momento iniziano a considerare la lotta armata come una possibilità tangibile. In verità, in quel giorno gli ordigni sono cinque, vengono collocati a Milano e a Roma. Ma soltanto quello della Banca dell’Agricoltura provocherà vittime. Da quel momento, inizia un periodo che verrà definito strategia della tensione e che si intensificherà a partire dalla metà degli anni ’70. Il numero delle vittime è altissimo, ce ne parlerà Adolfo Ceretti fra poco. Le vittime e i bersagli erano scelti per il ruolo che ricoprivano ma il senso di insicurezza e la paura erano di tutti i cittadini. Dunque, gli anni ’70 e ’80 vengono definiti anni di piombo, di attentati, di morti ammazzati, di devastazione morale e civile. Ma perché questa violenza nella vita sociale? Qui vorrei un’attenzione soprattutto da parte dei più giovani: non si trattava semplicemente di energie distruttive fini a se stesse, si trattava di una violenza che nasceva da una lotta politica per una società più giusta e che aveva assunto a un certo punto una forma violenta di lotta armata. La violenza era in qualche modo, a destra e a sinistra, uno strumento che veniva sempre più sentito come legittimo per raggiungere obiettivi politici che le parti si prefissavano. Chi veniva coinvolto? Dice una voce del libro che raccoglie tante testimonianze talora non firmate: “Ho frequentato una scuola pubblica, il liceo Berchet di Milano, ho frequentato l’università Statale di Milano molti dei miei compagni di scuola hanno fatto una scelta di lotta armata, io non ho mai militato in quei movimenti ma ho condiviso tutta una serie di ideali che in quegli anni ciascuno di noi poteva interpretare con una gamma di comportamenti molto diversi”. Dunque, erano giovani, a volte giovanissimi, 20, 22 anni, come tutti non erano emarginati, disadattati, falliti, reietti. Spesso erano giovani colti e benestanti, attratti da ideali politici vissuti in un modo così radicale da tracimare a un certo punto nella violenza. Se questi erano coloro che venivano coinvolti, chi veniva colpito? Venivano colpiti personaggi pubblici per la carica che ricoprivano, politici, giudici, giornalisti, professori universitari, appartenenti alle forze dell’ordine, dirigenti d’azienda. Cito: “C’è una cosa che ha accomunato tutte le organizzazioni combattenti, l’obiettivo era disarticolare la macchina dello Stato e quindi del potere, la necessità era allora quella di colpire il potere dove era più efficiente, quindi veniva colpita la funzione. I migliori erano gli obiettivi che ci davamo, togliere di mezzo quelli che erano al comando”. L’apice della tensione e della destabilizzazione politica furono i 55 giorni che andarono dal 16 marzo al 9 maggio del 1978, con il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, uno dei protagonisti più grandi della vita politica italiana, ricordato anche dal presidente Mattarella all’apertura proprio di questo Meeting, qualche giorno fa, membro dell’Assemblea Costituente, Presidente del Consiglio già dai primi anni ’60, più volte Ministro della Giustizia, degli Esteri, dell’Istruzione, Segretario politico della Democrazia cristiana, grande statista e uomo di straordinaria taratura morale. Non ho tempo qui di leggere alcuni brani delle sue lettere ma ne consiglio la lettura a che non dovesse conoscerli. Promotore di una linea politica di centro-sinistra che permettesse alla Democrazia cristiana e al Partito comunista di condividere responsabilità politiche e di Governo, viene rapito alcuni giorni dopo aver pronunciato un discorso decisivo al fine di ottenere il consenso necessario alla nascita di un nuovo Governo, caratterizzato proprio da una forma di collaborazione tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Il 9 maggio, dopo 55 giorni di prigionia, viene ucciso dalle Brigate Rosse, aveva 61 anni. Quella vicenda fu davvero un colpo al cuore dello Stato, ma su questo sentiremo di più da Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, che ha accettato di essere qui con noi e protagonista di alcune delle storie più impensabili che sono accadute attorno al lavoro del gruppo di cui si può leggere in questo libro. Con l’omicidio Moro, furono colpite le istituzioni così come fu colpita la vita quotidiana della gente comune e la vita sociale. Il dissidio sociale diviene davvero irriducibile. E’ alla luce di questo background storico, che si può presentire la straordinarietà dell’incontro a cui stiamo per assistere e che rappresenta alcune delle molte voci del libro dell’incontro: altre sono presenti in sala e ringrazio tutti per la loro partecipazione. Sul palco chi c’è: Agnese Moro è socio-psicologa, ricercatrice del Laboratorio di Scienze della cittadinanza e socia di Asdo, assemblea delle donne per lo sviluppo e la lotta all’esclusione sociale. E’ impegnata in una attività dell’Accademia di Studi Storici Aldo Moro ed è evidentemente figlia di Aldo Moro, di cui abbiamo parlato poco fa. Maria Grazia Grena si occupa di assistenza sociale, formazione, orientamento, inserimento lavorativo, tutela dei diritti dei detenuti, in particolare con l’associazione Los carcere lavora con i carcerati. Già appartenente alle organizzazioni armate degli anni ’70, è passata, come lei stessa racconta, attraverso tutto il movimento antagonista e violento di Autonomia operaia fino all’entrata nel 1980 in clandestinità. Lei stessa, che ora opera nel carcere, ha conosciuto da vicino proprio quella vita. Adolfo Ceretti insegna Criminologia all’università di Milano Bicocca, è un mio grande amico ed è Coordinatore scientifico dell’Ufficio di mediazione penale di Milano. Non è solo uno studioso dei fenomeni criminali ma svolge un’attività professionale a stretto contatto con le persone coinvolte in varie forme di criminalità, lavora con loro faccia a faccia. Il suo ruolo in tutta questa vicenda è quello di testimone, come dice lui stesso, insieme a Claudia Mazzuccato e a Guido Bertagna, che appunto non sono presenti ma sono qui con noi in ogni caso, che affermano “noi siamo testimoni, non osservatori neutrali, siamo stati il terzo necessario, colui che sta nel mezzo dentro la mischia, colui che, spezzando le dualità che si fronteggiano, fa comparire la possibilità della alterità”. Ascoltiamo il loro lavoro, anzitutto dalle parole di Adolfo.

ADOLFO CERETTI:
Grazie, sono molto lieto di essere qui seduto a questo tavolo, sono venuto a fianco di tre donne, Agnese, Marta e Grazia, molto diverse tra loro, incommensurabili, per usare un vocabolo a me molto caro. Sono tre donne che in modo diverso amo profondamente per quello che sono, per quello che pensano, per come lo pensano e per come, in contesti e tempi differenti, mi hanno aiutato a pensare dei pensieri difficili. “Volevi portare la vita, hai portato la morte. Volevi difendere la dignità della vita e sei finito a spalleggiare l’oscenità della morte. Volevi eliminare l’immiserimento dei sentimenti e pensieri quotidiani e hai portato quotidiana desolazione nei cuori. Allora, il carico che devi affrontare non è solo quello di aver tradito la vita, ma anche quello, ancor più pesante, di aver tradito te stesso”. Fine della citazione, non è un emulo di san Paolo, è un ex-appartenente alle Brigate Rosse che parla durante uno degli incontro che dal 2009 abbiamo iniziato, coordinati, mediati dai miei fraterni amici Guido Bertagna, Claudia Mazzucato e naturalmente il sottoscritto. Non entrerò neppure un istante nei dettagli storici di quegli anni, Marta ha fatto degli accenni magistrali: in Italia, ma non solo, sono stati particolarmente cruenti. Se vogliamo parlare di gelide cifre, 428 sono stati, tra il ’69 e la metà degli anni ’80, le persone morte ammazzate; 2000 i feriti, molti dei quali con danni permanenti; 14.615 gli attentati compiuti. Questi numeri danno l’idea della complessità che il Paese ha dovuto affrontare in quell’epoca, delle stragi, degli attentati, delle morti inferte per mano di chi aveva deciso che le proprie idee politiche dovessero affermarsi anche attraverso l’uso della violenza. E non a caso si parlava e si parla, in riferimento a questi avvenimenti, di violenza politica. Sono seguiti gli anni dei processi, delle leggi ad hoc, delle pene detentive per i responsabili. Ma torniamo ad alcune parole che ho letto poc’anzi, “Volevi portare la vita, hai portato la morte, volevi difendere la dignità della vita e sei finito a spalleggiare l’oscenità della morte”. Se vogliamo riflettere sul significato dell’allocuzione “difendere la vita”, queste frasi forse lo incarnano nel modo più tragico e radicale. Qui ritroviamo tutta la complessità dell’esperienza interiore di chi ha dato la morte, con l’illusione, all’epoca dei fatti alimentata da una precisa ideologia, proprio di difendere la dignità della vita. Più volte nel corso della mia esistenza mi sono sorpreso a chiedermi quali sono stati e quali sono i motivi che mi hanno condotto a studiare, e a lavorare e ad operare intorno a questi temi. Spesso mi rispondo che l’interesse più profondo è nato dal desiderio di comprendere, comprendere che cosa? Comprendere le modalità con cui l’insopportabile del reo invade e si impadronisce del corpo della vittima. Mettendoci dal punto di vista delle vittime, la sofferenza di cui sto accennando riguarda quell’insostenibile e profondo e tragico senso di ingiustizia che si prova in seguito a quell’esperienza di vittimizzazione, appunto. E’ quell’emozione che può impossessarsi della vita modificando il senso della relazione con se stessi e con gli altri, ridefinire la forma degli affetti, lo scandire delle attività quotidiane. Nell’economia del nostro discorso, il male è incontrato e riconosciuto dalla vittima affinché possa essere elaborato, ma è ugualmente incontrato e riconosciuto dal reo affinché anche egli possa elaborarlo. Da sempre, l’irruzione violenta del male ci ha resi più vulnerabili perché più vulnerati. Il primo omicidio, il primo atto di irruzione violenta del male, nasce, come tutti sapete, secondo la Bibbia, da una collera repressa, taciuta e rimossa. Caino fu molto irritato, letteralmente a Caino bruciò molto, ma egli non dà parola alla sua collera e non risponde a Dio che lo invita al dialogo. Dio lo invita premurosamente a rientrare in se stesso, scrive in un saggio magistrale proprio padre Guido Bertagna, che è uno dei nostri compagni di viaggio: gli dedica tutta l’attenzione di un padre, il richiamo di Dio a Caino punta tutto sulla possibilità di essere signore del proprio sentire, che è una parola molto importante per tutti noi mediatori. Ma Caino non ascolta più, non accetta l’invito di Dio, porta in ventre l’inganno, così la collera coltivata e nutrita interiormente diviene rancore e odio e l’odio è capace di fare a freddo quello che la collera potrebbe fare solo a caldo. E Caino uccide Abele. Qui ci sono citazioni da Manicardi. Ma che cosa ci dice questa collera, questa smania distruttiva di Caino? Il narratore biblico sa già perfettamente che il gesto di Caino non è semplicemente una violazione delle regole ma, prima ancora, una pulsione aggressiva sempre in agguato, pronta a tendere un’imboscata. E’ il lato oscuro della vita, l’ombra, per dirla con Carl Gustav Jung. Il narratore biblico sa anche che la vita non è, come dice Walter Brueggemann, Un intrattenimento in giardino, ma un’ardua convivenza con dei fratelli guardinghi, resa ancora più ardua dal contegno enigmatico di Dio. Anche se lo slancio irrefrenabile può essere contenuto, Caino ne viene dominato. Ecco, perché con uno sguardo laico ho citato questa pagina biblica? Semplicemente perché spiega, meglio di qualunque altro racconto, l’ambivalenza che il male e il bene rivestono nell’esistenza di ogni uomo, ma anche l’impasto che si trova tra le mani anche chi è chiamato a prendere in carico, spesso del tutto inconsapevolmente, chi si trova tra le mani questo impasto. E’ lì ma non sa che avviene e che c’è tutta questa complessità. Parlo di giuristi, di terapeuti, di mediatori, e questo è un passaggio importante. Ogni violenza, pure quella degli inizi, quella da cui l’uomo trae la consapevolezza dell’ambiguità tra il bene e il male, ha dunque una storia. È una storia profonda, tutta giocata in dialogo con il proprio intimo. Da decenni incontro autori di reati gravi e per ciascuno di loro vale questa considerazione. Chi commette una violenza ha una storia che chiede tempo, molto tempo, per essere narrata e ascoltata. Nel primo omicidio, dove Caino non riesce ad ascoltare e a rispondere a Dio che lo invita al dialogo, la violenza finale è forse l’esito tragico di una relazione che è diventata impossibile. Il male, almeno nella visione di chi parla, non ricalca infatti il modello di un gesto meccanico che si impone dall’alto verso il basso, verso i margini della simbolizzazione. Il male non è un’esplosione animalesca, nella mia visione, ma avviene sempre nell’ascolto di una conversazione che è soprattutto una conversazione interiore, una conversazione che può essere confusa, in parte indecifrabile, come nel caso di Caino, dove il protagonista ha perso il contatto con il suo interlocutore più significativo. Se dovessi dunque riassumere in poche frasi quello che come criminologo e mediatore dei conflitti ho fatto in questi ultimi 20 anni della mia vita, beh, direi che in via principale ho ascoltato rei e vittime di delitti violenti raccontarmi le loro conversazioni interiori, i loro soliloqui, quello che in buona sostanza loro si dicono, si narrano in rapporto a quello che di atroce hanno commesso o subito. E’ conversando incessantemente con se stessi che ognuno di noi, proprio ognuno, trae un senso, direi decisivo, per il proprio agire sociale, per orientare i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue aspettative. In breve, chi parla si iscrive in quel novero di persone che reputano che sia il soliloquio a consentire a ogni individuo di rendersi comprensibili le esperienze interiori e quelle sociali che hanno un carattere cognitivo e insieme relazionale, e che sia il soliloquio a donare un ordine e una organizzazione a un insieme di per sé indiscriminato e amorfo di impressioni. Per comprendere cosa sta alla base della conversazione di ciascuno di noi, anche di chi commette gesti violenti, di che cosa si dice una persona mentre commette un atto violento, come si parla, con quali parole si dice “sto facendo questa cosa”, occorre dunque accedere alla ciascunità di ogni individuo: ognuno va contato per uno, va ascoltato nella sua esperienza. Per me, per Claudia e Guido – questo lo condividiamo, come moltissime altre cose -, l’essenza della parola giustizia sta proprio in questo. La parola giustizia può e deve dilatarsi fino a comprendere questa esperienza di ascolto di ciascuno. All’interno della grande storia, le storie personali di chi ha scelto la lotta armata e di chi ha subito le conseguenze esprimono molti nodi cruciali e rilevanti per la convivenza civile. “Possiamo ragionare sulla storia e tutto quanto, però per me l’assunzione di responsabilità lavora sul piano personale”. Fine della citazione. Così ha affermato una responsabile della lotta armata durante uno dei nostri incontri. Per ragioni estremamente complesse, nell’arco dei decenni i protagonisti di questi tragici eventi hanno però avuto solo sporadiche occasioni per potersi incontrare o non hanno potuto incontrarsi affatto, ed è così, per continuare a usare il linguaggio con cui ho iniziato, che i loro soliloqui sono stati ingabbiati in una faticosissima conversazione che non poteva che ripresentarsi identica a se stessa, soprattutto quando toccava i tragici avvenimenti della lotta armata inferta o subita. Ogni soliloquio non poteva che rimanere blindato in uno spazio che rischiava di farsi sempre più claustrofobico: quello spazio era il corpo del responsabile della lotta armata o della vittima. La mancanza di possibilità e di proposte di uno spazio e di un tempo in cui una rilettura profonda di quegli anni potesse realizzarsi attraverso una necessaria polifonia di voci, esattamente il contrario di quel sentimento claustrofobico di cui parlavo poc’anzi, non ha certo favorito infatti avvicinamenti e possibilità di contatto tra le parti. Poi, le cose sono andate per alcuni in modo diverso: noi, Bertagna, Mazzucato ed io, raccontiamo di questo incontro, ad un certo punto divenuto possibile e del quale siamo stati mediatori, ma gli artefici e i protagonisti sono stati piuttosto decine di uomini e di donne, quanto mai diversi. Responsabili della lotta armata e vittime, innanzitutto, ma poi quelli che noi abbiamo definito primi terzi, nel nostro gruppo sono entrate persone rappresentanti della società civile, giovani e meno giovani, alcuni sono qui, che ci hanno aiutato – alcuni non erano ancora nati in quegli anni – a capire di nascosto l’effetto che fa, cioè a essere i primi testimoni di che cosa significava vedere queste persone che iniziavano il loro incontro. E poi, i garanti, persone importanti, tutti siamo importanti, ma note: artisti, scrittori, tra cui Luca Doninelli, intellettuali, giuristi che ci hanno accompagnato per, in un certo senso, garantire, dare un bollino DOC al nostro cammino. Non siamo stati turisti degli anni di piombo, come ha affermato uno dei primi terzi. Come è stato scritto nel nostro libro, noi non abbiamo cercato questo cammino che invece si è come imposto a partire dall’amicizia tra Claudia, Guido e il sottoscritto. E’ all’interno di questa relazioni amicali che è maturata la volontà di coniugare la parola giustizia attraverso delle declinazioni quasi inedite, fino alla fine degli anni ’90, che avevano sempre tra di noi come incrocio quello della giustizia riparativa. I primi passi li abbiamo mossi con una serie di convegni organizzati al centro San Fedele di Milano, agli inizi del 2000. In quelle occasioni, abbiamo iniziato a conoscere casualmente, o perché richiamati dall’interesse scientifico e culturale degli eventi che andavamo organizzando, persone che negli anni ’70, ’80 erano da una parte o dall’altra della barricata. Queste persone hanno deciso, per ragioni assai diverse tra loro, di avvicinarsi a noi, dando vita a poco a poco ad una famigliarità di cui Guido Bertagna è stato fin dall’inizio il punto di convergenza. Questi uomini e queste donne ci hanno fatto capire che non intendevano – questo è molto importante – lasciarsi alle spalle quegli anni in cui avevano inflitto o subito il male, e che avevano il desiderio di riprenderli, in una dimensione capace di toccare aspetti che il linguaggio della giustizia ordinaria, della vita quotidiana, del giornalismo, della televisione, della storia, della politica non riuscivano neanche da lontano ad intercettare. Nel domandarci che cosa avremmo potuto fare per loro, è nata l’idea di stendere un documento scritto nel 2007, riportato nel libro con il titolo “Spazio per una memoria condivisa”, un titolo in cui già pochi mesi dopo noi non ci riconoscevamo più perché fa riferimento a qualcosa che non può realmente e concretamente accadere, la condivisione delle memorie. Nel corso del tempo, abbiamo compreso che è impensabile poter edificare un dispositivo di tal fatta, le memorie non possono essere condivise, la memoria di Agnese non può essere condivisa con quella di Grazia, al contrario, ci può essere una condivisione delle memorie che è una cosa completamente diversa. Questa condivisione delle memorie è un incrocio, la memoria condivisa rimanda erroneamente ad un’idea di fusionalità in cui c’è l’inclusione dei cattivi da parte dei buoni: la memoria dei buoni può dilatarsi e includere quella dei cattivi in modo tale (cattivi, ovviamente, tra virgolette e anche buoni, tra virgolette) che quest’ultima possa lentamente purificarsi ed evaporare in quella dei buoni, a sua volta in grado di contenerla dopo averla resa incapace di nuocere. Noi abbiamo promosso un percorso totalmente diverso, cioè la possibilità di creare, per utilizzare delle parole di un grande psicoanalista che si chiama Winnicott, la possibilità di creare uno spazio sufficientemente buono, atto ad accogliere dei linguaggi incommensurabili non riducibili a unità, dove la ciascunità però poteva manifestarsi liberamente senza che fosse necessario ricorrere a censure e dove le ferite che le parole portavano necessariamente con loro, le ferite degli uni e le ferite degli altri, potevano venire temperate dal nostro ruolo di mediatori. Si trattava di rendere ascoltabile l’indicibile. Si trattava di incoraggiare un incontro. Abbiam quindi creato, per le persone che hanno desiderato volontariamente camminare con noi, uno spazio protetto in cui la bussola per orientarsi era la loro narrazione personale, che veniva a dipanarsi sulla base di una serie di temi che noi mediatori intercettavamo. Ogni responsabile della lotta armata, ogni vittima, ogni famigliare di vittima ha così avuto la possibilità, ben più di una volta, di raccontare a tutti la propria esperienza individuale, comprese le persone che sono entrate nella trama della nostra vita di gruppo anche dopo il calcio d’avvio. Ogni ciascunità è stata ascoltata, anche i figli di responsabili della lotta armata e di vittime, che pure sono stati toccati e coinvolti da questi fatti e che quindi ne sono tutti vittime, uomini e donne che la giustizia ordinaria ignora e che invece sono al centro dell’azione del paradigma della giustizia riparativa. Rispetto ad altre esperienze di ascolto, quelle che noi abbiamo vissuto hanno goduto di una prerogativa speciale: chi parlava nel nostro gruppo, lo poteva fare incontrando il volto di un altro, significativo in relazione al suo essere vittima o responsabile di fatti di lotta armata. È inutile citare Lévinas, ma l’incontro, l’incrocio di volti e di sguardi, è la nascita della giustizia, molto probabilmente. Mutuando dei pensieri che ho attinto da La bellezza disarmata, accadeva che per ciascun responsabile di atti di lotta armata, per ciascuna vittima, c’era finalmente quel qualcuno che veniva dal di fuori, dal di fuori dei suoi pensieri, della sua capacità ridotta di guardare. La nostra e la loro scommessa era tutta giocata sul fatto che è proprio attraverso qualcosa d’altro che viene dal di fuori che l’uomo diventa se stesso. Come ha avuto modo di ribadire Papa Francesco, “Al principio del dialogo, c’è l’incontro, da esso si genera la prima conoscenza dell’altro. Se infatti si parte dal presupposto della comune appartenenza alla natura umana, si possono superare i pregiudizi e le falsità e si può iniziare a comprendere l’altro secondo una prospettiva nuova”, appartenenza alla natura umana. Quello che era avvenuto in quegli anni da parte di chi aveva commesso reati nei confronti delle vittime era stata proprio una de-umanizzazione, un cancellare l’umanità dell’altro per poter agire e attaccare il corpo degli altri: si attaccava il ruolo, non la persona, il ruolo, la persona nemmeno la si vedeva. E il lavoro che abbiamo fatto è stato esattamente restituire a ciascuno la propria individualità, la propria persona: l’hanno fatto loro, noi li abbiamo solo aiutati, la grandezza è tutta loro. Ciascuno ha riacquistato la possibilità di alzare lo sguardo dopo una grande fatica, dopo che il perpetratore aveva ascoltato rispettosamente il racconto della persona violata e soccorso quest’ultima per restituirle almeno parte della sua dignità. Per le vittime, è segmento importantissimo del loro processo di cura. Questo è almeno in parte ciò che ispira i modelli di giustizia riparativa cui ho fatto cenno prima. Modelli di giustizia riparativa contengono il modello della mediazione. E quand’è che c’è mediazione tra un reo e una vittima, e con che metodologia abbiamo lavorato? E vado a chiudere su questo: noi abbiamo lavorato con questa idea, che c’è mediazione tra un reo ed una vittima quando possiamo fare riferimento a uno spazio, a un tempo in cui c’è una parte terza, il mediatore dei conflitti, che incontra due o più soggetti per aiutarli a comprendere il motore, l’origine di un conflitto. E queste persone avevano un conflitto che io ho definito poi dissidio, un dissidio insanabile. Perché i linguaggi di ciascuno di loro non sono riducibili ai linguaggi degli altri, sono due mondi totalmente separati: gettare ponti su quei linguaggi è stato il lavoro che noi tutti insieme abbiamo fatto. E vorrei chiudere con un’ultima citazione, per far capire come nel nostro lavoro non ci sia stato nulla di buonismo, non c’è quell’abbracciamoci, quel vogliamoci bene. Io ho sentito, e ho anche espresso in alcuni momenti, urla, lacrime, pianti, disperazione e poi improvvise risate, abbracci, baci, promesse e di nuovo fatica, abbassare lo sguardo, questo oscillare del pendolo, questo combattere per incontrarsi. E questa citazione, che è sempre di una persona contenuta nel libro che non si firma, dà ancora una volta l’idea di quello che abbiamo fatto: “In realtà noi non stiamo abolendo le differenze. L’avere incontrato un noi non toglie le differenze, non toglie l’incommensurabile, abbiamo spezzato delle gabbie che volevano fermarci in un luogo – ecco, delle gabbie che volevano fermarci in un luogo -, abbiamo creato un nostro luogo pur nel rispetto profondissimo del dolore, perché il dolore di x non è stato il mio dolore, né quello di y, né quello di z, e ci tengo che loro lo sappiano, cerchiamo delle medicine insieme, dei balsami per delle ferite che rimarranno sempre”. Vi ringrazio.

MARTA CARTABIA:
Ringrazio Adolfo che, con la consueta finezza linguistica, ci ha portato dentro il cuore del lavoro che è stato fatto. Questi soliloqui che diventano colloqui, cosicché il soliloquio che riprende possa essere popolato da nuovi interlocutori inediti, significativi. Don Giussani, con altre parole a noi più famigliari, ha detto, direbbe “L’io rinasce in un incontro”. Ascoltiamo adesso dalle parole di Agnese Moro che cosa significa esattamente questa rinascita.

AGNESE MORO:
Io intanto ringrazio per questo invito e per l’attenzione che state dando a questa nostra esperienza, a noi tanto cara ma certamente una piccola cosa. È stata ricordata la vicenda di mio padre, anche per i più giovani che naturalmente non la conoscono. Immagino che voi possiate capire quello che una ragazza di 25 anni come ero io può provare all’indomani di una vicenda di quel genere: rabbia, dolore, disperazione, odio e assenza, un’assenza pesante, un’assenza che fa stare male. E insieme a queste cose, c’è un desiderio di avere giustizia, di avere giustizia per se stessi, di avere giustizia per questa persona che non meritava di fare quella fine in quel modo. E questo desiderio di giustizia, nessuno di noi sa davvero che cosa sia la giustizia: è un bene supremo, immateriale, però tutti sappiamo quando non ce l’abbiamo. E questo desiderio, che è un desiderio vitale, un desiderio forte. In realtà, la strada che ti viene offerta è quella della giustizia penale: indagini, individuazione dei colpevoli, processi, condanne, prigione. Cose importanti, naturalmente, perché importante è soprattutto che venga fischiato un fallo, cioè che un comportamento sbagliato sia riconosciuto come un comportamento sbagliato. Nella storia di mio padre ci sono molti comportamenti sbagliati per i quali non è mai stato fischiato un fallo, certamente non poteva farlo la giustizia penale, quindi io non sottovaluto che cosa significa che la società dica la sua, diciamo, su un comportamento. Ti restano tanti danni, ti resta un attaccamento al passato, questo passato che non passa mai, è una prigione alla quale ritorni sempre, a quei momenti brutti, a quegli avvenimenti, a quelle cose che sono successe. Speri che la giustizia possa aiutarti ma in realtà la giustizia penale non ti può aiutare, perché non ti dà quello di cui hai davvero un disperato bisogno, che tu lo sappia o no, poco importa, ne hai bisogno lo stesso: qualche cosa che vorresti fare, che hai bisogno di fare ma che non puoi fare. Fare domande, rimproverare, chiedere com’è stato possibile che tu abbia fatto questo a mio padre, com’è stato possibile che tu abbia messo una sveglia una mattina per dire: caspita, mi devo alzare perché devo andare ad uccidere qualcuno, come hai potuto. Queste domande tu non le puoi fare, non le puoi fare perché davanti a te non hai nessuno, ma non le puoi fare anche per un motivo più profondo, in un certo senso. Perché per fare queste domande tu devi avere di fronte delle persone, mentre quello che la violenza crea, forse la cosa più triste, più brutta, più orrenda che la violenza crea è trasformare le persone in cose. Poco importa se la persona sia quella che è stata uccisa, quindi considerata un ruolo, un nemico, appunto una cosa, o se la persona che ha fatto la violenza anche lui diventa una cosa, perché diventa il colpevole, diventa il portatore del male, diventa il tuo nemico. E a quel punto, non c’è dialogo, perché le cose non dialogano tra di loro, le cose sono inanimate. E quindi qui c’è bisogno, se si vuole, di poter dire quelle parole che possono riaprire una strada che è stata compromessa in maniera grave da atti unilaterali. Bisogna che si ritorni ad essere delle persone, sia quelle che ormai sono solo delle vittime – anche quelle sono delle cose, le vittime sono solo delle cose, poi tu ti affezioni anche ad essere una cosa, tutto sommato, però cionondimeno la tua umanità ne viene ferita. E come si fa a far sì che saltino queste gabbie per gli uni e per gli altri, perché quelli che non sono niente ritornino ad essere delle persone con un’anima, con dei diritti, con dei sentimenti, con delle aspettative? Io credo che il nostro gruppo nel suo lavoro sia stato proprio questo luogo in cui è stato possibile, per loro e per noi, tornare ad essere delle persone e non quelle cose che la violenza aveva costruito: vittime, carnefici, corpi, pezzi di carne sul tavolo dell’obitorio, di cui ognuno può fare qualsiasi cosa desideri. E come è stato possibile che ritornassimo gli uni per gli altri ad essere delle persone? Secondo me è stato possibile, intanto, per il ruolo che hanno avuto loro, che Adolfo ha sfiorato come se fosse un piccolo accidente. Loro ci hanno dato la fiducia di provarci, ci hanno dato la possibilità di non essere da soli a tentare questa strada, e hanno avuto una capacità, che almeno per me è stato un ammaestramento, di saper amare gli uni e gli altri, invece di avere l’equidistanza. Guido spesso parla di questa equi-prossimità che loro hanno avuto nei nostri confronti. Voi sapete che le vittime hanno l’idea di non essere mai considerati da nessuno, e in gran parte è vero, questo è un Paese che non ama ciò che semina e che rimane per strada, ma in parte non è vero. Loro hanno saputo distribuire, aiutarci, e penso che questo sia importante anche per questa fiducia, quella per cui uno ha deciso di dirgli sì, di provare a fare questa pazzia, perché comunque onestamente non ce l’ha ordinato il medico. Quando Guido mi ha proposto di fare parte di questo gruppo, io ho detto no. È una cosa antipatica, ti vai a mettere in un guaio, devi cambiare tutta la tua vita, rimettere tutto in disordine, non a tutti piace questo trasporto nei confronti del dialogo, ma anche nelle famiglie non tutti sono dello stesso avviso. Quindi, loro per me sono stati l’elemento di fiducia: io ho avuto fiducia in loro, fiducia che loro non mi avrebbero mollato in mezzo ai guai e che io non sarei stata da sola. E poi il supporto: questo gruppo di giovani e meno giovani, questi famosi “primi terzi”, corredati anche da quei meravigliosi cuochi che sono tutti professionisti, che hanno dedicato per tanti anni una settimana delle loro vacanze a cucinare per noi in questo luogo sperduto di montagna. Ci hanno supportato, ci hanno accolto. Vi sembrerà strano, ma sia loro che noi abbiamo il problema di un’immensa solitudine, perché noi siamo il nostro ruolo, noi siamo quelli di allora, noi siamo una specie di istituzione positiva o negativa di questo Paese, e da lì non si esce. Loro ci hanno accolto semplicemente come delle persone, sopportando le nostre paturnie, come diceva Adolfo giustamente, sopportando i nostri pianti, strilli, litigate, affetti, abbracci. Io ho avuto fiducia in loro e ci sono andata, e l’incontro onestamente è stato sconcertante, perché intanto io pensavo a dei mostri, per me loro erano dei mostri, si sono comportati come dei mostri, e nella mia mente erano rimasti quelli. E invece ho scoperto delle persone come me (non che io sia un emblema), esseri umani come tutti, pieni di umanità. A me aveva colpito tantissimo nella prima persona di loro che ho conosciuto, Franco Bonisoli, che mi era venuto a trovare, il fatto che lui, raccontandomi un po’ della sua storia come gli avevo chiesto, mi ha raccontato che quando stava in carcere pigliava i permessi per andare a parlare con i professori di suo figlio. Io ho tre figli, ho fatto tutti i ricevimenti dei genitori, i padri sono delle mosche bianche: che questo sprecasse un permesso prezioso di uscita dal carcere per andare a parlare con i professori per me è stato uno shock, perché dico: ma questo allora è più che umano, è qualcosa di più. Ho scoperto il loro dolore. Noi vittime pensiamo che il dolore sia solo nostro, che abbiamo l’esclusiva, e non è così, perché loro soffrono. La prima volta che io sono andata a questo San Giacomo, m’è venuto incontro un signore, capelli bianchi, baffi bianchi, mi ha dato la mano e mi ha detto: “Ciao, io sono Tizio e Caio, io ho ucciso Caio e Sempronio”. Perché lui non poteva pensare neanche per un minuto che potessi parlare con lui e dargli la mano senza sapere che lui era un assassino. Questa è stata una cosa che mi ha molto sconcertato, così come il desiderio loro di stare con noi, di aiutarci nelle nostre difficoltà, e mi ha fatto tanto piacere vedere che le loro vite sono ricresciute buone. Sono delle belle vite, sono delle brave persone che fanno delle cose buone, e tutte queste cose sono in contraddizione con i mostri, voi lo capite, c’è qualche cosa che non torna, insomma. E mano a mano che da cose ritorniamo entrambi persone, possiamo dirci delle parole, delle parole dure, delle parole buone, parole di tutti tipi, possiamo dialogare tra di noi perché, anche se sono cose che danno dolore a loro dicendole, e loro danno dolore a noi dicendone altre che pure sono altrettanto toste da ascoltare sinceramente, quasi al limite. Mille volte ho detto: adesso me ne vado. Ma tu li accetti, alla fine tu li ascolti perché sono persone che ti stanno parlando, persone con storie difficili, dolorose, totalmente diverse dalle tue, strane, strampalate ma sono persone. E quelle cose non ci stanno più. E mentre ti “decosizzi”, diventi anche più libera dal passato, perché quel passato che ha ingoiato tutta la tua vita, finalmente lo puoi prendere e metterlo al suo posto. È orrendo, ti ha lasciato delle ferite che non guariranno mai. Ci sono cose di orrore puro che io non posso neanche nominare, però sono passate, e questo, credetemi, non è poco. Con queste persone secondo me c’è un legame del tutto speciale, al di là di qualsiasi retorica. Poi tutti ci facciamo girare le scatole delle volte, l’uno con l’altro, però noi siamo rinati insieme, e secondo me questa possibilità di rinascere insieme, di tornare ad essere degli esseri umani vivi che possono esprimere quello che hanno dentro, è davvero un pezzetto di quella giustizia che andiamo cercando e che speriamo di poter trovare definitivamente. Grazie.

MARTA CARTABIA:
L’autenticità dell’umanità che è stata espressa è stata giustamente sottolineata con questo applauso colmo di affetto, un’autenticità che non risparmia le fatiche, l’ironia su stessi, le intemperanze, le incertezze, le esitazioni. Questo è uno degli aspetti più convincenti dell’esperienza che stiamo ascoltando, di cui vorrei sottolineare due punti che sono stati detti: uno è il rinascere, ritornare ad essere persone, decosizzarsi, come è stato detto con un neologismo. L’altro è il nodo del tempo, queste coordinate dell’esperienza che ci viene raccontata, un aspetto che mi ha colpito moltissimo tra passato e futuro. Agnese ha detto: il passato è passato, deve ritrovare un suo posto e stare lì, non ingombrarti il presente. Questo aspetto di un passato che non va cancellato: c’è una pagina da lei firmata nelle voci del libro in cui, prima di uno di questi incontri, dice “voglio tornare ad essere sicura di avere ben chiaro cosa è successo in quel 1988. Riguardo le fotografie, scorro i giornali, ripercorro quei 55 giorni, perché se non ho presente quello che è successo non posso guardare in faccia chi ha commesso quei fatti, quei mostri. Ma quel passato a un certo punto ritrova il suo posto”. Maria Grazia, a te.

MARIA GRAZIA GRENA:
Buona sera. Quando mi è stato proposto di far parte del gruppo, io sinceramente, sbagliando, ero convinta che quel passato fossi riuscita a metterlo al suo posto, avevo scontato la mia pena, avevo finito da tantissimi anni, ero stata riabilitata, avevo ricostruito la vita, avevo ritrovato mio marito che avevo lasciato per fare la lotta armata, una delle vittime, avevo fatto anche un figlio, per me bene preziosissimo. Quando arriva questa proposta, mi arriva perché io rincorrevo Claudia Mazzuccato, l’avevo sentita parlare in un incontro pubblico della giustizia riparativa e ascoltandola sono rimasta fulminata perché, dico, questa è la giustizia che vo cercando. Da tanti anni ci pensavo, e quindi, quando mi è stata fatta questa proposta anch’io non ho reagito bene, ho detto no, io ho già dato. Sinceramente ho detto questo, non avevo voglia di ricominciare, avevo fatto tutti i gradi del giudizio, avevo fatto tutto e nella mia vita avevo anche cercato di fare qualcosa che fosse utile agli altri, ridare qualcosa che a me era stato dato. E ho deciso di occuparmi di persone detenute, di cercare di dare a loro un pochino di quel tanto che era stato dato a me quando ero in carcere, incontrando persone della società civile. Quindi, non volevo ricominciare da capo, era il 2010, io avevo finito la mia pena nel 1990 e nel ’91 avevo fatto un figlio, non potevo ricominciare. Però mi sono resa conto, chiedendo chi c’era dentro questo gruppo perché poi sono curiosa, ho voglia di capire, che in realtà non era passato ancora nulla, io non avevo scoperto, non avevo mai incontrato una persona che la violenza che noi avevamo operato l’avesse subita. Nel mio immaginario, continuavano probabilmente a non essere persone, non lo so. Mi sono parlata a lungo ma non avendo io avuto fatti di sangue, non ho mai considerato la persona vittima. L’incontro, quando ho poi deciso di partecipare ai gruppi, con le persone che sono state colpite dalla violenza di quegli anni, oltre ad avermi messa davanti all’evidenza che non avevo ancora fatto i conti fino in fondo con il mio passato, mi ha dato la possibilità d’incontrare delle grandi umanità. Una l’avete qua davanti, anzi, due, altre sono tra il pubblico, e quindi anche la fatica di riattraversare ancora quegli anni ha trovato un senso. Cosa voglio dire? Durante la fase della carcerazione, dopo i primi anni di carcere duro passati in realtà a difenderci anche da una rabbia che continuava a crescere, perché anche noi eravamo stati disumanizzati, non riesci a riattraversare e a vedere quello che hai fatto, i danni che erano stati fatti da quegli anni. Abbiamo potuto ritrovarci nel momento stesso in cui abbiamo avuto la possibilità di re-incontrarci nel processi, di trovare dei magistrati che favorissero il dialogo tra di noi, per capire come era stato possibile che noi, che eravamo partiti da un grande desiderio di giustizia sociale, avevamo trasformato il nostro agire in una ingiustizia ancora più grande. Quello che doveva essere uno strumento era diventato un fine e noi stessi, nel momento stesso in cui avevamo operato violenza, pur dentro un discorso di necessità, avevamo rinunciato all’umanità che ci aveva ricevuto nel muoverci a fare quelle cose. Non è stato semplice scoprire questo ma è anche estremamente importante tenere insieme le due cose, da dove siamo partiti e dove siamo arrivati: sono due momenti fondamentali perché come ha detto anche prima Adolfo volevamo la vita e in realtà abbiamo creato la morte, ma volevamo la vita, quindi ritrovare le motivazioni che ci avevano mosso era estremamente importante per riuscire a trovare nuove motivazioni, per continuare a vivere. Il percorso del gruppo ha quindi risvegliato un percorso che negli anni del carcere era stato molto lungo e anche molto lento, perché non abbiamo scoperto subito le atrocità, o meglio, le abbiamo scoperte le nostre atrocità, ma dovevamo sempre e comunque cercare di tenere insieme i pezzi per non perderci, per non perdere le nostre profondità. Quindi, il percorso che abbiamo avviato della dissociazione in carcere è stato un percorso alla ricerca di quell’umanità che noi stessi avevamo perduto. Arrivare nel gruppo ha significato qualcosa di molto grande, in realtà, perché è vero, io avevo ricostruito la mia vita privata e anche pubblica, però non potevo mai parlare di quegli anni, sia per un pudore intimo, una sorta di autocensura, ma anche perché non era più possibile parlarne. Eppure quegli anni, con tutto il dolore che hanno provocato, sono anche stati anni importanti per questo Paese, non avevamo fatto solo danni perché molte delle conquiste, dei diritti, sono stati fatti dalle lotte fatte in quegli anni. E comunque io mi sono sempre sentita in prima fila in quelle lotte. Mi sono persa quando quelle lotte non sono state più ascoltate. Arrivare nel gruppo è stato ritrovare l’ascolto. La prima cosa che ci è stata chiesta è stata di raccontarci, e quando io mi sono raccontata ho sentito, ho incontrato l’urlo di chi ci chiedeva perché, quell’urlo disperato, e io cercavo delle risposte dentro di me da dare e non le avevo, e non potevo darle e se le avessi date avrei dato dei cliché, avrei dato qualcosa di preconfezionato. L’unica cosa che ho potuto fare era cogliere quell’urlo e, accogliendo quell’urlo, ritornare nelle profondità dell’animo umano e cercare anche quelle forze che ci potessero dare la possibilità di continuare. Non subito, ovviamente, perché ai grandi perché e al sentirti ributtare indietro di nuovo, perché in un giudizio anche se non venivi giudicato però tu continuavi poi a giudicarti e a giudicarti in maniera negativa. Non è stato semplice, il pendolo l’ho vissuto in maniera molto forte: ci voglio stare, non ci voglio stare, sono felicissima di esserci stata perché dentro quel pendolo e dentro quel percorso ho davvero potuto trovare quell’umanità che forse andavo cercando ancora quando, a 23 anni, ho iniziato a fare delle scelte molto dure che mi hanno poi portato appunto alla negazione di me stessa. Quella che sono oggi convive con quello che sono stata, non lo posso dimenticare, quando Agnese dice che comunque quello che ci separa è incommensurabile. Però da quegli anni ho potuto poi raggiungere quello che sono oggi, e penso di non autoincensarmi nel momento stesso in cui il fatto di aver attraversato la sofferenza, purtroppo avendola prima causata, mi ha dato la possibilità di scavare e trovare una umanità profonda che prima forse non avevo mai potuto entrare. Avevo sbagliato tanto, quello stesso errore in qualche maniera mi stava dando la possibilità di scoprire me e, nello scoprirmi, di riuscire poi in qualche modo, anche solo con la mia esperienza, a essere di utilità per qualcun altro. In questo momento mi fermo.

MARTA CARTABIA:
Una frase ancora da parte di Maria Grazia che ci viene regalata.

MARIA GRAZIA GRENA:
Allora, nel nostro percorso avevamo avuto la possibilità di vedere un filmato fatto da Robi Damelin, che era una madre israeliana che aveva visto il proprio figlio ucciso nello scontro atavico con i palestinesi e che non aveva voluto arrendersi alla gabbia dell’essere vittima. E dentro questa sua ricerca di libertà era stata in Sudafrica e aveva incontrato, tra gli altri, Desmond Tutu, per cercare quell’esperienza e trovare la forza di creare qualcosa di simile nel suo Paese. E a un certo punto Desmond Tutu le chiede se l’uomo può cambiare, a sua volta lei chiede a Desmond Tutu se è possibile cambiare. E Desmond Tutu dice che tutto quello che è stato fatto in Africa era per creare cambiamento, perché la fiducia nella possibilità del cambiamento era qualcosa che non poteva essere persa. Però, dopo avere detto queste parole, comunque scoppia in un pianto ininterrotto che ha portato tutti noi a farci questa domanda: ma è davvero possibile cambiare? Io non ho trovato la risposta, non so se ad esempio io sono cambiata dentro questo percorso, ho raggiunto dei grandi livelli di consapevolezza, sono riuscita a trovare una postura che mi permetta di vedere le cose in un modo diverso. Ma nello stesso tempo, ho anche ritrovato quella stessa motivazione e quella stessa passione che mi muoveva quando a 20 anni ho distrutto la mia vita e anche quella degli altri.

MARTA CARTABIA:
Ascoltare l’indicibile: due volte Adolfo Ceretti ha sottolineato questa espressione nella sua introduzione. Nel lavoro che è stato fatto in questi anni abbiamo ascoltato l’indicibile questa sera, e ringrazio sinceramente, non formalmente, Agnese e Maria Grazia, soprattutto per essersi messe in gioco per l’ennesima volta a ripercorrere questa ferita profondissima e inguaribile che l’intensità delle loro parole ci ha comunicato. Non possiamo dare per scontato che una persona accetti di ripercorrere un dolore così profondo, un dolore che, come ha detto Agnese, non è solo delle vittime ma è anche di chi l’ha inferto agli altri. Lasciatemi concludere con tre veloci sottolineature. Come ci è stata raccontata, questa esperienza già ci dice che non c’è nulla da idealizzare. Abbiamo assistito ad un evento che racconta di un’esperienza straordinaria, ma loro stessi non vogliono idealizzare ciò che è la loro vita e ciò che hanno dovuto e devono continuamente attraversare. I protagonisti hanno parlato con grande modestia e nel libro continuamente viene sottolineata con espressioni diverse un’espressione a noi cara, l’ironicità del tentativo che è fatto di un pendolo avanti e indietro, di un elastico, come dice Agnese Moro, in cui i passi del cammino vengono compiuti ma tante volte sono accompagnati da esitazioni ed arretramenti. Loro parlano di una storia aperta, di un incontro accaduto, compiuto ma non concluso, affermano che nessuna vetta è stata conquistata, nessun traguardo tagliato: è un tragitto, un’avventura difficile basata sulla forza della fragilità umana. Parlano di una bellezza dolorosa, ricca di speranza e fragile come la speranza. Una cosa straordinaria che non è da idealizzare ma da guardare in tutta l’intensità della sua umanità, ed è questo l’aspetto a mio parere più convincente. Il secondo aspetto che vorrei sottolineare e che è rimasto un pochino tra le righe ma non troppo, è che questa esperienza che ha riguardato qualche decina di persone coinvolte tutte nella medesima vicenda storica ha potenzialmente una portata culturale enorme. Non so se avete notato che sia Agnese che Maria Grazia hanno detto “cercavamo giustizia”. Ora, che la vittima di un fatto di sangue cerchi giustizia è fatto normale, ma che chi era nelle fila che hanno causato quel fatto di sangue abbia lo stesso anelito, la stessa insoddisfazione verso la giustizia tradizionale e il trasporto verso un oltre, è qualche cosa che non possiamo dare per scontato. Questa esigenza elementare di giustizia insaziabile è davvero un motore che ha unito le umanità e i percorsi così diversi delle persone che Agnese e Grazia, oltre che incarnare qui, rappresentano, anche per coloro che non sono potuti venire. Ma soprattutto sta muovendo a livello culturale – anche i nostri amici brasiliani ce lo hanno testimoniato con la loro mostra straordinaria sull’Apac che è stata visitata, non a caso, anche dai nostri ospiti – nuove concezioni della giustizia che possono aggiungersi, perché il fallo va fischiato ma non basta, occorre andare oltre. Queste nuove concezioni della giustizia sono state sperimentate in tante parti del mondo e sono oggetto di elaborazione e di sviluppo anche nella dottrina italiana: Claudia Mazzuccato, sicuramente una delle protagoniste di questa giustizia riparativa che va oltre la pena, capirà cosa stiamo dicendo. Mi piacerebbe elencare tanti dei punti di questa nuova concezione della giustizia ma il tempo non ce lo permette. Permettetemi di dirvi solo qual è la base comune che, tra l’altro, unisce l’esperienza che stiamo ascoltando qui e quella dei nostri amici brasiliani: la possibilità, la certezza che nessuno è irrecuperabile. Il contrario di quello che Jean Valjean dice ne I miserabili, sottolineando più volte che chi ha rubato una volta ruberà per sempre, oppure che “uno come te non cambierà mai”. La premessa all’opposto è quella di Paul Ricoeur che dice “tu vali molto più delle tue azioni”, ovvero nelle parole di Massimo Ottoboni: “Ogni persona è più grande dei propri errori”. Il delitto sta fuori e qui nell’Apac entra l’uomo. L’ultima sottolineatura: ma questo riguarda solo chi ha commesso un crimine o il mondo della giustizia penale? I conflitti sono ovunque intorno a noi, io credo che ciascuno di noi nei nostri soliloqui possa pensare abbastanza facilmente ai conflitti che si creano, così, per delle sciocchezze, in una vita familiare: due fratelli non concludono la giornata senza mettersi le mani addosso, per scherzo, per serietà, in famiglia o fuori, negli ambienti scolastici, negli ambienti di lavoro. E poi, i fatti sociali, le storie, le immagini e le cronache di questa estate ci hanno detto di fatti laceranti che scorrono nella nostra mente e che dicono di immagini e violenze irrazionali. Non voglio mettere sullo stesso piano tutte le violenze, ci sono specificità, ci sono motivi e questioni diverse, ma il conflitto è ovunque. La potenza culturale di quello che abbiamo ascoltato non è solo perché offre ai giuristi una possibilità di ripensare che cosa può essere la giustizia nel mondo del diritto, ma perché offre alle nostre esperienze anche personali l’immagine e la certezza di un cammino possibile, di un cammino che, come loro stessi dicono, guardi l’altro non più come a un lui, a una lei, a un loro, ma a un noi, un cammino fragile e sommesso, direbbe Papa Francesco, ma reale. Per questo li ringraziamo, per il conforto che danno al cammino personale di chi è in questa sala e alla riflessione culturale che può aiutare a ripensare che cosa sia la giustizia a cui tutti aneliamo. Grazie davvero.

Data

21 Agosto 2016

Ora

19:00

Edizione

2016

Luogo

Sala Neri CONAI
Categoria
Incontri