MINI OLIMPIADI DI “ALLENARSI PER IL FUTURO”

Mini olimpiadi di "Allenarsi per il futuro"

Intervengono: Maria Picone, Career Advisor Randstad HR Solutions; Stefano Paganini, Ambassador di Bosch. Partecipano: Patrizio Oliva, Campione di Pugilato; Mara Santangelo, Campionessa di Tennis; Giacomo Sintini, Campione di Pallavolo; Moreno Torricelli, Campione di Calcio. Introduce Fabio Costantini, Chief Operations Officer Randstad HR Solutions.

 

FABIO COSTANTINI:
Buongiorno a tutti, grazie. Ben trovati.
Mi presento subito , sono Fabio Costantini e lavoro per Randstad.
Due parole solo su Randstad, poi la presenteremo in realtà, ma prevalentemente il motivo per il quale abbiamo deciso di essere qui a rimini per la prima volta e soprattutto tra le iniziative che abbiamo scelto di portare, abbiamo scelto diverse ma la più importante è quella che vi andremo a presentare ed è un progetto al quale teniamo molto. Rimini è un posto di relazione, di confronto, tantissime tematiche che al meeting vengono affrontate, tra i pilastri c’è il tema dei giovani, dell’educazione, del lavoro, quindi questo ci ha spinto ad esserci come Randstad.
Randstad si occupa di dare lavoro alle persone e il tema dell’educazione è un tema che ci sta particolarmente a cuore perché strettamente collegato a quello che è un po’ il futuro della forza-lavoro è quello che oggi i ragazzi che oggi sono a scuola saranno il futuro del nostro paese.
Quelllo che vediamo nella quotidianità di Randstad in questo momento il mercato del lavoro sta crescendo. Noi abbiamo circa quaranta mila lavoratori al giorno; dipendenti Randstad che lavoro per aziende ed è diventato sempre più faticoso l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Quindi, c’è un po’ questo paradosso di una disoccupazione generalizzata ma soprattutto giovanile che è in crescita ma ci sono aziende che cercano profili che noi non riusciamo a trovare. Quarantamila lavoratori al giorno significa che i nostri colleghi, sugli oltre trecento uffici che abbiamo, solo in Italia, vedono oltre centoventi mila persone per scegliere poi la migliore da mandare. E la migliore da mandare vuol dire un candidato che risponda ai requisiti del cliente. Quindi, l’opportunità di avere ragazzi che sono orientati, che capiscano quali sono le leve per entrare nel mondo del lavoro per noi è determinante.
Randstad è olandese come società e quindi anche dall’Olanda, dal nord Europa, dai nostri colleghi è arrivata la spinta e il suggerimento di investire sempre più nell’orientamento al lavoro. E quindi quali sono gli elementi determinanti che fanno si che i ragazzi possano cominciare ad inserirsi in modo più efficace ed efficiente.
Quindi, è qui che entra questo progetto, progetto che in realtà è nato da una collaborazione tra Randstad e Bosch, azienda tedesca che sicuramente conoscete, che poi presenteremo. Progetto che ha la missione di andare quotidianamente nelle scuole su base quotidiana su tutte le regioni di Italia noi andiamo ad incontrare ragazzi prevalentemente di istituti superiori per spiegare loro delle cose che possono sembrare semplici: qual è la differenza tra la competenza e l’attitudine, cosa vuol dire il talento, cosa vuol dire la motivazione al lavoro, quali sono le leve per fare le migliori scelte lavorative e per il proprio futuro.
E questo è stato un lavoro complesso da più di qualche anno che siamo partiti, di grandissima soddisfazione e quindi qui abbiamo pensato che potesse essere interessante trasportare questo progetto per farvi capire che sicuramente in questo momento in Italia la transizione istruzione lavoro è presidiata ma dovrebbe esserlo di più. Quale sostegno le famiglie possono avere le famiglie o i ragazzi per fare delle scelte corrette
Ma soprattutto un mercato del lavoro che rispetto a dieci anni fa sta cambiando sempre più velocemente in ordine alla grande innovazione e la digitalizzazione quindi i cambiamenti che prima avvenivano in qualche lustro, in qualche anno, oggi avvengono in qualche mese.
E anche quindi, anche le competenze del ragazzo del sistema scolastico difficilmente possono essere così veloci in ordine al cambiamento che sta avvenendo quindi le leve sulle quali spinge dal punto di vista educativo probabilmente sono già cambiate e cambieranno
E quindi Randstad e Bosch hanno scelto di creare un grande team e di fare un qualcosa. Poi stiamo cercando di coinvolgere più aziende possibili che probabilmente la logica del sistema, della rete, quella che ci consentirà di far evolvere il nostro paese.
Questa è l’agenda delle cose che vedremo in questa ora e mezza che abbiamo di fronte che sarà abbastanza variegata.
L’unico esercizio che vi chiedo e che abbia scelto di farvi fare, il momento di coinvolgimento, è che in questo momento, da adesso in poi noi cominceremo a presentare il progetto come lo facciamo su base quotidiana all’interno delle scuole.
Quindi tanti oggi sono i ragazzi, e quindi che rientrano perfettamente nel target di cui stavo parlando, ma altri sono già fuori dall’età del terzo quarto superiore.
Per essere efficace, per farvi capire come lavoriamo da adesso in poi presentiamo il progetto come lo presentiamo su base quotidiana.
Le motivazioni del perché del cosa facciamo le vediamo nella parte iniziale della presentazione e poi presenterò tutti gli altri ospiti.
Comincerei con un applauso per gli sportivi che sono sul palco e anche oggi sono qui.
Come ci sono su base quotidiana vedremo che team di educAllenatori perché abbiamo prescelto la metafora dello sport per portare avanti questo importantissimo progetto.
Cominciamo
Questo è l’obiettivo che si prefigge il progetto che si chiama “allenarsi per il futuro” e che deve poter garantire ai ragazzi una base di sostegno alle scelte che devono fare.
Scelte che in realtà sono sempre più complesse in ordine su quali competenze investire o su quale dote o capacità far leva e la responsabilità all’allenamento, la passione, sono probabilmente degli elementi che nel tempo faranno sempre più la differenza ma soprattutto l’allenamento e quindi qua inserisco il tema della metafora dello sport .
Questi valori allenati su il mondo sono sportivo probabilmente sono più complessi o vanno ricordati. Per uno sportivo l’allenamento quotidiano è ordinario, è normale, è la prassi dare il meglio della propria prestazione durante la gara, è quello che si aspetta la propria squadra. Sul modno del lavoro, sul mondo dell’educazione questo va ricordato.
Quindi il tema è il concetto dell’allenamento è determinante perché in realtà non si apprenderà durante il periodo scolastico ma si apprenderà durante tutto l’arco di una vita lavorativa che per altro è diventata lunghissima che prevedrà anche probabilmente grandi e diversi cambiamenti di lavoro della persona in fase di crescita.
Questi invece sono numeri in occupazioni giovanili e quindi la motivazione principale per la quale abbiamo scelto di partire con “allenarsi per il futuro” è che oggi c’è un po’ il paradosso di due milioni e mezzo di ragazzi che non sono coinvolti in attività di formazione, che non lavorano, e che non studiano e che sono un polmone determinante per avere un’Italia produttiva tra qualche anno.
Nel frattempo abbiamo lavori che non vengono, che non trovano, le candidature adeguate e quindi aziende che non riescono a chiudere posizioni. Quindi questa è una motivazione importante che ahimè rispetto ai paesi d’Europa l’Italia è sul podio di questa popolazione.
Come abbiamo scelto di intervenire quindi con questo allenamento? Con l’attività di orientamento. Una attività di orientamento che è un po’ alla base del concetto del motivo per il quale si studia ma soprattutto delle doti che ciascuno di noi ha, del talento, che ciascuno di noi ha e quindi il talento che uno sportivo ha identificato e sul quale si allena è il talento che ciascuno di noi ha e che può , mettere in campo in campi diversi.
Questo orientamento, e questo progetto lo facciamo su quattro ore in una mattinata a scuola e poi c’è l’opportunità per chi vuole di fare percorsi di vero e proprio orientamento attitudinale, più strutturato, a titolo gratuito, i goal che vedete sono i gruppi di orientamento al lavoro, tra i diciotto e quaranta ore dove diamo qualche indicazione in più ai ragazzi che hanno voglia e volontà di approfondire determinante è il driver della motivazione.
La motivazione, l’attenzione dei ragazzi riusciamo ad ottenerla di più con il tema dell’esperienza di uno sportivo.
Queste sono le scuole sulle quali lavoriamo e quindi il grande impegno, anche, che ci siamo presi di provare e ci siamo riusciti ad esserci sull’intero territorio nazionale, e ogni anno le scuole crescono, crescono in ordine al cogliere una opportunità nel frattempo è arrivata l’alternanza scuola-lavoro che è sicuramente una opportunità che dev’essere gestita con una programmazione e stiamo lavorando tanto con le scuole, con le singole scuole e con i dirigenti per capire poi come progettare le attività di successive a questa partenza con la attività di allenamento .
E questi sono i numeri che abbiamo realizzato negli ultimi tre anni, e come vi dicevo quindi un progetto che ha già una base e una storia.
Sono sessantottomila i ragazzi che abbiamo incontrato lo scorso anno e inoltre trecento quaranta scuole. Se fate la media vuol dire che su base quotidiana i nostri colleghi gli educAllenatori intervengono per esserci e per completare il percorso che vogliamo completare.
Gli obiettivi di quest’anno che come vedete sono ambiziosi, alziamo ogni anno l’asticella, è quello di riuscire ad incontrare ottantamila ragazzi e poi di partire con attività di tirocinio curricolare, quindi prima del diploma alternanza scuola lavoro, esperienze in aziende.
Aziende che da un lato sono orientate nell’aver avuto un formale riconoscimento, come Bosch, come Randstad di un progetto che è campione di alternanza scuola-lavoro, ma dall’altro, progetto che naturalmente non abbiamo scelto di portare avanti da soli, e quindi abbiamo trovato durante il percorso dei compagni di viaggio che con noi ospitano i ragazzi in attività di tirocinio e di alternanza scuola-lavoro.
E quindi speriamo nel tempo di riuscire a muovere sempre di più e a ingrandire, duplicare questa slide perché vuol dire che probabilmente riusciamo ad essere più efficaci nel poter dare ai ragazzi l’opportunità di sperimentarsi durante il ciclo scolastico su quello che vorrebbero fare o di capire quello che non vorranno fare e fare altro .
E qui come vi dicevo il gruppo, il team determinante degli educAllenatori che hanno mille motivi per i quali hanno creato il salto di qualità di questo progetto.
Non ne cito nessuno perché sono ampiamente rappresentati oggi ma la metafora dello sport realmente si addice al mondo del lavoro, i valori dello sport sono veramente coerenti con il mondo del lavoro, sicuramente l’attenzione dei ragazzi sull’intero territorio nazionale è molto alta nel momento in cui si rispecchiano sullo sportivo che non è più solo sportivo, non è solo il nome ma è una storia che viene raccontata e scelte e sacrifici che sono stati fatti che devono arrivare ai ragazzi come base per crescere nel loro percorso lavorativo.
A questo punto come vi dicevo partner pilastro del progetto Bosch insieme a Randstad nel portarlo avanti. Ci teniamo a ovviamente a presentarvi la realtà Bosch, no? Lo facciamo attraverso Stefano Paganini che ci racconta la celta e le motivazioni del progetto
Grazie molte, io poi resto qui

STEFANO PAGANINI:
Buon giorno a tutti. Allora mi presento velocemente.
Mi chiamo Stefano Paganini, ho quarantanove anni, sono di Milano e lavoro per questa importante multinazionale tedesca che è Bosch.
Ho iniziato a lavorare nell’89.
Come primo lavoro ho iniziato a lavorare in una azienda di telecomunicazioni ma la mia passione era il mondo dell’auto e ho avuto la fortuna di poter rispondere ad un annuncio della Robert Bosch e ho iniziato nel 90 a fare il formatore tecnico nel mondo auto.
Dopo parecchi anni in questa divisione, per cui dove ho fatto il formatore, l’ispettore tecnico e il responsabile della formazione, volevo fare un’esperienza commerciale e nel 2007 dieci anni fa ho iniziato a lavorare in una divisione che si chiama Bosch Tech che è la scuola di formazione del gruppo Bosch e in questa divisione mi occupo di vendere formazione in particolar modo formazione tecnica più legata al mondo dell’auto ma soprattutto al modo industriale, per cui seguo clienti dalle acciaierie, siderurgie, cartiere, costruttori di presse un po’ di tutto e principalmente vendo appunto formazione tecnica.
Il gruppo Bosch, adesso vi faccio vedere un filmato che così magari vi fa capire un po’ chi è: è una multinazionale tedesca con sede a Stoccarda di lunghissima storia e che ha come caratteristica principale il fatto di essere una fondazione. Per cui il 90% delle quote azionarie del gruppo sono detenute da una fondazione che ha voluto fortemente Robert Bosch ancora prima della sua morte e per cui è una azienda che non ha azionisti ma che per poter campare deve contare solo sulle sue forze e sugli investimenti fatti in ricerca e sviluppo.
Facciamo partire il video poi vi dico due dati ancora.
Ecco, e allora due dati sul gruppo.
Allora, vi ho detto multinazionale tedesca è una fondazione oltre trecentomila collaboratori, un fatturato di oltre settanta miliardi di euro e come è suddiviso questo fatturato?
Lo vedete lì, il 60% è legato al mondo principalmente dell’auto, oggi la divisione è una divisione che viene chiamata Mobility Solution perché all’interno oltre ad esserci il mondo auto che comunque rappresenta la storia dell’azienda perché da lì è partita e il grosso del fatturato, contiene anche ad esempio la divisione delle bike per cui la divisione che sviluppa e vende i motori elettrici per le bici a pedata assistita.
Per cui ci sono varie divisioni aggiuntive, c’è tutta la parte die motori aggiuntiva dei motori elettrici per le macchine a trazione elettrica o ibrida ma il grosso è ancora fatto dalla parte di sistemi di gestione, motore, benzine diesel per tutte le autovetture, sistemi di sicurezza e comfort.
Però all’interno del gruppo ci sono altre tre grandi aree che sono l’area dell’Industrial Technology, per cui l’area industriale dove all’interno il marchio più importante è Bosch rexroth, che è una azienda che fa sistemi di automazione industriale e trasmissioni di potenza in ambito industriale.
Poi c’è la divisione Consumer Goods che è sicuramente quella più conosciuta che è quella degli elettroutensili, degli elettrodomestici, che è quella più conosciuta dal pubblico e poi l’ultima divisione che è quella dell’Energy and Building Technology che all’interno insomma ha anche la divisone termotecnica per cui quella degli scaldabagni, caldaie e sistemi di riscaldamento e così via.
La cosa, l’ultima slide poi lascio la parola alla dottoressa Piccone, la slide relativa all’Italia che è una cosa abbastanza interessante perché fa vedere come il gruppo Bosch è strutturato in Italia.
Fino al 1993 eravamo solo una sede commerciale con più o meno quattrocento persone con sede solo a Milano e dal 93 in avanti il gruppo è cresciuto tantissimo perché il gruppo Bosch ha fatto grossi investimenti, acquisendo aziende in Italia e sviluppandole e oggi il gruppo conta diciannove entità legali, oltre trenta siti con più o meno seimila collaboratori.
La cosa molto interessante è che in Italia non abbiamo solo sedi commerciali ma abbiamo parecchi stabilimenti produttivi.
Facciamo un esempio, a bari c’è uno stabilimento dove lavorano più di duemila persone dove si fanno le pompe ad alta pressione del diesel, il famoso impianto Common-Rail; a Udine abbiamo degli stabilimenti dove si producono lame per tagliare il legno; a Brembate, a Bergamo, abbiamo uno stabilimento che fa le punte per i martelli demolitori, per cui non ci sono solo sedi commerciali ma anche stabilimenti produttivi. Questo giusto per far capire che in Italia il gruppo investe, ci crede molto, l’Italia è un paese molto importante dove vengono fatti investimenti per acquisire aziende italiane che sono magari considerate strategiche per il gruppo e poi integrandole nel gruppo e con investimenti vengono poi fatte rendere ancora di più.
Direi che se non ci sono domande, lascio la parola alla dottoressa Piccone di Randstad e continuiamo.

MARIA PICONE:
Grazie, grazie Stefano
Buonasera a tutti, anche io come i miei colleghi mi presento con una slide.
Perché lo facciamo? Noi ogni volta che andiamo nelle scuole, nelle università che parliamo con i ragazzi portiamo sempre delle immagini che rappresentano la nostra vita.
Lo facciamo per un motivo: perché vorremmo far capire ai ragazzi l’importanza di presentarsi, di sapersi presentare bene e soprattutto fargli capire che anche noi come loro, che in questo momento si trovano nei banchi di scuola, avevamo gli stessi dubbi e le stesse difficoltà.
Io per esempio racconto ai ragazzi che sin da subito non avevo capito quale fosse la mia strada, quindi ho provato diverse strade, mi sono orientata in diversi settori, in diverse aziende , fino a quando ho trovato, ho scoperto la mia passione, la mia passione per il mondo dell’orientamento. Ho lavorato all’interno di diverse Università, proprio nella parte dell’orientamento quindi ho cercato di orientare i ragazzi, fino a quando ho incrociato lungo la mia strada Randstad che è una azienda che ha voluto in da subito investire sui giovani quindi ha creato proprio una divisione che si occupa di orientare giovani al mercato del lavoro.
Chi è Randstad?
Io spesso chiedo ai ragazzi quando vado da loro: qualcuno di voi ci conosce?
È importante, è importante conoscere le aziende, è importante soprattutto conoscere soprattutto una multinazionale come la nostra che si occupa proprio di trovare lavoro ai giovan.
Siamo una multinazionale olandese, siamo presenti in Italia dal 1999.
Abbiamo, ci occupiamo da oltre 50 anni di ricerca, di selezione e di formazione del personale, siamo da quest’anno il secondo player livello internazionale sul mercato italiano e abbiamo un fatturato che nel 2015 è di 19, 2 miliardi di euro e ve lo presento con un bel video.
Come vi dicevo non ci occupiamo soltanto di risorse umane, di selezione, ma abbiamo aperto nel 2012 una divisione che è per noi importantissima che si chiama “youth at work” e che si occupa proprio di accompagnare giovani lungo il loro percorso, quindi li orientiamo con tantissimi progetti. Quindi andiamo a fare questi spiccioli in tutte le scuole, partendo sin dalle scuole elementari e facciamo tutta una serie di progetti con loro.
Abbiamo in primis “allenarsi per il futuro” che è il motivo per cui oggi siamo qui noi, che attraverso la metafora dello sporta cerchiamo di far capire ai ragazzi quanto sia importante impegnarsi e allenarsi nella vita per raggiungere gli obiettivi. Fabio citava i gruppi di orientamento al lavoro: quest’anno siamo andari in tantissime scuole e, attraverso un progetto che eroghiamo gratuitamente ai ragazzi, facciamo dei corsi di formazione che sono finalizzati all’acquisizione di competenze legate al mercato del lavoro. Spieghiamo ai ragazzi come scrivere un curriculum, come sostenere un colloquio, come cercare lavoro, cose che sembrano banali, ma che in realtà spesso non sono neanche così semplici. Ora passo la parola ai nostri sportivi che sono il momento clou, come dicevo, di questo progetto, progetto importantissimo. E iniziamo con un oro ai mondiali che è Patrizio Oliva, il nostro campione di pugilato e ve lo presento con un bel video.

Video

PATRIZIO OLIVA:
Buongiorno a tutti. È bello vedere tanti ragazzi, tanti ragazzi in sala. Bene, ragazzi, noi siamo una piccola parte di una grande squadra, di campioni che fanno parte di queste due grandi aziende, la Bosch e la Randstad, che hanno aderito a questo progetto creato dal ministero dell’istruzione dell’alternanza scuola – lavoro. Noi siamo felici di partecipare a questo progetto e con molta forza cerchiamo di far capire ai ragazzi quanto sia importante seguire questo percorso e l’alternanza scuola – lavoro. Perché uno vi dà la possibilità di avere un orientamento sul mondo del lavoro, ma soprattutto vi permette di trasformare il vostro sapere, quindi la teoria, nel saper fare, nella pratica. Perché noi ragazzi possiamo avere anche un ammasso di conoscenza, ma poi non seve a niente se non lo trasformiamo nella pratica. Infatti ci sono persona che prendono informazione, analizzano, elaborano modelli teorici ma non sperimentano mai. C’è chi studia, pensa, riflette, ma non fa mai in modo che poi la teoria possa diventare pratica. Infatti c’è un’espressione che si usa nel mondo dello sviluppo e della ricerca: learning by doing, imparo facendo, significa proprio questo, che il nostro sapere si forma o accresce se siamo i primi a sperimentare. Non è che la teoria non sia importante, ma non ha nessuna utilità se poi non la trasformiamo in pratica. Nello sport il parallelismo è calzante, pensate nel mio sport: un pugile va in palestra, il maestro gli insegna la tecnica, le tattiche, gli mostrale figure, porta il colpi al sacco, ma tutto questo non ha nessuna utilità se poi non si confronta sul ring con avversari in carne ed ossa. Ed è l’esperienza che il più delle volte fa la differenza: non vince quello che sa la tecnica migliore, ma chi riesce a mettere in pratica nel miglior modo la tecnica. E anche questo può essere trasposto proprio nel vostro settore, nella scuola, nel lavoro. Quanti ragazzi studiano per concorsi o per arrivare a una laurea? Poi chi è che va avanti, ragazzi? Non va avanti quello che sa di più, ma chi riesce a mettere nel modo migliore quelle conoscenze. Noi ci presentiamo a voi con un filmato, ma non lo facciamo per vana gloria. Lo facciamo per farvi capire quanto è importante credere in quello che si fa. Noi usiamo lo sport come metafora della vita per dimostrarvi che si può arrivare al successo provenendo anche dai piani ma molto molto bassi. Allora io vorrei cominciare proprio con una bellissima citazione del XVI presidente degli Stati Uniti, che poi è stato il primo presidente repubblicano, Abramo Lincoln, sull’impegno, che diceva: “L’impegno è ciò che trasforma una promessa in realtà”, ed è così. Il mio impegno, ragazzi, era quello di, quotidianamente, percorrere 15 km di strada a piedi perché non avevo neanche i soldi per comprarmi il biglietto dell’autobus. Sono sempre stato consapevole che nulla pioveva dal cielo, infatti c’è stata una massima che mi ha sempre accompagnato, molto bella: Dio dona il suo cibo a tutti gli uccelli, ma non glielo mette nel nido. Quindi io sapevo che se volevo ottenere i risultati dovevo impegnarmi, dovevo faticare, quindi io non mi sono mai stancato percorrendo quei 15 km a piedi e mi allenavo in una palestra che era una topaia, una palestra umidissima, ma per me era la palestra più bella del mondo, perché sapevo che in quella palestra potevo realizzare i miei sogni. Se voi riflettete, tra noi sportiti e voi studenti, c’è questo parallelismo, perché anche voi ogni giorno dovete impegnarvi quando andate a scuola, tra i banchi di scuola per programmare il vostro futuro. E anche voi dovete essere consapevoli che nessuno vi regalerà niente nella vita, che se volete ottenere il successo e i risultati dovete faticare, ragazzi, dovete impegnarvi. Dico questo perché spesso nelle scuole sentiamo ragazzi che non credono nelle proprie capacità, dicono: ma per avere successo bisogna avere talento, per avere successo bisogna conoscere persone giuste. Non è così ragazzi. Chi ragiona così è per trovare alibi per non fare nulla. Io vi posso garantire che chi ha avuto successo nella vita, lo ha avuto grazie alla disciplina, impegno e costanza. Più di chi aveva talento e non gliene fregava niente, più di chi conosceva le persone giuste. Io voglio portarvi un esempio: nel 1979 partecipai ai campionati europei a Colonia, in Germania. Ragazzi arrivai in finale contro un pugile dell’Unione Sovietica. Ragazzi, allora l’Unione Sovietica allora era ancora uno stato unico. Avevo vinto nettamente, ma una giuria ignominiosa fece veramente per un’ingiustizia nei miei confronti, dandomi la sconfitta immeritata. Eravamo in Germania. Il pubblico per la protesta interruppe per più di mezz’ora i campionati. Sul ring lanciarono di tutto. Quando ci fu il momento della premiazione per prendere la medaglia sul podio, l’inno sovietico dai fischi non si sentiva. Arrivò addirittura, io me lo ricordo benissimo, arrivò un omone che tolse il sovietico dal podio numero uno e mise me su quel podio facendomi capire: questo è il posto tuo. Però io accettai, nella mia sportività, accettai quell’ingiustizia. Però, devo dire che poi il destino mi ha voluto regalare poi una grande vendetta, ma devo dire me l’ha voluta regalare con il sogno. Perché un anno e mezzo dopo d’erano le olimpiadi in Unione Sovietica e il destino volle che io e il mio avversario, il mio pugile che mi aveva battuto agli europei, capitammo in due gironi diversi, quindi ci potevamo incontrare solo in finale. Magari la fortuna era che magari ci incontravamo nello stesso girone, uno dei due usciva subito, no! Invece a te io voglio dare la favola: arrivammo entrambi in finale. Io battei tutti i miei avversari del mio girone, lui batté i suoi avversari del suo girone. Quando arrivammo in finale dissi: adesso, stasera, mi dimostrerai quanto sei pugile, combatti a casa tua. Vediamo quanta forza riesce a dare il tuo pubblico. Io potevo ragionare a dire: mi hanno dato la sconfitta in Germania, figuratevi in casa dell’avversario per una finale olimpica, ma quando mi fanno vincere? Ma io non mi sono pianto addosso. Io ho lottato, ho creduto nelle mie capacità. Signori, il 2 agosto 1980 davanti a 40.000 spettatori io diventai campione olimpico. Quindi per dimostrarvi quanto è importante credere in se stessi. Guardate che la letteratura classica, io sono appassionato, è straordinaria, ci dà dei messaggi che sono straordinari. Aristotele nel IV secolo a.C., Aristotele è stato un grande, l’allievo prediletto di Platone, ma soprattutto poi è stato il mentore di Alessandro Magno di Macedonia. Aristotele diceva che “un uomo può compiere qualsiasi impresa purché ci creda fermamente”. Più avanti anche Virgilio, colui che ha raccontato l’Eneide, il viaggio di Enea verso il Lazio, dove poi i suoi discendenti fondarono Roma, diceva: “Possono perché credono di potere”. Ragazzi, ed è vero, perché io a otto anni mi mettevo davanti allo specchio e da solo mi proclamavo campione del mondo e campione olimpico. E quel sogno si è realizzato perché se noi diamo al nostro cervello un futuro motivante è più facile che il successo può arrivare. Perché credere in se stessi, ragazzi, scatena in noi la sfida, e la sfida sprigiona delle forze invisibili in noi che neanche conosciamo. La sfida fa una cosa grandissima: ci fa agire. Il filosofo americano Emerson diceva: “ogni pensiero sorge nella mente e nel suo sorgere mira ad uscire fuori dalla mente, all’atto, come ogni pianta germinando mira ad arrivare alla luce”. Noi questo dobbiamo fare: dobbiamo portare alla luce i nostri propositi, i nostri intenti, i nostri sogni, se no rimarranno solo dentro di noi. Io potevo fare tutti gli sport, credetemi, meno che la box. Perché? Perché quando ero bambino ero gracilissimo, avevo un fisico che proprio faceva schifo. Mi prendevano in giro quando io dicevo: “vado in palestra, faccio il pugile”. “Ma ‘ndo vai? Con sto fisico …”. Ma io credevo in quello che stavo facendo. E allora che cosa ho fatto? Ho cominciato a forgiare il mio fisico, ad allenarmi duramente, a trovare una strategia, non posso arrivare ad ottenere successo con la forza, allora devo trovare altre strade. E allora ho cominciato a usare le gambe, la velocità di esecuzione delle mie braccia e la determinazione di diventare campione mi hanno fatto superare tutti gli ostacoli e tutte le fatiche che io avevo davanti durante il mio percorso. Vedete io ho tirato fuori, ho portato fuori dalla mia mente, il mio sogno e l’ho portato alla luce, con tanto duro allenamento. A ridosso della mia carriera professionistica. io subì un infortunio incredibile alla mia mano destra, una vera e propria malattia, un’osteoporosi. L’osteoporosi è una malattia che prendono i vecchi, le ossa si indeboliscono, io l’avevo presa per i continui traumi che da bambino davo vicino a dei sacchi enormi che erano sacchi sbagliati, di pietre proprio. Pensate che al primo colpo che portavo quando combattevo la mano si fratturava: ero costretto a continuare tutto l’incontro, dodici round, quindici round, con una mano sola, perché non avevo più neanche la forza di chiudere la mano. Pensate, ero arrivo a uno stadio della mia mano che non riuscivo a versare l’acqua nel bicchiere con la bottiglia che mi cedeva la mano dal dolore. Tutti i medici che io avevo consultato in Italia e all’estero, tutti mi avevano detto la stessa cosa: lei deve smettere di fare il pugile, non può fare il pugile con una mano così disastrata. Ragazzi, anche in questa occasione io non mi sono pianto addosso, ho trasformato un gap in un punto di forza. Ho trovato un’altra strategia, mi sono messo a lavorare duramente con il braccio sinistro per mesi e mesi. La sera arrivavo a casa con la spalla che se ne cadeva a pezzi, mia moglie che mi metteva il ghiaccio, i massaggi… Ma il 2 agosto del 1986 sul ring di Monte Carlo, contro un argentino, sono diventato campione del mondo, con un braccio solo. Quindi questo per dirvi che quando pensate di avere addosso una condanna, ragazzi, reagite, non vi abbattete. L’essere diventato campione del mondo per me è stato importantissimo, ma più importante per me è stato quello di aver superato i miei limiti, i miei limiti mi dicevano che io non potevo più andare avanti e invece io ho superato i miei limiti. Ma io vi posso garantire che chi mi ha fatto capire quanto sia importante superare i propri limiti, è stata una bambina di sei anni, qualche anno fa in una gara di nuoto. Io andai a vedere questa gara di nuoto insieme a un mio amico avvocato. Finita la gara una bambina esultava tutta sorridente, non stava nella pelle, io andai vicino, le feci i complimenti “brava hai vinto” e lei mi disse “no, no, no” e io dissi “bene sei arrivata seconda?” “no, no, assolutamente”, ma sempre sorridente. Allora io incalzai “va beh, ma sei arrivata terza?” “No, no, no, io sono arrivata ultima. Ma per la prima volta da quando faccio nuoto nella mia vita sono riuscita a fare tutta la piscina”. Cioè, straordinaria. Straordinaria perché questa bambina nonostante conoscesse i suoi limiti ha provato. Ha provato, non si è tirata indietro, non si è pianta addosso “che vado a gareggiare a fare, tanto non riesco a fare neanche una vasca”. Questo è ragazzi importante! Tentate sempre di superare i vostri limiti. E questa bambina ha fatto capire quanto importante sia la differenza tra lo sconfitto e il perdente, c’è un’enorme differenza, non è la stessa cosa: lo sconfitto è colui che dalla sconfitta ne trae una lezione, cerca di migliorarsi per la prossima volta; il perdente invece è colui che ha paura di confrontarsi con se stesso né che con gli altri. Si piange addosso, dà le colpe dei suoi fallimenti agli altri, perché? Perché il perdente non sa quanto importante sia la sconfitta. Noi campioni, prima di diventare campioni, loro possono essere testimoni, tutti siamo passati per le sconfitte. Ragazzi, se noi pensiamo che già la vita quotidianamente ci mette di fronte alle difficoltà, ma noi dobbiamo trovare la forza poi di superarle quelle difficoltà. Le difficoltà sono una parte integrante del nostro percorso e se non ci fossero le difficoltà non ci sarebbe nessuna differenza tra le persone attive e coraggiose con le persone inerti e pavide. Sicuramente i secondi non potrebbero fare, potrebbero fare la differenza. Io vi racconto una mia esperienza, la mia prima sconfitta. Io partecipai a un campionato italiano dei principianti. Pensate che già nel mondo della box, io ero bambino, diventai subito un talento, il mio nome passava da palestra a palestra, in tutta Italia: “A Napoli c’è un ragazzo che è un fenomeno”. Partecipai a questi campionati italiani, io convinto di diventare campione italiano come tutti erano convinti che sarei diventato campione italiano. Arrivai in finale e persi la finale. Mi crollò il mondo addosso, ma non ho dato la colpa a nessuno, ho pianto per dieci giorni. Cercavo di capire perché ho perso. Poi piano piano ho cominciato a capire: ho perso perché ho gonfiato troppo il petto. Ho perso perché ho pensato, ho creduto di essere campione prima di diventarlo. Ho perso perché non ho rispettato il mio avversario. E questo è stato per me una grande lezione. Credetemi, quando si ottengono i risultati veramente è la cosa più gratificante che una persona possa avere. Infatti, un popolo dell’antica Grecia, i Feaci, coloro che hanno dato poi ad Ulisse ospitalità e gli diedero la nave per rientrare nel proprio paese, dicevano proprio che “non c’è gloria più grande [per un uomo] della conquista fatta con i propri piedi e le proprie mani”. Io vi voglio lasciare solo dicendovi: ragazzi, sappiate solo una cosa, che i risultati importanti non esplodono dal nulla. Per raggiungere quelli che ci siamo prefissati bisogna rischiare e il rischio è insito dappertutto, in un progetto, in un’apertura di un’azienda, in una gara, in un amore… Ma non significa che non bisogna tenere duro fino alla fine. Fin quando una parte di noi avrà la forza di farcela. Grazie.

MARIA PICONE:
Grazie Patrizio. Adesso passiamo ad un altro sport, introduco sempre con un video, il nostro campione d’Italia, oro agli europei, Giacomo Sintini.

Video

GIACOMO SINTINI:
Grazie mille. È veramente un piacere essere qui oggi con voi. Ora racconto anche io la mia esperienza così come cerco di raccontarla ai ragazzi quando facciamo gli incontri di “Allenarsi per il futuro”. Io come i miei colleghi appunto cerchiamo di portare le nostre esperienze e raccontare ai ragazzi quello che abbiamo imparato da quello che ci è successo. Io non ho sempre giocato a pallavolo. Io prima, quando ero ragazzo, quando ero bambino, avevo un sogno, ed era quello di diventare un giocatore di calcio bravo come Torricelli. Io volevo diventare un calciatore, sognavo di fare il calciatore e mi impegnavo ogni giorno per giocare a calcio. Poi a 14 anni, in realtà leggermente prima, tra i 12 e i 14 anni, io sono cresciuto tantissimo e sono cresciuto molto velocemente e mi erano cresciuti tantissimo anche i piedi. Tutto a un tratto mi sono trovato che non ero più capace di giocare a calcio come prima, non riuscivo più a correre con la stessa velocità, non riuscivo più a coordinarmi con la stessa agilità e non riuscivo più a trattare la palla con i piedi come facevo prima. Il mio allenatore, che fino ad allora mia aveva sempre fatto giocare titolare, cominciò a dirmi, pensate, che facevo schifo. Lui cominciò a dirmi che giocavo talmente male che non meritavo di scendere in campo con la sua squadra, per cui mi metteva sempre in panchina, sempre, sempre in panchina. Dopo un po’ io mi sono stancato e ho cominciato a cercare nuove soluzioni. Mio fratello maggiore aveva iniziato a giocare a pallavolo due anni prima di me, anche lui perché era cresciuto tanto e aveva smesso con il calcio. Io una sera sono andato a vedere una partita di pallavolo di mio fratello e mi sono innamorato a prima vista della pallavolo. Mi è piaciuta così tanto che chiesi di cambiare sport e di andare a giocare l’anno successivo a pallavolo. A Ravenna negli anni, erano gli inizi degli anni ’90, c’erano un grande club che si chiamava “Il messaggero Ravenna”, era molto forte, aveva un ottimo settore giovanile. Io andai a fare un provino in quella squadra, ebbi accesso a questo provino soltanto perché ero molto alto. Io vi assicuro che non avevo idea di come si giocasse a pallavolo. Non avevo mai giocato in vita mia e quando sono andato a fare quell’allenamento tutto quello che io sapevo era quello che avevo imparato su “Mila e Shiro”, il cartone animato. Va bene? A momenti avevo capito che dovevo buttare la palla di là dalla rete. Vado a fare questo allenamento, questo provino insieme a ragazzi di 14 anni come me già molto bravi e l’allenamento andò malissimo, un disastro totale. Io mi vergognai per due ore intere di stare in campo in mezzo a loro. Finalmente il provino finisce, io sono tornato in spogliatoio, ho preso la borsa e con mio papà che mi camminava a fianco, ma non aveva il coraggio di fiatare da quanto io ero deluso, mi incamminai per tornare alla macchina. A metà corridoio della palestra ci fermò un signore che allora era il direttore sportivo del “Messaggero Ravenna Volley”, ci fermò, si presentò – io all’inizio non è che avevo tanta voglia di ascoltarlo – però poi mi disse una cosa importantissima, mi disse: “Jack, io vorrei tanto che tu venissi a giocare con noi l’anno prossimo”. All’inizio io l’ho guardato come dire mi sa che questo mi ha scambiato per qualcun altro e poi invece lui mi disse “Io vorrei tanto che tu venissi a giocare con noi e ti dirò di più, se tu mi dai retta, dai retta ai tuoi allenatori e ti impegni veramente tanto io ti assicuro che puoi diventare veramente forte” e poi mi disse una cosa stupenda: “tu puoi diventare forte perché hai una cosa che no si può insegnare, tu sai toccare la palla morbida” mi disse. In pratica lui mi disse che io sapevo toccare la palla con le mani in maniera molto naturale e mi spiegò che io avevo un talento che non sapevo di avere. Lui mi disse che io sapevo fare una cosa molto bene, meglio di chiunque altro quel giorno in quella palestra e io non avevo nessuna idea di saperlo fare. Mi cambiò la vita. Io dal giorno dopo, mi ricordo, che cambiai mentalità, cominciai a pensare, va bene, questa persona molto competente dice che io posso diventare bravo in questo sport, allora adesso dipende solo da me, dipende dal mio impegno e non succederà mai che io non riuscirò ad arrivare in serie A per una mia mancanza. Magari non ce la faccio, ma non dipenderà da una mia mancanza e mi sono messo ad allenarmi con un grandissimo impegno. Mi impegnavo anche prima a calcio, ma vi assicuro che alzai nettamente il livello. Pensate che avevo 14 anni ed ero così impazzito per questo sport che mi avevano appena regalato il motorino. Voi sapete a 14 anni quanto sia importante un motorino per un ragazzo, è una grande conquista, beh lo feci vendere perché avevo paura di cadere e rovinarmi la carriera, una carriera che vedevo solo io, ok? Stavo sempre con la palla tutto il giorno, palleggiavo mentre guardavo la televisione, palleggiavo contro il muro, palleggiavo a tavola mentre aspettavo che mia mamma mi portasse il piatto a tavola, palleggiavo in pullman mentre andavo a scuola, andavo ad allenamento sempre con grande impegno, ma non solo, ero riuscito a negoziare con i miei genitori che potevo studiare in palestra, così guardavo l’allenamento della serie A che si allenava prima di noi, mi guardavo tutti gli allenamenti, facevo i compiti là sul tavolino del custode e poi la sera quando tornavo a casa finivo di studiare. Ero impazzito per la pallavolo e mi impegnavo tantissimo; questo ha fatto in modo che io abbastanza presto, grazie anche al mio fisico, al mio talento e a quell’ottima scuola che ho avuto e sicuramente anche a tanta fortuna, che a 18 anni sono riuscito ad esordire in serie A. Io facevo ancora la quinta liceo e firmai il mio primo contratto per giocare in serie A. Sono andato a Treviso il mio secondo anno di serie A1 e lì è iniziata veramente la mia carriera, poi mentre ero a Perugia, negli anni successivi, ho conosciuto anche una bella ragazza con cui mi sono sposato e da cui è nata la nostra bella bambina Carolina, che adesso ha nove anni. Pensate che a 26 anni io ero già marito, papà, ero capitano della mia squadra a Perugia, ero in pianta stabile in Nazionale e avevo un lavoro a tutti gli effetti, che tra l’altro era anche la mia passione. Quindi la mia vita era perfetta. Per altri anni ho giocato in Italia e all’estero e Carolina e Alessia, mia moglie e mia figlia venivano sempre con me. Avevamo i nostri progetti, continuavamo ad andare avanti. Io ho avuto stagioni buone, stagioni meno buone, ho vinto, ho perso, però stavo riuscendo sempre a rimanere ad alto livello. Nel 2011, quando avevo 32 anni ed ero in Nazionale, nel 2012 sarei dovuto andare alle Olimpiadi di Londra, ero in un momento fantastico della mia carriera, ero l’unico straniero in una squadra in Russia molto forte che giocava per la Champions League, per il campionato mondiale per club e stavo molto bene; era forse uno dei momenti più belli della mia carriera, ero maturo, però ero ancora abbastanza giovane da avere tanta forza fisica, ero sicuramente all’apice del mio impegno come sportivo. Purtroppo a Giugno del 2011 abbiamo scoperto che io ero gravemente ammalato. Avevo cominciato a sentirmi male ai primi di Marzo del 2011, poi avevo per parecchio tempo trascurato il problema, ma nel 2011, 1° Giugno, mi è stato diagnosticato il cancro. Io ho avuto un timore del sistema linfatico che si chiama linfoma; purtroppo me ne sono accorto molto tardi e la malattia era già parecchio avanzata, nonostante tutti i controlli che io facevo come sportivo professionista. Purtroppo a volte non danno segnali queste malattie e quando me li ha dati il tumore era già molto avanti. Ho interrotto tutto quello che stavo facendo, ovviamente ho detto addio alla Nazionale, ho interrotto i miei contratti con il club estero che avevo e mi sono dedicato soltanto alla chemioterapia che era l’unico modo per salvarmi la vita. Sono stato ricoverato per otto mesi nell’ospedale di Perugia, ho sostenuto in totale sette cicli di chemioterapia e il trapianto di midollo osseo ed è stata un’esperienza molto dura. Vi dico la verità, è stato un momento molto difficile sia per me che per i miei cari, perché queste malattie purtroppo coinvolgono tutte le persone che sono intorno a te e le coinvolgono in maniera molto forte. Io mi sono accorto, a posteriori, riflettendo su quello che mi è capitato, che io ho cercato di affrontare quella che è stata la più grande sfida della mia vita con tutto quello che io avevo imparato da quando ero piccolo fino a quel momento. Oltre alla scuola dei miei genitori, oltre alla scuola vera e propria, oltre alla parrocchia, in realtà la mia più grande scuola di vita, è sempre stato il campo e lo spogliatoio e io mi sono reso conto che, quando mi sono ammalato una delle prime cose che ho pensato è stata: nella mia vita non ho mai vinto niente da solo, nella mia vita io non ho mai raggiunto nessun risultato da solo, quindi la prima cosa che mi serve per affrontare questo problema è una squadra e io mi ricordo, ragazzi, di avere identificato nei miei medici e nei miei infermieri, nella mia famiglia e nei miei amici, la mia squadra. E mi dicevo sempre: se sarò disciplinato, se comunicherò con loro, se cercherò di rimanere motivato anche nei giorni difficili e cercherò di influenzare la loro motivazione nei momenti difficili e soprattutto io cercherò di fare squadra con loro, allora le mie probabilità cresceranno. Ovviamente non dico e non mi permetterei mai di dire che un atteggiamento positivo ti salva la vita, perché non è vero, ok? Però di sicuro può far la differenza, io ci credo veramente, perché come noi affrontiamo quello che ci capita, secondo me, fa la differenza eccome. Io alla fine sono stato molto fortunato, il periodo più difficile è stato sicuramente quello del trapianto, ma il mio corpo ha resistito, le chemio hanno funzionato e alla fine del 2011, due giorni prima di Natale sono tornato a casa dall’ospedale ed ero in remissione totale, cioè non c’era più presenza di tumore nel mio corpo. Io ero in sedia a rotelle quando sono uscito dall’ospedale, perché avevo perso 21 chili a causa della chemio e non riuscivo più nemmeno a camminare da solo. Mi ricordo che il mio papà a casa mi prendeva in braccio per portarmi in bagno a lavarmi. E’ stato un periodo difficile, però non avevo più la malattia e potevo cercare di ricostruire la mia vita sana. Ci ho messo due mesi a rimettermi in piedi, ho ricominciato a mangiare addirittura, pensate, con gli omogeneizzati, perché ero stato anoressico per troppo tempo in ospedale e il mio stomaco non era più abituato ad assumere cibo, però ogni giorno, ogni settimana mi ricordo che facevo un passettino avanti e mi ricordo bene il primo giorno che sono tornato in bagno da solo, il primo giorno che ho mangiato a tavola, il primo giorno che ho fatto una passeggiata fuori. Alla fine di Febbraio i miei medici, quelli che mi avevano salvato la vita, mi hanno detto che il quadro clinico era buono e che se volevo potevo tornare in palestra. L’8 Marzo del 2012 io sono tornato in palestra per la prima volta e due mesi dopo, soltanto due mesi dopo sono riuscito a ottenere l’idoneità alla pratica sportiva. Non ero un atleta di alto livello, però ero idoneo a fare agonismo. Trento, che nel 2012 era la squadra di club più forte del mondo, era campione del mondo in carica, campione d’Italia in carica, campione d’Europa in carica, mi ha dato l’opportunità di entrare nel grande giro, mi ha offerto un contratto per fare il secondo palleggiatore, la riserva del titolare che è un brasiliano molto forte, che si chiama Rafael. Io ero felicissimo, ho firmato questo contratto, ho abbracciato il Presidente e poi sono andato a Trento con la gran voglia di fare bene, di meritarmi quell’opportunità. Mi sono allenato per tutta l’estate e quando sono arrivato alla preparazione ero pronto atleticamente ad affrontare quell’impegno. La stagione è stata spettacolare, abbiamo vinto il mondiale per club a Novembre, abbiamo vinto la coppa Italia a Gennaio, siamo stati eliminati dalla Champions a Febbraio, ma a Marzo abbiamo vinto la Regular Season e siamo arrivati ai play-off che iniziavano ad Aprile ed eravamo primi in classifica e i favoritissimi per la vittoria dello scudetto. Voi pensate che io in questa stagione, nella mia stagione del rientro, non ho giocato mai, mai neanche una partita titolare, io facevo la riserva di Rafael, la squadra vinceva, lui giocava alla grande e io facevo il mio compito da secondo palleggiatore. Facciamo i play-off, tutto va bene nei quarti di finale, io non gioco mai, tutto va bene nella semifinale e io non gioco mai, poi siamo arrivati in finale contro Piacenza e pensate, due pari nella serie, alla quarta partita Rafael si è rotto un dito, e non poteva giocare la gara cinque che era decisiva per la vittoria dello scudetto e l’unico che poteva sostituirlo ero io e non giocavo da due anni. Un anno in ospedale e un anno ad allenarmi senza giocare mai. Non vi dico la preoccupazione della squadra e la mia. Fu una settimana incredibile quella che ci portò a quella finalissima e io come aneddoto vi voglio solo raccontare il discorso che ci fece il nostro allenatore il primo giorno d’allenamento in vista di quella finale. Lui è un allenatore molto forte che adesso allena a Modena e si chiama Radostin Stoytchev, è bulgaro. Ora io vi imito il discorso motivazionale che lui ci fece il primo giorno in approccio a quella finalissima, ok? Tutti preoccupati, dovevamo giocare con me che non giocavo da due anni e la partita era secca. Primo giorno di allenamento io vado là e insomma, dovevo dimostrare ai miei compagni che ero sul pezzo, che ero pronto a prendermi quella responsabilità. L’allenatore ci ha chiamato in cerchio e ci ha fatto questo discorso: “ragazzi, domenica c’è la finale scudetto. Rafael si è fatto male, noi abbiamo Jack, giochiamo con Jack, vinciamo con Jack, allenatevi!” Fine del discorso motivazionale, non disse altro e con queste semplici parole, però, lui ci disse una cosa importantissima e in pratica ci disse: ragazzi, niente scuse, niente alibi, giochiamo per vincere con quello che abbiamo e questa secondo me, ragazzi, è una grande caratteristica dei campioni veri. I bravi giocatori sono quelli che giocano bene quando tutto va bene e quando le cose vanno male danno la colpa agli altri; invece i campioni si distinguono dagli altri giocatori perché giocano sempre per vincere con quello che hanno. Poi magari perdono, ma non trovano mai scuse. Quella partita fu incredibile, la settimana ci alleniamo tutti bene arriviamo alla partita prontissimi, la partita è stata incredibile e alla fine al quinto set abbiamo vinto noi, siamo diventati campioni d’Italia e pensate, io sono stato premiato come miglior giocatore della finale scudetto a ventitrè mesi dalla diagnosi di tumore. Ventitrè mesi dopo quel primo Giugno in cui, vi dico la verità, io avevo creduto di essere morto, io avevo creduto che per me fosse tutto finito, invece nemmeno due anni dopo ero esattamente dove ero prima di ammalarmi e se mi sono spiegato bene in questi pochi minuti avrete capito che io questa cosa non l’ho fatta da solo. Io sono stato aiutato. Io ho trovato sempre una squadra in vari momenti della mia vita, che mi ha fatto arrivare anche dove sono oggi qui davanti a voi. Pensate che da quella vittoria sono nate delle opportunità incredibili, io ho scritto un libro dove ho raccontato la mia storia perché penso che condividerla possa aiutare gli altri, ho creato un’associazione benefica insieme a mia moglie, che cerca di restituire un po’ del bene che abbiamo ricevuto e oggi io ho l’opportunità di lavorare per una grande azienda, una delle migliori al mondo per la gestione delle risorse umane che è Randstad, ho l’opportunità di collaborare con un’azienda come Bosch, ho l’opportunità di parlare davanti a platee come siete voi oggi e io vi dico la verità, prima non sapevo neanche che questo lavoro esistesse, quindi se ci penso bene, la mia più grande opportunità professionale di oggi che ho trentotto anni è nata dalla più brutta esperienza che mi sia mai capitata di vivere, quindi, per concludere, vi dico quello che ho imparato. La prima cosa: non arrendersi mai; la seconda: mettere sempre la squadra, qualunque essa sia, al primo posto. Grazie

MARIA PICONE:
Grazie Jack. Adesso passiamo allo sport più amato dagli italiani, il calcio. Non ha bisogno di presentazioni perché ha vinto tutto nella Juve, Moreno Torricelli.

Video

MORENO TORRICELLI:
Buon pomeriggio, grazie. Come hanno fatto i miei amici e colleghi prima, insomma hanno spiegato più di questo progetto, io mi son ritrovato a 47 anni ad andare a parlare davanti a ragazzi, cosa mai fatta e mai pensata prima di dover fare. E’ un progetto molto bello, che mi gratifica molto perché vedo la partecipazione di questi ragazzi quando andiamo nelle scuole. Noi non vogliamo dare delle ricette per diventare campioni, perché non ci sono ricette, vogliamo portare degli esempi. Gli esempi, come spesso dico ai ragazzi quando andiamo a parlare, devono essere bravi loro in qualsiasi momento della giornata a cogliere gli esempi positivi che gli possano tornare utili per crescere nel migliore dei modi. Io porto la mia esperienza di un ragazzo come sono tantissimi, cui piace giocare al calcio, inizio a nove anni a giocare a calcio grazie a mio fratello più grande che andavo a seguire agli allenamenti e questo allenatore mi dice: invece di star seduto prenditi un paio di scarpette e inizia ad allenarti con noi e da lì nasce la mia carriera calcistica. Io sono lombardo, brianzolo e praticamente la mia carriera inizia così. Grazie a dei provini sono riuscito ad entrare a far parte del settore giovanile del calcio Como, che ai tempi era un settore giovanile tra i più importanti in Italia. La squadra giocava in serie A per cui era un settore giovanile molto importante e lì incomincia la mia vera scuola tecnica, perché sono sempre stato molto prestante fisicamente, ma tecnicamente ho sempre lasciato molto a desiderare, per cui cercavo di fare del mio fisico la mia forza principale e lavoravo tanto su quello. Ho avuto grandi allenatori e grandi maestri che tecnicamente mi hanno fatto migliorare tanto, poi, parliamoci chiaro, se uno tutti i giorni tira un calcio al pallone, prima o poi o sei di coccio o alla fine impari a tirare bene il pallone. Un’altra cosa importante che mi sento di dire ai ragazzi è che la vita è fatta di scelte. La mia prima grande scelta è stata a 14 anni, ai miei tempi si poteva decidere se continuare gli studi o iniziare a lavorare. Ho sempre un grande orgoglio, volevo essere indipendente economicamente, non volevo stare sulle spalle dei miei genitori, per cui a 14 anni la mia prima grande decisione è stata quella di abbandonare gli studi. Non che questo mi inorgoglisce, perché poi ho dovuto riprendere gli studi più avanti, però è stata la mia prima decisione. Quello che dico ai ragazzi è di non aver paura di prendere decisioni, di non aver paura di sbagliare, perchè solo facendo si può sbagliare, nell’errore, nelle sconfitte, come diceva Patrizio prima, si impara molto di più che nelle vittorie. Per cui prima decisione importante abbandono gli studi e inizio a lavorare, inizio a fare il falegname, perciò ho dovuto di conseguenza abbandonare il settore giovanile importante, una grande chance di diventare il calciatore che sognavo da bambino, il calciatore è passato in secondo piano, praticamente la cosa principale erano le otto ore di fabbrica, dopo di che si pensava al divertimento, andare a giocare alla sera, ho iniziato la mia carriera dilettantistica. Nel mio piccolo ho fatto cinque anni nei dilettanti, avevo raggiunto il massimo, nel senso che ero riuscito nel mondo dilettantistico a raggiungere la nazionale dilettanti, per cui tra migliaia e migliaia di ragazzi che giocavano a livello dilettantistico io ero una tra i più bravini e per cui c’era sempre l’illusione di provare un giorno a diventare professionista, perché tutti mi dicevano: “sei bravo, vedrai che riesci, vedrai che riesci!” I miei compagni di nazionale dilettanti riuscivano ad avere l’opportunità di andare in C2, C1, adesso Lega Pro, una volta era C2, C1 e a me non era mai concessa questa possibilità. Nel mio piccolo l’indipendenza economica l’avevo, andavo a lavorare, guadagnavo un milione e due-un milione e tre al mese, giocando la sera a calcio ne portavo a casa altrettanti, per cui aa 18-20 anni doppio stipendio, io stavo benissimo, non pensavo più di avere un’occasione così grande, però mi divertivo. Lo sport, come ha detto prima lui, è una scuola di vita, perché ti fa stare con gli amici, devi stare a certe regole, devi rispettare i compagni di squadra, rispettare gli avversari, rispettare chi decide in partita che è l’arbitro, che deve fare un ruolo che è delicatissimo. Se lo insultiamo, se lui non ci fosse, non si giocherebbe più a pallone, per cui impariamo a rispettarlo e impariamo a capire che anche lui a volte può sbagliare. Adesso si parla tanto di VAR: io con un po’ di buon senso credo che questa VAR poteva anche rimanere nel cassetto, per come la vedo io. Praticamente arrivo a vent’anni, conosco una persona che mi cerca per un’altra squadra, la Pro Vercelli, stessa categoria che facevo io e mi chiede se volevo passare a quell’altra squadra, gli ho detto: guarda, stessa categoria non mi interessa, rimango dove sono e lui fa: “aspetta una settimana e ti dico”. Questa persona collaborava con Furino nel settore giovanile della Juventus e aveva delle conoscenze lì nella Juventus. La Juventus, era l’estate del ’92, aveva tantissimi giocatori via con la nazionale per promuovere il soccer negli Stati Uniti, perché nel ’94 ci sarebbero stati i mondiali e allora erano via tutti e gli servivano dei giocatori per fare delle amichevoli di fine stagione. A quel punto mi viene data la possibilità, mi chiamano e mi dicono: “guarda che c’è da andare a giocar con la Juventus” e io: “ah, ok”, attacco il telefono. Dopo riprendo il telefono, richiamo la persona: “Scusa ma devo giocare con la Juventus o contro la Juventus, perché era proprio un fulmine a ciel sereno, mi dice: “no, devi andare a giocare con la Juventus”. Ho detto: “Bene”, prendo la mia borsa, ma mai più…era bello andare a giocare con la Juventus perché giocai con i miti di quel periodo che vedevi in televisione, ho detto: “male che vada vengo a casa con la maglietta della Juventus, me la tiro un po’ coi miei amici del mio paese e va bene così.”. Niente, vado a fare questa amichevole e praticamente Trapattoni, sant’uomo, Trapattoni che è brianzolo come me e ha la stessa età di mio padre, mi ha preso un attimino a braccetto, mi parlava il dialetto, mi ha messo subito a mio agio insomma. Mi ha fatto fare quelle tre o quattro amichevoli di fine stagione. E dopodiché disse, lui voleva che Agnelli gli comprasse Vierchowood, che era un grandissimo campione, un numero uno, un difensore numero uno e disse: “Se non comprano Vierchowood porto via questo ragazzo e vediamo come va.”. Allora io cosa feci dopo queste cose? A parte che quello che cercavo, perché mai più pensavo alla Juventus, alla serie A, proprio era lontano anni luce da me. Con quelle tre, quattro amichevoli la possibilità di fare per un anno il professionista in C2, C1, i nomi cominciavano a… c’erano altre squadre che mi volevano. Allora cosa feci? Tornai e mi licenziai dal lavoro. Mi licenziai dal lavoro perché io sono cresciuto con mio padre per cui “prima il dovere e poi il piacere” perciò il posto di lavoro era sacro, non bisognava lasciar perdere il posto di lavoro. Mi licenziai, presi la moto, la tenda e andai a fare la vacanza in Sardegna. Non c’erano i telefonini, internet, perciò ogni giorno era la Gazzetta. Compra la Gazzetta: “Vierchowood si allontana dalla Juve”, “Vierchowood si allontana dalla Juve”, “Vierchowood si allontana dalla Juve”… e alla fine leggevo sulla Gazzetta che la Juventus doveva partire per il ritiro e a me non arrivava nessuna chiamata. In pratica la segretaria della Juventus aveva mandato il telegramma di convoca in un paese sbagliato! Allora il giorno prima che la Juventus partisse per il ritiro chiamai la società e: “Sì, sì, parti con noi!”. E così è nata… partii con la Juventus senza sapere, senza un contratto firmato, senza niente, così, sulla fiducia. Son partito e da qua è partita la mia carriera. Io mi ricordo che l’ultima partita di Interregionale fui espulso e la scontai la prima di Serie A contro il Cagliari, la scontai in Seria A. La mia storia è praticamente quella di un ragazzo che ce l’ha fatta. Il sogno, ne parlano tutti perché vincere, arrivare a vincere, a grandi traguardi è il sogno di tutti. A me è stata… la differenza con altri calciatori è proprio questa particolarità, che son passato dall’Interregionale, perciò dalla Nazionale Dilettanti, direttamente alla Serie A giocando la prima stagione 32 presenze su 34 partite, è quello che fa un po’ la particolarità della mia storia. Perciò quello che voglio far passare sempre ai ragazzi è credere nelle proprie qualità perché ognuno a suo modo è unico; cercare di fare, di prendere esempi positivi da tutte le persone perché tutte le persone ti possono insegnare qualcosa e fare tutto per voi stessi. Se andate agli allenamenti lo fate per voi, non per l’allenatore, per migliorare voi. E di stare sempre sul pezzo, che quando meno ve l’aspettate l’occasione arriva. Per cui è stato un piacere essere qua, alla prossima.

MARIA PICONE:
Grazie Moreno, e adesso, dulcis in fundo, la nostra bravissima campionessa di tennis, che ha vinto il Roland Garros, Mara Santangelo.

MARA SANTANGELO:
Grazie. Felice di essere tornata al Meeting, due anni fa sono stata in mezzo a voi a raccontare la mia storia e la bellezza di questo progetto oltre, logicamente, a quello di dare un’opportunità concreta ai giovani di introdursi nel mondo del lavoro, è proprio quella di farci rivivere le nostre storie, quindi di emozionarci ancora, cercando proprio di restituire quello che la vita ci ha donato, quindi restituire e dare dei messaggi e dei valori che voi tutti possiate apprendere, ricordare, quindi quanto sia importante, che poi è il comune denominatore di tutti noi, non arrendersi, credere fortemente in quello che è il proprio obiettivo e alla fine, passatemi la parola, farsi un mazzo grande, allenarsi, che è il titolo del nostro progetto: Allenarsi per il futuro. E la mia storia è stata proprio questa, di una bambina che nonostante tutti le dicessero: “Non puoi giocare a tennis, non diventerai mai una tennista professionista.”, io rispondevo: “Sì, ce la farò.”, fin da piccola. Partiamo proprio da quando presi la racchetta in mano per la prima volta, abbiamo la slide, avevo cinque anni, sognavo già di diventare una tennista professionista, guardavo alla televisione l’allora mio mito Martina Navratilova calcare il campo centrale di Wimbledon e feci una promessa a mia madre, che era a fianco a me: “Un giorno anch’io giocherò su quel campo verde, un giorno anch’io diventerò una tennista professionista”. E questa promessa mi ha portato un po’ ad andare contro tutto e tutti, contro tantissime difficoltà che ho avuto nel mio percorso. Dicevo prima, tutti mi dicevano: “Non potrai mai giocare a tennis a livello professionistico” perché io sono nata con una malformazione ad entrambi i piedi, che mi ha portato a soffrire un po’ durante tutta la mia carriera tennistica. Nello specifico, ognuno di voi, sotto l’alluce ha un osso che si chiama sesamoide; nel mio caso è bipartito in un piede e addirittura tripartito nell’altro, quindi ad ogni spostamento, quando i match si facevano prolungati, quando mi allenavo intensamente, sentivo queste fitte lancinanti. E questo dottore, questo luminare, mi disse: “Guarda, sentirai sempre dolore. Non si può operare, quindi ti consiglio di appendere la racchetta al chiodo.”. Uscii da quello studio medico con le lacrime agli occhi però mi sono ripromessa che un giorno sarei tornata da quel medico portando a casa i risultati e poi così è stato grazie a Dio. Sofferenza fisica e sofferenza anche dell’anima perché persi mia madre in un incidente stradale all’età di 16 anni. Un’infanzia molto turbolenta perché i miei genitori separati, liti all’interno della famiglia, addirittura scene di violenza, e all’età di 16 anni, quando appunto un adolescente ha più bisogno di una figura così importante come la madre, mia madre ebbe questo incidente stradale, cadendo in un dirupo per oltre cento metri. Io quella sera sarei dovuta essere con lei su quell’autovettura, poi all’ultimo minuto salii su un’altra macchina e lei ebbe quell’incidente. Vi racconto questo perché per me da quel giorno, da quel 23 novembre del ’97, la mia più grande ragione di vita, nonostante le difficoltà, era proprio quella di arrivare, di giocare su quel campo centrale, di raggiungere risultati importanti. E così fu perché la prima volta che giocai su quel campo fu nel 2005 contro l’allora numero 1 del mondo. Chi sa chi era numero 1 del mondo al tempo? Chi segue il tennis? Si è visto anche nel video. Serena Williams, bravissimi! Un applauso a voi! Contro Serena Williams, inaspettatamente, stavo giocando molto bene, stavo vincendo. Vinsi il primo set, stavo conducendo anche nel secondo, quando all’improvviso iniziai a sentire in uno spostamento laterale (Serena aveva alzato un pochino il ritmo del gioco) una fitta fortissima al mio piede sinistro, che era quello più sofferente. Chiesi all’arbitro, dopo aver perso il secondo set, i classici tre minuti (nel nostro sport, nel tennis, sono tre minuti per andare al bagno e constatare com’erano le condizioni del mio piede). E una volta entrata nel bagno centrale di Wimbledon, sfilai il calzino e vidi che c’era tantissimo sangue. Il tape, cioè il bendaggio che io dovevo costantemente fare per alleviare un pochino la sofferenza, era completamente staccato e io, ahimè, in quella situazione, imprecai anche contro Dio. Oggi io, vi premetto, in quelle situazioni prego Dio perché la mia vita è completamente cambiata anche grazie alla fede quindi una trasformazione anche in questo senso. Persi quel match, una volta rientrata in campo perché contro una giocatrice così forte, in quelle condizioni era quasi impossibile portarla a casa, ed è stata veramente molto dura. Vi racconto anche questo aneddoto perché per me è stato veramente molto difficile accettare questo dolore. Ma quello che mi ha portato ad andare avanti era quello di cui parlavano prima anche i miei colleghi, è stata la forte motivazione. Io avevo una forte motivazione perché sapevo che avevo il talento di raggiungere risultati molto più importanti, che poi arrivarono, con i miei migliori risultati: 2006-2007-2008. È stata difficile però racconto sempre ai ragazzi che quando tu hai un forte perché, poi il come lo trovi, trovi la strategia. E io ho allenato proprio quella, una forte strategia per arrivare al mio obiettivo; grazie al mio allenatore, che dovrò sempre ringraziare, che per la prima volta, quando iniziai a lavorare con lui, iniziò a parlarmi anche di allenamento mentale, quindi iniziò a lavorare proprio sulla mia mente, a farmi vedere il bicchiere mezzo pieno, non mezzo vuoto. Quindi la mia strategia, con questo problema fisico, era quello di abbreviare gli scambi, di avere un gioco estremamente aggressivo, e quindi di non dover fare avanti e indietro dentro il campo altrimenti la partita l’avrei persa. Io ero molto invece prima focalizzata su quello che era il mio limite, questo grande limite, anche scoraggiata dal mio limite fisico. E lui mi disse: “Ok, abbiamo questo problema, c’è, non lo voglio nascondere. Però hai un grandissimo talento – fu il primo che mi parlò del mio talento – quindi dobbiamo allenare questo talento, dobbiamo allenare quelli che sono i tuoi colpi più importanti.”. Quindi io allenavo molto il servizio e la volee, proprio per abbreviare gli scambi. E allenavo anche la motivazione, mi scrivevo ogni giorno quelli che erano i miei obiettivi, li ripassavo, lavoravo molto sulle visualizzazioni, non so quanti di voi conoscono questo termine ma nello sport è molto frequente; quindi cercare di proiettarsi nell’evento e nella partita prima di averlo vissuto, per essere più pronti nel momento in cui andiamo a vivere quell’evento stesso. Insomma, ci sarebbero tantissimi aneddoti da raccontare ma il succo è che ho iniziato a lavorare proprio sulla mia mente e poi piano piano i risultati sono arrivati, cercando proprio di credere sempre in me stessa, perché il campione non è colui che arriva al traguardo semplicemente grazie al talento, ma è colui che cade e che ha la forza di rialzarsi. Perché le difficoltà nella vita le abbiamo tutti, io ne ho avute tantissime e lo posso testimoniare, però, se vediamo anche vite nello sport e anche nel mondo imprenditoriale, tutte le persone di successo hanno avuto dei fallimenti ma quella forza poi di rialzarsi e di andare avanti, di affrontare quelle che sono le proprie paure. Vi voglio raccontare un aneddoto particolare proprio riguardante la paura, perché una delle domande che i ragazzi, quando andiamo a scuola, hanno posto più di una volta, è stata proprio questa: “Tu, su quel campo centrale, o comunque in contesti importanti, davanti a 5mila persone, 10mila persone, non hai avuto paura? Come hai affrontato questa paura?”. E io racconto sempre questo aneddoto: quando dovetti giocare, eravamo in finale alla FED Cup, quindi il mondiale a squadre, e il capitano, l’allora capitano, Corrado Barazzutti, mi disse di scendere in campo un’ora prima del match. Stava giocando Francesca Schiavone, stava perdendo, poi perse quella partita, eravamo 2-1 sotto e se io avessi perso il mio match la coppa sarebbe andata alle belghe. Giocavamo fuori casa. Se io avessi vinto quel match importante, avrei riportato la situazione in parità e poi ci saremmo giocate tutto quanto nel match di doppio decisivo. Beh, non vi racconto il terrore che avevo, la paura che avevo di entrare in campo, ero diventata bianca paonazza. E il mio allenatore, che mi cercava di tranquillizzare all’interno dello spogliatoio, mi cercava di far vedere quanto la paura fosse un sentimento positivo perché faceva parte di quello che io stavo più amando, quindi il mio sport, di quello che a me piaceva e che è sempre stata la mia vita, e quindi di cercare di entrare dentro il campo prendendo la paura un po’ come un’amica, con amore, cercando di non pensare tanto al risultato ma vivendo quel momento unico e straordinario al meglio. Poi così fu perché dopo essere entrata un po’ tesa, un bel po’ tesa, persi il primo set ma poi portai a casa il match per 6-3, 6-0 e alla fine portammo a casa la coppa, la primissima coppa dell’Italia a squadre, che ci portò a trionfare poi per altre tantissime volte. Per approfondire un po’ tutti questi temi io ho scritto come Jack un libro che si chiama “Match Point”, che sto promuovendo in giro un po’ in tutta Italia. Racconto sempre del mio match point più bello, che è stato quello al Roland Garros, uno dei trofei più importanti, però il match point… quello era il match point sul campo da tennis. Il match point invece più bello io posso testimoniare che è stato l’incontro con la fede, che mi ha completamente stravolto la vita, cambiato la vita in positivo perché racconto nelle mie testimonianze che io avevo tutto, tutto quello che il mondo pensa che sia “tutto”, quindi la fama, il successo, la stampa che ti porta in alto, ero servita e riverita, giravo nei posti più belli ed esclusivi, dove il tennis ti porta anche a guadagnare tanti soldi, ma non ero assolutamente felice, non ero in pace con me stessa. Una volta appesa la racchetta al chiodo, anzi, una volta che ho dovuto fermarmi per operare questo piede, a causa del dolore originario, si è concatenato un altro problema fisico che ho dovuto, ahimè, esportare questo nervo al piede e fermarmi per un lungo periodo. E lì mi chiedevo quale potesse essere il mio futuro. D’altronde avevo sempre e solo giocato a tennis. Aderii ad un invito ad andare a fare un pellegrinaggio, a Medjugorje, nello specifico, e lì mi è cambiata completamente la vita, perché ho imparato ad apprezzare la vita stessa nelle piccole cose. Quindi ho perso quel tutto di cui vi parlavo prima, ma ho veramente quel Tutto che si trova nella fede, nelle piccole cose. Non c’è ulteriore tempo per continuare, io vi ringrazio e spero di ritornare presto da voi.

MARIA PICONE:
Grazie Mara e grazie a tutti i nostri campioni dello sport che ci hanno accompagnato qui in questa bellissima giornata perché intanto, se vi va, poi ci trasferiamo al Villaggio dello Sport, potete fare qualche passaggio coi nostri sportivi, e poi noi chiudiamo sempre le nostre giornate con un video selfie che pubblichiamo su tutti i canali che sono Instagram, Facebook, YouTube, e vi chiediamo, se vi va di avvicinarvi tutti qui, Jack dirà: “Uno, due e tre!” e al “tre” tutti insieme gridiamo”: “Andiamo a vincere!”

GIACOMO SINTINI:
Vi prego questa è la parte più importante, facciamo un selfone tutti insieme, voi ragazzi andate davanti che se no non vi prendo. Tutti vicino a Torricelli. Patrizio anche tu! Vediamo se vi prendo tutti… Allora, prima di tutto facciamo un selfie normale e poi facciamo un Video Selfie, vi spiego. In posa… questo è uno. Adesso facciamo il video: io dico: “Meeting di Rimini 2017, Uno, Due, Tre” e voi dovete urlare: “Andiamo a vincere!”. Ma forte, eh! Tu, con la maglia della Juve, pronta? Ok! Allora, siamo qui al Meeting di Rimini 2017, Uno, Due, Tre!

PUBBLICO:
Andiamo a vincere!

GIACOMO SINTINI:
Bravissimi! Grazie! Ciao!