MINI OLIMPIADI DI ALLENARSI PER IL FUTURO

Intervengono: Marco Ceresa, Amministratore Delegato Randstad Italia; Stefano Paganini, Account Manager Formazione Tecnologica Bosch; Lucia Zambon, Unit Manager Randstad Italia. Partecipano: Pino Maddaloni, Campione di Judo; Mara Santangelo, Campionessa di Tennis; Marco Mordente, Campione di Pallacanestro.

 

Ore: 16.20 MeshAREA TALK Intesa Sanpaolo B1
MINI OLIMPIADI DI ALLENARSI PER IL FUTURO

Intervengono: Marco Ceresa, Amministratore Delegato Randstad Italia; Stefano Paganini, Account Manager Formazione Tecnologica Bosch; Lucia Zambon, Unit Manager Randstad Italia. Partecipano: Pino Maddaloni, Campione di Judo; Mara Santangelo, Campionessa di Tennis; Marco Mordente, Campione di Pallacanestro.

MARCO CERESA:
Buonasera a tutti. Mi chiamo Marco Ceresa e lavoro per Randstad e assieme al collega Paganini che lavora per Bosch siamo qui per presentarvi quello che è il nostro progetto: “Allenarsi per il futuro”. È un progetto a cui noi teniamo molto perché si basa sull’esperienza di sportivi che possono passare a tutti noi delle esperienze per gestire delle situazioni che capitano nella vita lavorativa ma anche nella nostra vita normale e che ci possono guidare verso il successo. Questo pomeriggio io ho il compito di presentarvi i miei colleghi e gli sportivi e di ricordarvi che spesso quando siamo di fronte a delle decisioni che dobbiamo prendere, rifarsi a quelli che sono stati gli insegnamenti di quando facevamo sport è sempre stato per me motivo di evitare grandi errori. Mi ricordo, ad esempio, quando un allenatore di calcio mi disse: «Se ti metti in panchina, mi raccomando, non sederti, ma allenati ancora di più, perché se ti richiamo avrò bisogno di te al cento per cento». E nella vita ci capita, anche nella vita lavorativa, che un’azienda, magari per un certo periodo, ci mette in panchina e in quei momenti lì bisogna lavorare ancor di più per farsi trovare pronti oppure capire che non è mai un singolo che vince, ma piuttosto una squadra. Allora oggi credo che sia un’occasione interessantissima per ascoltare questi tre sportivi di successo che ci possono indicare come hanno scelto, quali sono state le scelte che hanno fatto per arrivare a vincere tutto quello che hanno vinto. Ma prima di passare agli sportivi, passo la parola al collega e amico Paganini.

STEFANO PAGANINI:
Mi presento. Mi chiamo Stefano Paganini, ho cinquant’anni e lavoro nella multinazionale Robert Bosch dal 1990. Ho lavorato circa un anno e mezzo nel settore delle telecomunicazioni, ma poi la grande passione per il settore “automotive” mi ha portato in Bosch. Ho lavorato tanti anni nel settore “automotive after market” e dal 2007 lavoro in Bosch TEC, il cui acronimo sta per “training, esperienza e competenza”, che è la scuola di formazione del gruppo Bosch in Italia e mi occupo di progettazione e vendita di formazione tecnica per il mondo industriale, macchine di movimento terra, agricoltura, piattaforme idrauliche. Due parole sul progetto “Allenarsi per il futuro”. Il progetto “Allenarsi per il futuro” è un progetto di orientamento al mondo del lavoro che è nato circa quattro anni fa da un’idea di Bosch, subito sposata da Randstad ed è un progetto di orientamento al mondo del lavoro che prevede non solo delle tappe nelle scuole di orientamento appunto, ma anche dei tirocini e stage all’interno delle aziende del nostro gruppo. Il progetto nasce soprattutto da questi dati, dal fatto della disoccupazione giovanile e dal fatto che in Italia abbiamo più di due milioni di Neet, cioè ragazzi che non studiano, non lavorano e non sono in occupazione. Faremo partire adesso un video che spiega meglio di me da dove è partito il progetto.

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STEFANO PAGANINI:
Ecco, come dicevamo, il progetto si basa su tappe nelle scuole di orientamento al mondo del lavoro, ma anche sull’avio di stage, tirocini, progetti di alternanza scuola lavoro all’interno delle aziende dei nostri gruppi, ma anche di aziende clienti e partner del progetto.

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Qui vedete il numero di scuole fino ad ora visitate e coinvolte nel progetto, e un po’ dati. Dal primo anno al precedente anno scolastico, abbiamo visitato 1184 scuole, incontrato 240.000 studenti, ma soprattutto avviato 3.900 tirocini, stage e progetti di alternanza scuola-lavoro. Quest’anno ci siamo posti l’obiettivo di visitare più di 450 scuole, incontrare 100.000 studenti, ma soprattutto attivare solo quest’anno 1800 progetti di alternanza, di tirocini e di stage, cioè vuol dire 1800 opportunità per ragazzi di entrare nel mondo del lavoro all’interno di aziende importanti.
Il progetto è stato anche premiato dal Miur e qui vedete i partner. Quattro anni fa c’eravamo solo noi, poi in questa slide hanno cominciato ad esserci uno, due, tre, quattro aziende e oggi non ci stanno più i nomi dei partner. Per cui queste sono tutte aziende che hanno aderito al progetto e che insieme a noi vanno nelle scuole a parlare di questo progetto, a dare indicazioni ai ragazzi per fare orientamento e soprattutto poi accolgono uno, due, tre ragazzi in base alle proprie possibilità all’interno di uno stage o per un tirocinio di una-due settimane o un mese, a seconda di quello che uno può fare.
Come diceva anche il video di prima, noi non andiamo da soli nelle scuole a parlare di orientamento del lavoro, perché ogni giorno abbiamo due o tre tappe in tutta Italia e in ogni tappa c’è una persona di una delle sedi o degli stabilimenti di Bosch e c’è una persona di Randstad, ma con noi ci sono anche degli sportivi che hanno visibilità maggiore, che hanno la parte più importante per trasferire passione, impegno ai ragazzi. Sono sportivi famosissimi, provenienti da tutte le discipline e oggi, che è una tappa molto importane, abbiamo deciso di portarne ben tre, per cui abbiamo Mordente del basket, la Santangelo del tennis e Pino Maddaloni del Judo, che dopo faranno la loro presentazione.
Faremo partire un video adesso che descriva un po’ cosa fa Bosch e chi è.

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Giusto due dati su Bosch. Sede a Stoccarda, più di 400.000 collaboratori, un fatturato di quasi ottanta miliardi di euro, quattro settori di business, il più importante è il settore di “automotive”, ormai chiamato mobility solution, perché all’interno ci sono anche altre cose come le bici a pedalata assistita. È il più grande produttore di componentistica auto, però ha anche altri settori, il settore industriale, dove si fanno impianti di automazione industriale, sistemi di trasmissione di potenze in ambito industriale, poi c’è il settore dell’energia, riscaldamento, la parte di energy building tecnology e la parte di consumer che è la parte più conosciuta, quella degli elettrodomestici e elettroutensili. Adesso lascio la parola a Randstad.

LUCIA ZAMBON:
Mi presento in maniera abbastanza veloce con questa carrellata di immagini che un po’ mi rappresentano.
Io sono Lucia e vengo da quel paesino che si chiama Monteforte d’Alpone, della provincia del veronese. Io sono molto fiera di far parte di questo progetto. Utilizziamo queste slide tutte le volte che andiamo nelle scuole a parlare di orientamento e partiamo dalla nostra esperienza personale, proprio perché pensiamo che sia importante condividere quello che abbiamo vissuto noi, perché sicuramente esistono dei punti di contatto rispetto a quelle che sono le scelte che andranno a fare i ragazzi di oggi. Io ad esempio fino a 20-21 anni, non avevo minimamente idea di cosa avrei fatto nel mio futuro, quindi ciò che sarei diventata da grande, tanto è vero che le mie scelte universitarie sono state di tutt’altro tipo rispetto a quello che faccio oggi, ovvero, ho fatto delle scelte nella direzione del mondo del fashion, dell’abbigliamento. Poi ho avuto l’opportunità, lungo la mia strada, di incontrare delle persone e di affrontare delle sfide che ho sostenuto appunto con impegno, con sacrificio e con tanta umiltà e che mi hanno permesso di esplorare quelle che sono le mie attitudini, le mie competenze trasversali. Sono entrata nel mondo delle risorse umane quasi una decina di anni fa ed è esplosa una passione che vivo tutt’oggi. Oggi sono unit manager in Randstad di Italia, coordino le filiali di Rimini, Pesaro e Fano e, ripeto per l’ennesima volta, sono molto orgogliosa di far parte di questa azienda che è una multinazionale olandese fondata nel 1960. Siamo in Italia dal 1999 e ci occupiamo di ricerca, selezione, formazione del personale. Abbiamo una rete di trecento filiali su tutto il territorio nazionale e per trovare quella a voi più vicina, vi è sufficiente consultare il nostro sito www.randstad.it. Dal 2012 è nata la divisione youth at work, una divisione che nasce appunto sotto il cappello della responsabilità sociale di impresa, quindi non ha finalità legate a un fatturato, ma ha l’obiettivo di accompagnare e traghettare i ragazzi, i giovani d’oggi in quelle che sono le scelte di vita futura, quindi, nella transizione tra la scuola e l’Università e il mondo del lavoro. Per raccontarvi di Randstad vi facciamo vedere un brevissimo video.

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LUCIA ZAMBON:
Quando andiamo nelle scuole ci piace condividere con i ragazzi una serie di principi e ragionare insieme su alcune parole, tipo innovazione, che dal latino significa alterare l’ordine delle cose. Viviamo in un mondo, il mondo reale, il mondo del lavoro che è in continua evoluzione e mutamento, quindi è importantissimo riuscire a stare al passo, soprattutto se pensiamo che in quella che è la nostra linea della vita gran parte del tempo la dedicheremo al lavoro. È importante riuscire a fare quello che ci piace, quello che ci appassiona. Se le competenze tecniche, che continuano a mutare – pensate per esempio alle tecnologie che abbiamo nelle nostre tasche o all’interno dei nostri smartphone, ogni 5-6-12 mesi cambiano, mutano – e noi altrettanto dobbiamo riuscire a stare al passo di quelle che sono le competenze tecniche che sono in continua evoluzione. Altrettanto dobbiamo focalizzarci su quelle che sono le nostre competenze trasversali, le nostre attitudini, quindi quelle capacità che già possediamo e che dobbiamo riuscire ad individuare e a sviluppare al meglio, perché ci permettono di dare valore a noi stessi, al lavoro che facciamo e anche alla nostra azienda. A me piace molto la parola consapevolezza, perché trovo che dalla consapevolezza possa muoversi poi quel cambiamento e quell’innovazione di cui parlavamo prima. Tutto questo si può fare solo se alla base c’è una grandissima passione che deve essere davvero il motore di tutto. Per spiegarvi un po’ meglio la parola passione, vi vorrei far vedere un video di Felix Baumgartner, che è un paracadutista austriaco che, nonostante le difficoltà, gli ostacoli che ha incontrato lungo la sua strada, è riuscito e a raggiungere i suoi obiettivi e a raggiungere anche dei record internazionali importantissimi, come il lancio più alto di un uomo in caduta libera.

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Quindi allenamento, tenacia, lavoro di squadra e soprattutto una grandissima passione ci aiutano a raggiungere i nostri obiettivi. E qui oggi abbiamo dei testimonial d’eccellenza. Vorrei presentarvi Marco Mordente.

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MARCO MORDENTE:
Grazie e buonasera. Sono Marco Mordente, ho giocato a pallacanestro per vent’anni da professionista, quindi ho iniziato a diciotto anni quando ho firmato il mio primo contratto da professionista e ho finito a trentotto. Adesso sono due anni che ho smesso. È stata una carriera meravigliosa seppur difficile da realizzare, però credo che alla fine sia stato molto di più quello che mi sono portato a casa. Sono nato in Abruzzo, a Teramo e i miei genitori mi volevano far fare pattinaggio artistico, uno sport che odiavo, però i miei mi portavano in questa palestra; mi dava proprio fastidio. Fino a quando si decidono di portarmi casualmente a vedere una partita di basket e io a sei anni mi sono innamorato. Ho detto questo è il mio sport. Ho iniziato a sei anni e ricordo ancora nei miei primi temi a scuola alle elementari scrivevo che il mio grande sogno era quello di diventare un giocatore di pallacanestro, vincere uno scudetto e soprattutto vestire la maglia della nazionale. Logicamente tra quello che si sogna e quella che è poi la realtà in mezzo ci passano tantissime cose. Per me in mezzo c’è sempre stato il fatto che non avevo un grande talento fisico, perché sì, ero un pochettino più alto degli altri, però non è che fossi un iena, che avessi grandi capacità fisiche come correre, saltare, l’esclusività. Quindi, mi dicevano sempre, «non ce la farai mai, perché sei lento, non ce la farai perché non salti abbastanza, non ce la farai perché non hai un grande talento» e soprattutto mi dicevano «non ce la farai perché sei anche un po’ ciccio». E queste erano tutte verità: erano cose che io scrivevo dentro di me, mi dicevo che prima o poi mi sarebbero servite come motivazione perché io volevo arrivare lì. A quindici/sedici anni Teramo non è una grande realtà (come può essere Milano, Rimini, Treviso o Bologna) che vive di pallacanestro.
Quindi a quindici anni ho lasciato la mia famiglia e mi sono trasferito a Treviso. Considerate che stiamo parlando, della metà anni Novanta, un ragazzo che dal centro Italia si trasferisce al Nord Est, non vogliono sapere neanche come ti chiami, per loro sei un terrone e terrone lo rimarrai sempre.
Inizialmente questa cosa qui mi dava fastidio ma alla fine con gli anni il mio soprannome è diventato Terri, da terrone, ma ne sono orgoglioso.
Un grande sacrificio fu trasferirsi in una città diversa dove non c’è la mamma, non c’è il papà, la mattina sveglia, si va a scuola, si torna a casa, si mangia, si studia e c’è allenamento. Non c’è nient’altro che la scuola e lo sport.
Il mio primo contratto da professionista è stato a diciotto anni. È stato a Milano, perché poi da Treviso mi sono trasferito a Milano e ho firmato il mio primo contratto. Ma quello di cui io vorrei parlare sono i tre anni che per me sono i più significativi della mia vita sportiva. Sarebbe facile parlare delle vittorie piuttosto che delle volte che ho vestito la maglia della nazionale per un europeo o per una manifestazione come il mondiale, giocando contro giocatori come LeBron James o Nowitzski che hanno fatto e che fanno la storia della pallacanestro mondiale. In verità ciò che mi fa piacere condividere di solito con i ragazzi sono i tre anni più difficili per me, nonostante avessi ventiquattro anni, fossi in nazionale, fossi già un giocatore professionista, quindi vivessi di quello che volevo fare, coronando il mio sogno. Io, durante un raduno della nazionale, dopo una stagione difficile con il Reggio Emilia, decido di smettere di giocare, di abbandonare tutto e partire per l’Africa, per fare del volontariato.
Mentre preparavo le valige per fare questa scelta, la nazionale stava giocando una manifestazione, un europeo. La nazionale vince la medaglia di bronzo, sale sul podio, io la guardo in televisione e soprattutto, non solo vince la medaglia di bronzo, ma si qualifica per Olimpiadi. Dico sempre che se avessi avuto un’arma mi sarei autoeliminato, perché alla fine ho scoperto in quel momento lì che avevo la possibilità, potevo essere lì ma l’avevo buttata. Stavo mentendo a me stesso, perché stavo facendo una scelta completamente diversa, che era quella di andare a fare un’altra cosa, abbandonando la mia grande passione. E d’istinto, la prima cosa che ho fatto, è lasciare le valigie, allacciare le scarpe e riprendere ad allenarmi. Sono tornato in una squadra che non mi voleva, che era il Reggio Emilia, però mi hanno detto «noi abbiamo il tuo contratto, intanto vieni, poi se ti trovi una squadra ci fai anche un piacere, perché almeno te ne vai, se no resti qui». E io sono arrivato lì come un soldato, mi sono preparato fisicamente, mentalmente. C’era un allenatore che addirittura non solo non mi voleva, ma mi aveva detto anche «se vuoi rimanere non sei più titolare, ti siedi in panchina e parti dalla panchina e nel ruolo in cui tu hai giocato per vent’anni, io non ti vedo, tu devi fare un altro ruolo». A quel punto lì, io avevo già sofferto per la vittoria della nazionale e per la qualificazione della nazionale alle olimpiadi e avevo deciso che sarei stato pronto ad accettare qualsiasi cosa. Mi sono messo a testa bassa, ho cambiato ruolo, sono partito dalla panchina, mi sono conquistato giorno dopo giorno la fiducia dell’allenatore, dei compagni: è stata una grande annata, nonostante l’allenatore non mi vedesse di buon occhio e soprattutto mi prendesse di mira costantemente. Voleva dire che durante un allenamento, a ogni espressione della mia faccia, lui interrompeva l’allenamento e diceva «cosa c’è che non va?» «Nulla» rispondevo. E così ha fatto per mesi. Se mi sostituiva durante una partita e mi riportava in panchina, io dovevo essere felice e contento. Mi ha fatto capire che l’allenatore non poteva mai essere messo in discussione, cosa che avevo fatto fino a quel momento. Mi ha fatto capire che potevo fare altro per la squadra e l’ho fatto, tanto è vero che quell’anno lì da un semplice ruolo di comprimario mi sono conquistato dei minuti e abbiamo vinto il campionato di A2. Successivamente, sempre con lo stesso allenatore, mi sono ritrovato a giocare in A1 e durante la stagione si è fatto male un giocatore rappresentativo che giocava nel mio ruolo. Lui si è girato (ho trovato sempre in questo allenatore una figura che credeva nella meritocrazia; aveva sempre creduto nel mio lavoro, in come mi ponevo con i compagni, in quello che ero riuscito a conquistarmi all’interno della squadra, all’interno della società) e mi ha messo in campo in A1, in una serie superiore e in un ruolo diverso, e da quel momento lì non mi ha più tolto. Per me questi due anni sono stati un trampolino di lancio, perché dopo Reggio Emilia, che è finita con un’annata meravigliosa, finalmente sono tornato non solo in nazionale ma soprattutto è arrivato il contratto con Treviso. Io ero stato uno dei migliori italiani del campionato di quell’anno e sono arrivato a Treviso, che in quel momento era come la Juve del calcio, una grande società, una grandissima organizzazione. Era una macchina perfetta, dove ogni giocatore veniva scelto non tanto in base ai punti o agli assist o alla spettacolarità, ma in base ad altri concetti. Treviso in quel momento era la squadra che vinceva, in Italia ed anche in Europa, e anche quell’occasione è stata per me una grande lezione. Poc’anzi vi parlavo di tre anni, i primi due ve li ho raccontati e questo è l’ultimo anno. In maniera un po’ presuntuosa sono entrato in un gruppo dove non ero più il miglior giocatore italiano, ma dovevo ripartire un’altra volta dal basso, perché c’era il miglior lituano, che aveva appena vinto una medaglia all’Europeo, c’era il miglior greco, che aveva vinto una medaglia alle Olimpiadi, c’era il miglior americano. All’interno di quel gruppo io ero il miglior italiano, ma ripartivo dal basso, e anche lì c’è stato un momento di crisi, perché dopo l’entusiasmo dei primi mesi non riuscivo più a capire cosa dovevo fare, cosa dovevo portare a quel gruppo. Se a Reggio Emilia ero quello che aveva la palla in mano e che faceva tanti tiri e tanti punti, e difendeva anche un po’ meno perché doveva risparmiarsi, oppure quello che decideva uno po’ tutto il gioco, a Treviso ero quello che giocava poco, che doveva un’altra volta riconquistarsi un ruolo, una posizione.
Una volta ancora sono ripartito dal basso e ho detto «cosa posso fare?». Il lituano sarà un grandissimo giocatore, però era molto freddo, piatto, non riusciva mai a comunicare e a trasmettere adrenalina, energia, agli altri compagni, ai tifosi. Se faceva un canestro o se sbagliava era sempre freddo. Grandissimo giocatore, ha vinto delle coppe dei campioni. L’americano era un fenomeno, però quando si trattava di difendere faceva un passo indietro, risparmiandosi per l’attacco. Così ho capito piano piano che dovevo andare a rubare dove c’erano le mancanze degli altri. È stato difficile, perché voleva dire rimettersi di nuovo in discussione e cambiare, però per me la massima gratificazione è stata che alla fine dell’anno quella squadra gioca una finale scudetto, se andate a vedere su internet troverete forse due miei canestri, quattro punti, un rimbalzo, però io giocavo venticinque minuti su quaranta. Ero un giocatore fondamentale, perché ero riuscito a costruirmi un ruolo all’interno di quella squadra, che voleva dire difendere, se c’era un giocatore da annullare dall’altra parte era il mio compito, se c’era da fare un tuffo per recuperare un pallone io ne facevo tre, se c’era da far diventare il pubblico un sesto uomo, io me lo portavo dietro, ero un esempio in allenamento, perché ero sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via. Vi faccio un esempio: tutti parlano di Cristiano Ronaldo in questo periodo, e dicono che lui è il primo ad arrivare e l’ultimo ad andare via, ma è davvero così. Vuol dire molto arrivare all’allenamento 45 minuti prima e preparare il proprio corpo e la propria mente ad affrontare due ore di allenamento, e terminato l’allenamento rimanere un’ora in più per preparare il corpo alla giornata successiva, che vuol dire fare un massaggio, stretching, esercizi di respirazione, di meditazione. Non è una cosa ovvia, probabilmente tutti dicono che Ronaldo è un fortunato ma c’è un grande lavoro.
Questo è quello che io dieci anni fa cercavo di fare, arrivare prima degli altri, essere al top nelle due ore di allenamento, rimanere dopo, perché non avevo il talento ma dovevo essere presente con la mia forma fisica e quindi evitare gli infortuni. Dovevo essere lì cercando di controllare il mio peso, perché avevo sempre quel famoso “ciccio” di troppo, ma era un chilo, un chilo e mezzo, non stiamo parlando di cinque chili. La mia più grande gratificazione è stata che quell’anno io ho giocato venticinque minuti, abbiamo vinto uno scudetto e alla fine ero diventato il simbolo di quella squadra e i tifosi si erano identificati in me perché una persona “normale” era riuscita ad arrivare a quei livelli e vincere. La cosa che vi voglio lasciare è questa domanda: quanti di noi realmente sono pronti a rinunciare a qualche cosa per ottenere ciò che vogliono?
Io vi ringrazio per l’attenzione, so che avremo tempo per le domande, ma dopo l’intervento degli altri testimoni. Passo il microfono a Mara Santangelo.

MARA SANTANGELO:
Grazie Marco, buon pomeriggio. Sono contentissima di tornare per la quarta volta al Meeting, ormai è il terzo anno con il progetto “Allenarsi per il futuro”, sono veramente onorata di poter rappresentare queste due aziende Randstad e Bosch e girare tutta Italia per incontrare i nostri giovani, raccontandomi sostanzialmente, cercando di dare loro degli spunti motivazionali, tramite la mia esperienza, la mia carriera tennistica.

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Avrò visto queste immagini miliardi di volte, però mi piace chiedere a voi, che immagino le abbiate viste per la prima volta, quali sono le vostre sensazioni, che cosa vi hanno suscitato queste immagini, che cosa avete pensato guardando il campo centrale di Wimbledon, la vittoria del Roland Garros. Per esempio la signora qui davanti: che cosa ha pensato guardando queste vittorie, chi vuole condividere quali sono state le emozioni? Cosa ha pensato? Un’emozione grande sicuramente, il riuscire a raggiungere dei grandi traguardi partendo da un sogno, perché io ero piccolissima quando guardavo alla televisione l’allora mio mito, Martina Navratilova. Vedo che annuite, quindi conoscete Martina Navratilova, la maggior parte, alziamo le mani, una grande campionessa per i più giovani, quando vado nelle scuole e faccio questa domanda, nessuno conosce Martina Navratilova, perché era una giocatrice degli anni Ottanta, i ragazzi di oggi conoscono Serena Wlliams. Martina Navratilova è l’equivalente di Serena Williams di oggi. Una giocatrice che ha vinto qualsiasi titolo, specialmente sull’erba e io la vidi per la primissima volta proprio giocare su quel campo, quel campo centrale di Wimbledon, alzare la coppa e lì, in quel momento, abbracciata a mia madre, che era una grande appassionata di tennis, dissi: «Anche io un giorno sarò su quel campo centrale di Wimbledon». Avevo nove anni, con questo grandissimo sogno e devo dire che i miei più grandi motivatori sono stati proprio i miei genitori. Immaginate una ragazzina che diceva «io diventerò una tennista professionista, io giocherò sul campo centrale di Wimbledon, vincerò il mondiale», insomma, grandi obiettivi e loro mi hanno sempre spinto, mi hanno sempre motivato e cercato di aiutare in quello che era il mio sogno. Vi faccio degli esempi: mio padre mi regalava tutti i video di Martina Navratilova, i libri, il poster che io avevo appeso nella mia cameretta. Mi diceva «se ce l’ha fatta lei, ce la puoi fare anche tu». Questo per farvi riflettere o, immagino molti di voi siano genitori, quanto sia importante stimolare i nostri giovani, stimolare i nostri figli, dargli coraggio, dare entusiasmo, perché veramente senza i mei genitori e tutti i sacrifici che hanno fatto per aiutarmi a raggiungere questo sogno, io non sarei mai arrivata. Quindi, fondamentale il ruolo delle persone che ci stanno a fianco. All’inizio i miei genitori, durante la mia carriera, il mio allenatore. Una figura estremamente importante per me, due lauree in psicologia, che mi ha aiutato ad affrontare e a superare i miei ostacoli, le mie difficoltà, a credere veramente in me stessa, perché io non ci credevo fino a che non ho incontrato il mio allenatore, quest’ultimo allenatore che mi ha fatto vedere gli aspetti positivi del mio gioco, piuttosto che quelli negativi, perché io, come molte persone, ero focalizzata su quello che non andava bene in me, piuttosto che lavorare sui miei punti di forza. Perché vi dico questo parlandovi dei miei aspetti negativi? Perché ahimè io sono nata con una malformazione ad entrambi i piedi che mi ha portato a soffrire un po’ durante tutta la mia carriera tennistica. Ero agli inizi del mio percorso, 16 anni, già in nazionale, un buon futuro davanti a me, ma quando i match si prolungavano, quando io durante gli allenamenti io andavo a sforzare in modo intenso, iniziavo a sentire queste fitte ai piedi, soprattutto al mio piede sinistro e così andai dai migliori specialisti e un dottore, dopo averi visitata mi disse: «Guarda Mara è impossibile che tu possa giocare a tennis a livello professionistico, perché questo piede ti ostacolerà sempre, sentirai sempre dolore». Nello specifico, ognuno di voi sotto l’alluce ha un osso che si chiama sesamoide, nel mio caso è bipartito in un piede ed è addirittura tripartito nell’altro. Quindi questi ossicini, soprattutto negli spostamenti laterali, si infiammano e io sentivo delle fitte fortissime. Non era possibile operarlo, me lo hanno tutti sconsigliato. Sono uscita da quella visita con le lacrime agli occhi, perché vedevo il mio sogno irrealizzabile, però poi, riflettendoci, dissi «non posso mollare, non devo mollare». Perché? Perché avevo fatto una promessa. Quella promessa che io porto tanto nel cuore, guardando proprio l’allora mio mito tennistico Martina Navratilova, abbracciata appunto a mia madre, che è mancata in età giovanile in un incidente stradale. Io, tra l’altro, quella sera, dovevo essere con lei, dovevo salire sulla sua automobile, poi a me piace chiamarla una Dio-incidenza, mi ha portato a salire su un’altra autovettura e lei ebbe questo incidente autostradale, cadendo in un dirupo di oltre cento metri. Ormai sono passati ben ventuno anni, per me da quel momento questa promessa è diventata la mia più grande ragione di vita. Io dovevo e volevo a tutti i costi arrivare a raggiungere quello che le avevo promesso, nonostante le tantissime difficoltà. Non solo questa fisica, potete immaginare il dolore fisico, ma anche il dolore dell’anima, per la mancanza di una figura così importante, una madre in età adolescenziale, in uno sport che ti porta ad essere solo. Dieci mesi all’anno il tennista è fuori dall’Italia, il tennista italiano, ecco perché i tornei più importanti si giocano in giro per il mondo, quindi una grande solitudine. Però io dico sempre che quando hai un forte perché, il come in qualche modo lo trovi, dipende quanto sei disposto a sacrificarti per arrivare a quell’obiettivo, dipende quanto sei disposto a crederci fino in fondo. E io ci volevo arrivare con tutte le mie forze e ci sono arrivata. L’abbiamo visto nel video dove mi avete visto giocare per la prima volta contro l’allora numero uno del mondo. Voi siete avvantaggiati, perché la mia storia la conoscete già. Qualcuno del pubblico: «Chi era la numero uno del mondo? Serena Williams?». «Bravissimo! Come ti chiami?» «Gianluca». «Sì, proprio lei. Serena Williams». Avevo 25 anni quando giocai per la prima volta su questo campo indimenticabile, poi ho avuto la fortuna di giocarci tante altre volte e quel match mi è rimasto, ahimè, un po’ qui, perché avevo tutte le possibilità di vincerlo, di portarlo a casa. Ma sul più bello, Serena alza il ritmo di gioco e io in questo spostamento laterale inizio a sentire questa fitta fortissima al piede, che mi porta ahimè a non potermi più muovere come nel set precedente, come avrei voluto. Quindi persi il secondo set e chiesi, come da regolamento nel mio sport, il time out. «Quanti di voi sanno quanti minuti si possono chiedere?» «Tre minuti». «Tu sei troppo bravo, dopo ci facciamo una foto». Tre minuti per andare al bagno e constatare come erano le condizioni di questo piede. Tre minuti sono pochi, pochissimi, volano. E io avevo pochissimo tempo. Andai nel bagno che si trovava all’interno della struttura del campo centrale di Wimbledon, accompagnata da uno steward. Immaginate lo stadio tutto pieno, 10000 persone, l’arbitro che mi aspettava, Serena Williams che mi aspettava per ritornare dentro il campo e proseguire il match. Una volta entrata all’interno di questo bagno mi sfilai il calzino e vidi che il bendaggio, che io costantemente dovevo fare per alleviare un pochino la sofferenza, era completamente staccato e c’era tantissimo sangue. Quindi non vi nascondo che in quel momento è stata dura accettare quella situazione, perché sapevo che una volta rientrata dentro il campo in quelle condizioni, contro una giocatrice così forte, non l’avrei potuta portare a casa quella partita. Così è stato. La Mara di prima, ahimè, ha maledetto anche Dio di quella sofferenza. Oggi invece, anche con il dono della fede, sono riuscita a vedere tutto con occhi diversi e a benedire quel momento perché mi ha portato a maturare, a crescere, ad essere quella che sono oggi. Però è stata dura tutta la mia carriera tennistica. È stata dura rialzarsi, è stato duro affrontare le difficoltà, è stata dura non arrendersi e per questo devo anche ringraziare la figura di cui vi parlavo prima, il mio allenatore, che mi ha sostenuto in quel momento specifico, perché io vi posso garantire che, uscita da quel campo centrale, volevo appendere la racchetta al chiodo e non avevo ancora raggiunto nulla di quello che abbiamo visto nel video. Non avevo vinto il mondiale, non avevo vinto il Roland Garros, non ero stata neanche nelle prime cento del mondo, il mio best ranking è stato 27sima del mondo in singolo e quinta del mondo in doppio. Lì, in quel momento, nel momento in cui io volevo appendere la racchetta al chiodo perché pensavo di non potere avere chance ad alto livello, a causa di questo dolore fisico, il mio allenatore mi ha fatto vedere la parte bella. Mi ha parlato per la prima volta del mio talento, facendomi concentrare proprio sui miei aspetti e sulle mie peculiarità positive, mentre io ero sempre e solo focalizzata sul dolore fisico, sul fatto che non potevo muovermi più di tanto, perché quando facevo tre volte avanti e indietro il campo, cominciavo a sentire quei dolori. Come? Anche con grande strategia. È una parola fondamentale anche nella vita di ognuno di noi perché, se abbiamo un obiettivo, avremo senz’altro degli ostacoli e per superare questi ostacoli è anche fondamentale trovare una strategia che ci porti ad arrivare all’obiettivo. Nello specifico ho allenato molto di più il mio aspetto aggressivo del tennis, per non affaticare più di tanto questo piede che mi ha portato ad avere poi quei risultati che abbiamo visto. Io vi ringrazio per l’attenzione e ci rivediamo più tardi. Passo la parola al mio compagno.

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PINO MADDALONI:
Come avete visto io faccio judo e ho vinto alle Olimpiadi di Sidney la medaglia d’oro. Non è l’esperienza più bella della mia vita, non è il premio più bello. Penso che il percorso fatto grazie a questa meravigliosa disciplina, la formazione che mi ha dato il judo, i valori che ho vinto facendo tutti i giorni allenamento, andando tuti i giorni in palestra, siano le medaglie più importanti. Avevo tre anni quando ho iniziato. Quello che provavo in quei giorni, lo provo ancora oggi, anche se non sono più un bambino, a quarantadue anni. Allora ridevo solo, ridevo anche se quando correvo cadevo sempre. Infatti io non avevo un grande equilibrio e ho vinto le Olimpiadi nello sport in cui non devi cadere e questo è un esempio che racconto sempre ai ragazzi. Oggi dedico tanto tempo ai ragazzi perché ci credo, credo nei giovani. Io sono cresciuto nella periferia a nord di Napoli, sono stato fortunato nella mia vita perché ci sono state persone più grandi di me che mi hanno dedicato del tempo, penso che il regalo più grande che possa fare un adulto, un professionista, uno sportivo, un genitore anche, a un giovane, sia dedicargli del tempo. Oggi sono arrivato a questo Meeting e ho incontrato un amico che non vedevo da anni, Enzo Ascolese e ricordo che, adesso lui vive qui, da bambino andai ad allenarmi con lui perché per me lui era un idolo, ha vinto gli europei, quando io avevo 13, 14 anni. E a un certo punto mi fa: «Ma quale è la prossima gara?» e io gli ho detto: «Ho la Coppa Italia» e lui aveva un judogi, il vestito che abbiamo noi, «ma se vinco questa gara me lo regali?», ero uno scugnizzo senza peli sulla lingua. E lui in quel momento mi ha detto: «Sì, se la vinci ti regalo questo judogi»”. Dopo una settimana ho vinto la gara, sono tornato nella sua palestra a ritirare il mio premio. Faccio quest’esempio per ringraziarlo e per dire quanto sia importante lo sport e dedicare del tempo ai giovani. Oggi faccio parte di questo progetto, “Allenarsi per il futuro”, dove raccontiamo le nostre esperienze. Non ci sono stati sempre momenti belli nella mia carriera, ci sono stati gli infortuni, le cadute, le sconfitte, che ti fanno migliorare, ti fanno crescere. Dicevo ieri in una intervista che lo sport ti insegna a superare i tuoi limiti, spesso portare a casa la medaglia d’oro non significa che hai dato tutto te stesso, ma se riesci a superare delle paure, se riesci a rialzarti da una sconfitta, guardi a quel giorno con orgoglio. Di cadute nello sport ce ne sono veramente tante, oggi non combatto più ma mi capita ancora di cadere, questo è un qualcosa che viene molto sottovalutato da tante persone che guardano allo sport come un gioco, che però non è una sorta di passatempo perché il judo e gli altri sport portano degli insegnamenti, riescono a dare una formazione ai giovani che poi, dopo, quando diventeranno dei professionisti, quando incontreranno il mondo del lavoro, ricorderanno. L’importante non è partecipare. L’importante è vincere. Ma vincere non è superare il prossimo, vincere vuole dire dare il massimo, superare te stesso, non andare a lavorare giusto per andarci o andare a una competizione tanto per partecipare. Non è corretto, non è quello il messaggio. Il messaggio è andare lì e dare il massimo ogni volta. Andare lì con la gara e prima di mollare dare veramente l’anima, quasi arrivare a piangere. Io li ricordo quei momenti, quando incontravo avversari più bravi di me, e mi dicevo sempre: «Che cosa faccio adesso? Ho perso, smetto?». Due sono le cose dico oggi ai ragazzi. Quando cadi o quando trovi un ostacolo o una sconfitta non perdere tempo, o smetti o dai più di prima. Nel mio caso, ogni volta che perdevo, la risposta era sempre la stessa, «mi devo allenare di più, devo migliorare, devo migliorare la lealtà, essere sincero negli allenamenti, essere sincero con il mio tecnico, essere sincero con i miei amici, essere sincero con me stesso, essere leale». Noi atleti quando finiamo la gara, ci guardiamo dentro e spesso diciamo: «Ma io potevo dare di più». E in quel momento, tornando alla medaglia d’oro, anche se hai portato a casa la medaglia d’oro, non sei contento. Io dico sempre ai ragazzi «nessun alibi, combatti». Perché se cerchiamo degli alibi, delle scuse, le troviamo un po’ dappertutto, il professore che ce l’ha con me, non ho potuto studiare perché ieri non stavo bene, non mi posso laureare perché la mia famiglia non ne ha, o allo stesso tempo mio padre fa il macellaio, come faccio io a realizzare il mio sogno, chi diventa dottore è solo chi ha il papà dottore, quando c’era quell’esame mia nonna non stava bene, sono figlio unico non ho avuto un esempio. Ragazzi, se cerchiamo alibi ci sono dappertutto, e questo è qualcosa che però non è da vincenti. Avere delle scuse, avere degli alibi, quelle ci saranno sempre. Il combattere e superarli penso che sia quello che dobbiamo insegnare ai nostri giovani, sia quello che ognuno di noi può essere da esempio, al di là se si vincono le olimpiadi o non si vincono. La fiducia, questa è una qualità che ho avuto. Ho sempre individuato le persone, in breve tempo, ero veloce in questo, le persone che mi volevano bene, gli ho dato fiducia, anche se in alcuni momenti non riuscivo a capire che cosa mi dicevano, ero piccolo non avevo esperienza. Però la risposta era «mi vuole bene», ha qualche hanno più di me, abbassa la testa, lavora e vai avanti. Il premio, da bambino non avevo il sogno di vincere le Olimpiadi, non arrivavo ad avere delle pretese così grandi, ma volevo diventare bravo, e diceva il mio maestro: «Non devi aspettare che gli altri ti dicano che sei bravo, lo devi sapere tu». Non è importante quello che dicono gli altri, perché gli avversari più duri, quelli più difficili non sono stati quelli che ho incontrato sul tatami, non è stato il brasiliano della finale olimpica o il mongolo che mi ha battuto all’ultima Olimpiade, ma gli avversari più duri sono stati gli adulti, le persone che mi guardavano mentre mi allenavo e mi dicevano: «Ma chi te lo fa fare. Ma non sei capace. Vieni da Scampia, quando mai un judoka viene da Scampia, un judoka è giapponese, al massimo fanno parte di alcune scuole italiane già rinomate e il tuo maestro non ha mai vinto niente, non avete neanche una palestra». Ma quegli avversari non avevano capito che mi stavano dando carica, mi stavano dando energia, quelli sono stati gli avversari, loro mi caricavano, stavano facendo un errore. E quando ho vinto tanta gente ha dovuto chiedermi scusa. Ma è l’emozione il premio che ho cercato sempre durante i miei allenamenti, che portavo con me dopo una competizione, e potevo vincere e potevo perdere. Però quello che dico sempre ai giovani è di partire con il piede giusto. In bocca al lupo e grazie per avermi ascoltato.

RAGAZZO:
Quanti Roland Garros hai vinto?

MARA SANTANGELO:
Un Roland Garros nel 2007 in doppio. Sono stata la prima italiana a vincere un grande slam in doppio. Tu giochi a tennis?

RAGAZZO:
Si, anche mio fratello

MARA SANTANGELO:
Vi va di fare un selfie tutti insieme così poi lo pubblichiamo?

RAGAZZO:
Sì.

DOMANDA:
Judo fa male?

PINO MADDALONI:
No, infatti prima nel mio intervento ho trovato fiducia nel tatami, perché io da bambino ogni due o tre passi cadevo e mamma mi aveva messo anche le bretelle in modo che così riusciva a prendermi. E il tatami, quando ci cadevo sopra, non mi facevo male e sono riuscito a imparare le capriole, a correre. Male no, anzi anche mia figlia fa judo anche se mi dice che si diverte di più nella ginnastica e io le dico che però grazie al judo impara a relazionarsi con gli uomini, perché ce ne sono tanti e questo è importante.

DOMANDA:
A me piace molto giocare a tennis ma la parte della ginnastica non mi piace tanto, quale è il consiglio, la motivazione che mi puoi dare?

MARA SANTANGELO:
Bellissima domanda. Devi sapere che per vincere bisogna necessariamente fare fatica e passare attraverso l’atletica. È una tappa necessaria, altrimenti solo con il braccio e con il tennis non si arriva. Quindi quando tu fai atletica devi pensare: «Ma io voglio vincere a tennis, quindi devo fare atletica!» Capito? Può essere un trucco che ti può aiutare.

MARCO CERESA:
Mara è un po’ come nella vita, bisogna studiare, bisogna iniziare a lavorare, bisogna impegnarsi nello studio, questo è un po’ il messaggio che bisogna capire, non arriva niente gratuitamente. Tutte le persone che vedete qui hanno speso ore e ore, giorni e settimane, mesi e anni ad allenarsi, per arrivare a far sentire a tutti noi l’inno nazionale alle Olimpiadi. Per cui è solo con lo studio e il lavoro che si riescono a raggiungere certi risultati.

MARA SANTANGELO:
Questo è il messaggio che noi tutti cerchiamo di trasmettere ai nostri giovani. Il progetto si chiama proprio così. “Allenarsi per il futuro”, allenarsi oggi per il dopo, perché se non si passa attraverso l’allenamento, il sacrificio, la fatica, la dedizione, non si arriva a raggiungere poi risultati importanti nella vita, in qualsiasi aspetto della vita.

MARCO CERESA:
Se non ci sono altre domande, vi ringrazio e ringrazio anche Marco Mordente perché ha confermato quella che è la mia teoria, che spesso veniamo messi in panchina e quando siamo in panchina quello che dobbiamo fare è continuare ad allenarci per tornare in prima squadra. Grazie mille a tutti.

(trascrizione non rivista dai relatori)