«Ma misi me per l’alto mare aperto». L’Ulisse: quando Dante cantò la statura dell’uomo

 

L’Ulisse dantesco rappresenta un’immagine insuperata della grandezza dell’uomo, del suo irrefrenabile impeto a penetrare nell’ultima profondità delle cose, nella scaturigine dell’essere. L’«ardore» che lo spinge a prendere il mare per conoscere «i vizi umani ed il valore» è la cifra del personaggio, la sua natura più vera. Come scrive Mario Fubini, è «un impulso innato nell’uomo» quello che porta Ulisse «ad affrontare le più ardue e rischiose imprese», a tentare la traversata dell’oceano misterioso e sconfinato del significato. Così, con remi divenuti metaforicamente ali, la sua imbarcazione spicca il «volo», lasciandosi alle spalle le colonne d’Ercole. È lo stesso «volo» che Dante dovrà compiere in tutta la Commedia, e in particolare nel Paradiso, per giungere fino a Dio.
Non di rado, tuttavia, l’Ulisse di Dante è stato guardato con sospetto. Molta critica ritiene che si tratti solo di un superbo ingannatore: come un novello Lucifero che, desiderando più del dovuto, avrebbe passato il segno e osato farsi simile a Dio. Il rimprovero a Ulisse che fu di Petrarca, subito a ridosso della Commedia: «Desiò del mondo veder troppo» (Trionfo della fama, II, v. 18), rivela una posizione che la nostra cultura ha largamente accolto e fatta propria: sospettare questa smisurata aspirazione del cuore, stigmatizzarne l’eccesso, oppure svuotarla del suo contenuto reale. Così ci si preclude la comprensione dell’Ulisse dantesco, perché si misconosce l’autentica scintilla del muoversi umano.
Ma quella dell’Ulisse non è esagerazione tracotante dell’aspirazione umana: è l’aspirazione umana stessa, nella sua vincolante e originale portata. Contenerla o contrastarla, o peggio ancora condannarla, sarebbe un assassinio dell’umano. Non è un caso, allora, che proprio a questa figura corsero il pensiero di Primo Levi (essa «riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie»; Se questo è un uomo) e quello di Osip Mandel’štam («Questo canto è sulla composizione del sangue umano, che contiene in sé il sale dell’oceano»; Conversazione su Dante), proprio mentre soffrivano rispettivamente la violenza nazista e la persecuzione staliniana. Da luoghi progettati per annientare la dignità umana, entrambi riconobbero nell’Ulisse il simbolo più vero del valore infinito di ogni uomo, di ciò che lo rende ultimamente irriducibile, nonostante tutto il male che può essergli fatto.
Chi siamo noi di fronte alle colonne d’Ercole, a ciò che vediamo e tocchiamo, alla realtà e al limite posto dall’esistenza alla volontà di penetrazione nell’ignoto, nell’oceano del significato? L’Ulisse o lo spirito di una positivistica misura? «Ma lui, Ulisse, proprio per la stessa “statura” con cui aveva percorso il mare nostrum, arrivato alle colonne d’Ercole, sentiva non solo che quella non era la fine, ma che era anzi come se la sua vera natura si sprigionasse da quel momento. E allora infranse la saggezza e andò». (L. Giussani, Il senso religioso, p. 187).
Questo Ulisse continua pertanto ancor oggi a dar scandalo ai saggi e ai benpensanti e respiro agli amanti della grandezza e nobiltà della natura umana.

A cura di Ilaria Ariemme, Pietro Bocchia, Stefano Braschi, Carlo Carù, Irene Coerezza, Alberto De Simoni, Carmine Di Martino, Daniele Ferrari, Gabriele Grava, Simone Invernizzi, Tommaso Montorfano, Michele Orfano, Pietro Pellegatta, Benedetta Quadrio, Carlo Sacconaghi, Luca Tizzano, Paolo Torri.