INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.

Invito alla lettura. Si prospettano giorni felici

SI PROSPETTANO GIORNI FELICI
Presentazione del libro di Giovanni Marco Calzone (Ed. Marietti 1820). Partecipano: Carmine Di Martino, Docente di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Milano; Mariella Carlotti, Insegnante.

 

INVITO ALLA LETTURA. Introduce Camillo Fornasieri, Direttore del Centro Culturale di Milano.
Ore: 15.00 eni Caffè Letterario D5

CAMILLO FORNASIERI:
Bene, un caro benvenuto a tutti. Cominciamo questo incontro di presentazione di libri con una frase scritta qui sugli scalini: “Ci sono alcuni libri che passano e alcuni che restano”. L’ho scoperta ieri e mi pare che il libro di oggi sia di quelli che restano. È un libro della casa editrice Marietti, che ringraziamo molto per la tempestività e disponibilità alle cose importanti. Sono scritti di Giovanni Marco Calzone, con contributi di Luigi Giussani e di Giacomo Tantardini. Chi è Giovanni Marco Calzone, che i nostri due ospiti andranno meglio a raccontare? E’ un giovane di Napoli che incontra la comunità di Comunione e Liberazione durante gli anni dell’università. Personalmente ne ho un ricordo, pur non avendolo mai conosciuto, vivissimo. Sempre mi ha colpito quello che il nostro grande maestro don Giussani ha accennato di lui, utilizzando, come spesso faceva, frasi di appunti: non si tratta di un vero e proprio diario, anzi, non è un diario ma uno strumento utilizzato per tutti, per segnare la nostra esperienza di quel momento. Pensate che il contributo di don Giussani, presente nel libro, è un testo, una parte di una équipe del Clu, il raduno degli universitari responsabili degli anni ’80, che ha per titolo Dalla natura il terrore, dalla grazia l’audacia. E poi, c’è il testo della meditazione del Giovedì Santo alla Certosa di Pavia di Milano. Quel Giovedì Santo fu totalmente determinato da alcune frasi di commento di don Giussani ai canti della liturgia. E questo ci fa capire che non è un diario, come tanti di noi potremmo scrivere oppure scriviamo, nella grandezza infinita dell’esperienza umana che nasce dal cristianesimo incontrato nella forma e nel carisma del movimento di Comunione e Liberazione, ma il serrato paragone di uno che voleva vivere la coincidenza tra ogni istante e questo tutto, intravisto prima e poi realmente incontrato e toccato. Bruciare tutte le mediazioni, come in quel periodo tutta la cultura che ci circondava suggeriva, anche quella cristiana, da una parte è certo una cosa importante, dall’altra è interessante l’idea di trovare un modo per tradurre la vita, trovare delle forme, accettare un’intelligenza più grande del mondo: ecco, questo desiderio di bruciare, di trovare la coincidenza, come dice in una delle sue frasi, è il cuore del libro. Un libro che ci permette di capire l’importanza, ad esempio, di quei momenti di assemblea, di dialogo, che abbiamo letto nelle équipe del Clu pubblicate dalla Rizzoli in questi ultimi anni. Qui si vede proprio una persona che segue, e questa è l’oggettività che permane. Oggi Claudio Magris ha reagito sul Corriere della sera, sul tema del Meeting, parlando della inevitabile presenza dell’infinito nella vita dell’uomo, come mancanza o come aspettativa. Ma qui c’è un andare oltre, c’è già una risposta, un invito, quando dice: “Vivere non è mai banale se si pensa che l’infinito è misterioso e potente e sconvolge tutti i nostri idoli”. C’è anche l’eco del messaggio del Santo Padre, gli idoli a cui riduciamo tutti gli infiniti, nella certezza che sempre, in ogni istante, ci sia la possibilità di trascendere la sfera dell’ovvio e continuare la seconda navigazione. Per entrare in questa seconda navigazione, in questo segreto di passione, di desiderio bruciante di Giovanni, do la parola a Mariella Carlotti che tutti conoscete, è insegnante di letteratura a Firenze e al Meeting è da anni una presenza costruttiva e propositiva importante. Seguirà un intervento di Carmine Di Martino, docente di Filosofia Teoretica all’Università degli Studi di Milano.

MARIELLA CARLOTTI:
Io non ho conosciuto fisicamente Giovanni, l’ho conosciuto però personalmente perché, pur non avendolo mai visto, subito dopo la sua morte ho avuto la fortuna di conoscere la sua famiglia, e in primis sua sorella Rita: un uomo si conosce nella sua eredità. Perciò credo di averlo conosciuto personalmente, conoscendo l’eredità che ha lasciato. Sono stata particolarmente colpita dagli scritti che lui ha lasciato, così come diceva Camillo. Sono molto grata alla famiglia che mi ha chiesto di presentare questo libro, nonostante io non abbia avuto nessuna consuetudine con Giovanni, sono stata molto grata di poterlo leggere attentamente e sottolinearlo. Perciò faccio una grandissima fatica, adesso, a scegliere alcune frasi da riproporvi. Arbitrariamente, ho fatto un percorso, che forse è il percorso che il Movimento ci sta facendo fare quest’anno: sono le cose che in questo momento mi hanno colpito. Ma ho letto questo libro avendo nelle orecchie e negli occhi un fatto: ogni volta che io ho incontrato don Giussani, insieme alla Rita – è successo diverse volte, eravamo insieme e arrivava don Giussani – quello che lui ci ha detto è che voleva che fosse pubblicato un libro su Giovanni, perché la vita di Giovanni fosse conosciuta dal Movimento. E nei confronti di questa sua insistenza, manifestata ogni volta che lo incontravamo, mi sono sentita per anni disobbediente. Oggi sono molto felice che il suo desiderio si sia finalmente realizzato.
Ho letto il libro, avendo negli occhi il desiderio che don Giussani aveva che questa vita fosse conosciuta. Mentre lo leggevo, mi chiedevo perché don Giussani avesse questo desiderio, così insistentemente ripetuto. E questa estate, la prima risposta che mi sono data è che qui si vede bene una cosa che don Giussani disse a Carrón, che ce l’ha raccontata, poco tempo prima di morire. Erano al Sacro Cuore e don Giussani, affacciato alla finestra, vedendo il piazzale pieno di persone del Movimento, disse a Carrón: “Vedi, sono tutte persone che hanno fatto un certo incontro, che partecipano alla stessa amicizia. Ma come sono diverse l’una dall’altra! La differenza tra loro non la fa quello che pensiamo noi, perché noi pensiamo che la differenza tra noi la fanno le capacità, le circostanze, facili o difficili, di cui è fatta la vita di ognuno, la fanno la doti personali che uno ha e un altro non ha. In fondo, noi pensiamo – diceva don Giussani – che la grande differenza nella vita dipenda da queste cose. Invece, la grande differenza nella vita di chi ha incontrato Cristo, diceva lui, dipende da chi su questo incontro fa un lavoro personale e chi non lo fa”. Leggendo il libro di Giovanni, io sono stata folgorata dalla scoperta di questa frase che don Giussani disse a Carrón. Perché è vero, come Giovanni ripete in tutte le pagine di questo libro, che tutto è dono, che tutto è grazia ma il gusto della vita dipende dal fatto che questo dono diventi mio. La grazia è che ci sia una strada ma la strada diventa bella solo per chi cammina. E certamente Giovanni, a ventisei anni, in quattro o cinque anni di vita del Movimento, ha fatto un cammino sorprendente, di cui traboccano tutte le frasi di questo libro. La necessità di questo lavoro è detta in tante salse, in questo libro. Leggo solo una di queste frasi in cui lui dice circa la necessità di questa memoria ricercata di Cristo ogni giorno. Dice: “La memoria è possibile viverla costantemente, come clima che avvolge ogni momento della vita, è una vigilanza che non termina, è una vicinanza affettiva percepita, di cui si ha coscienza, è il cuore che, destato, accompagna ogni pensiero e ogni azione. Il lavoro da fare consiste in un affronto dei momenti forti della giornata perché si familiarizzi con la novità incontrata. Questa, almeno una volta, ci ha colpiti, ci ha corrisposto. L’unica speranza è che diventi sempre più familiare. Come per imparare un libro, occorre continuamente ripeterlo finché lo si sa a memoria, ma dopo l’esercitazione diventa meno pesante, ma deve continuare, allo stesso modo avviene nel campo di cui stiamo parlando: l’appartenenza come orizzonte stabile, nel senso però degli effetti che produce nell’animo, è paragonabile ad uno stato di emozione, al suo persistere”. Ma per questo lavoro – è la seconda osservazione che voglio fare – c’è una decisione da prendere, c’è una sequela da vivere. Noi sogniamo una vita in cui tutto diventi meccanico. Giovanni viveva una vita in cui di meccanico non c’era nulla. Lo ricorda nella prima frase che apre il libro: “La buona volontà e l’apertura del cuore non bastano più. Quando si usano queste espressioni, si è convinti di dare tutto ma non è così. Si dà tutto secondo una misura propria del tutto. Occorre una disponibilità all’immediata messa in moto di sé; al tutto non si arriva mai, si tratta di una costante ricerca di segni. C’è bisogno di un’apertura che vada al di là di quella che viene praticata di fronte ai precetti religiosi. Si deve partire per un’avventura in cui chi calcola le cose non sei tu”. Mi ha colpito, in un Meeting dedicato all’infinito, una frase sull’infinito che leggeva prima anche Camillo ma che voglio rileggere integralmente: “Per realizzare, però – scrive Giovanni – la propria natura come rapporto con l’infinito, occorre continuamente trascendere la sfera dell’ovvio”. E sempre torna questo tema, che nella vita non c’è nulla di meccanico, che non abbiamo meritato quello che ci ha investiti ma dipende dalla nostra decisione che quello che ci ha investiti diventi veramente tutto. E infatti, scrive Giovanni, “vivere non è mai banale, se si pensa che l’infinito è misterioso e potente e sconvolge tutti i nostri idoli, anche quelli più persuasivi. C’è sempre, in ogni istante, anche se non sembra, la possibilità di trascendere la sfera dell’ovvio e continuare la seconda navigazione, perché tutto si consuma, l’infinito no. Lo spalancarsi è lo stare con la mente aperta in ascolto di ciò che ogni cosa nasconde. Quanto siamo immersi nella caligine dell’ovvio e dell’idolo!”.
Questo è un’altra sottolineatura che mi ha colpito moltissimo: come Giovanni seguiva. In quegli anni, don Giussani al Clu cominciò ad insistere su un grande tema: che il Movimento doveva passare da una logica di gruppo ad una logica di coscienza personale. Tutti questi appunti di Giovanni sono pieni dell’eco di questa affermazione di don Giussani. Lui sapeva che il Movimento resta Movimento se diventa movimento mio. Il Movimento, se non è un movimento mio, è politica, cioè è un puro fatto di potere. Questo, Giovanni veramente lo dice con una lucidità che, in un ragazzo di ventitré o ventiquattro anni, è impressionante. Leggo soltanto un brano in cui dice questo: “In questi ultimi tempi, è avvenuto il passaggio più importante, dalla concezione del Movimento come orizzonte entro il quale uno vive – orizzonte di amici, di gesti, di cose che ti riempiono la giornata, alcune volte anche troppo, luogo rassicurante – a un’altra concezione di Movimento”, perché il Movimento può cambiare tutta la vita senza cambiare l’io. E questo Giovanni lo sentiva moltissimo, perciò dice: “In questo momento, chi segue sente che la preoccupazione di chi guida è la preoccupazione di sé”. Uno non ha altra preoccupazione, sulla sua vita, della preoccupazione dettata da chi guida, che infatti ripete ma con una originalità di personalizzazione che mi ha colpito. Allora, parla del “passaggio dalla concezione del Movimento fatto di amici, di gesti, di cose che ti riempiono la giornata” ad una “concezione del Movimento come avvenimento che dà vita a un movimento personale”. Che un ragazzo, a ventitré o ventiquattro anni, scriva questa cosa, su cui mi sembra sia ferma in questo momento la guida del Movimento, è veramente impressionante. “Per esempio, ha determinato una libertà di cui io stesso mi sono meravigliato nell’affronto di un esame”. Bellissima anche questa sottolineatura. “Quando il Movimento diventa il movimento di una persona, uno se ne accorge perché è libero ma non libero astrattamente, libero dentro le circostanze della vita, cioè libero per una verifica. Ma la libertà nello studio è possibile soltanto quando si vive per uno scopo diverso dallo studio. Le giornate così non sono consumate dall’ansia. Mettendo in gioco la parte più vera di sé, che in genere è soffocata dentro le cose, comincia a cambiare lo sguardo che si ha sul Movimento, il luogo in cui il desiderio di fondo emerge, insieme all’iniziale visione di una risposta efficace che cambia la vita, già l’ha cambiata. Da questo Movimento che diventa un movimento personale, nasce un’unità profonda della vita”.
C’è una frase che, nella sua lapidarietà, mi ha colpito da morire: “Se uno ti chiede: per te conta di più quella tua passione, una qualsiasi, o la fede, e tu rispondi che conta di più la passione, sei un pagano. Se dici che conta di più la fede e svaluti quella passione, che in sé è positiva, e ci rinunci, sei un moralista. Se colleghi invece quella passione all’ideale, e soltanto in vista dell’ideale per te quella passione ha senso, allora sei cristiano. Questo è il movimento di Comunione e Liberazione”. E così si capisce quello che il Movimento ci ha ripetuto quest’anno: che il problema della vita è l’autocoscienza, cioè che cosa dico quando dico “io”. Per Giovanni, è chiarissimo che questa autocoscienza è la fede. E’ l’ultima frase che è stata riportata nel suo diario, quella che – è scritto nella Prefazione – lui ha detto a sua sorella pochi giorni prima di morire: “Ho l’impressione che ogni mio gesto scaturisca direttamente dalla fede, e ne sono cosciente. E’ come se non ci fossero più mediazioni”. “Vivo non io, è un Altro che vive in me”, ci siamo sentiti dire quest’anno. Ci ricorda Giovanni, con venticinque anni di anticipo. “Così la vita diventa lieta, piena di attesa e di speranza”.
E’ impressionante che suo padre abbia ritrovato, nel portafoglio di Giovanni, una frase datata 25 maggio 1987, l’anno prima di morire, su un fogliettino che lui teneva sempre con sé nel portafoglio. E’ la frase da cui è tratto il titolo del libro. In questa frase, lui aveva scritto: “Si prospettano giorni felici”. Così recita il titolo. Ma la seconda parte della frase spiega perché: “perché ho chiesto al Signore di poterlo servire”. La vita è felice solo per questo, se uno chiede al Signore di poterlo servire. E una vita lieta è una vita feconda, così feconda che un ragazzo che muore a ventisei anni, dopo ventiquattro anni dalla sua morte, raduna a Rimini, alla presentazione del suo libro, centinaia di persone, genera cioè un’amicizia che è più grande della morte.

CARMINE DI MARTINO:
Sono fortunato nel parlare dopo Mariella perché mi ha preparato la strada. Devo dire che ho accolto con grande gioia l’invito che, attraverso Rita, mi è arrivato di venire a presentare il testo, perché io ho avuto anche la grazia di conoscere di persona Giovanni Calzone, e c’erano tra noi molti elementi di affinità: la passione per la filosofia e anche quella per il calcio. Giovanni era un ottimo centrocampista, abbiamo fatto alcune partite insieme. Non era attaccante, come Innocenzo, ma era un riflessivo anche nella condotta di gioco sul campo, raffinato, aveva molta classe e anche un’ampia visione di gioco che lo faceva capace di fare il lancio adeguato. È stato per me molto bello poter aderire, soprattutto essere stato invitato, perché quello che mi aveva subito attirato in Giovanni era che, in un panorama in un certo senso poco incline a accogliere elementi di riflessione profonda oppure strutturata, era una persona molto ricettiva, era un esemplare fuori contesto, con evidenti e spiccate doti di pensiero, come il libro documenta. Lo si vede non tanto dal fatto che le cose che dice siano uniche – le hanno dette molti altri nella storia occidentale -, ma che a dirle in questo modo, così personale, sia stato un ragazzo dai ventidue ai ventisei anni. Aveva una evidente inclinazione al pensiero e anche alla strutturazione e alla formulazione del pensiero, e per questo aveva suscitato la mia curiosità, oltre a un grande sentimento di affinità: ci si trovava, ci si intendeva, avevamo molte letture comuni. Per esempio, il libro trasuda di un linguaggio legato a certi autori, Heidegger, in particolare Essere e Tempo e molte cose di Nietzsche, Gadamer, che io ho frequentato di meno ma si che lui amava di più. E anche certi classici, per esempio ci sono accenni di Scolastica, evidentemente. Avevamo delle lettura comuni, quindi ci si intendeva. Avevamo anche una sensibilità comune per la musica. Insomma, è stato un incontro molto fortunato quello con Giovanni, e devo dire che l’avere riletto il testo, di cui voglio parlare, mi ha costretto a re-immergermi in tanti momenti del dialogo, rapporto con lui, e anche a scoprire delle cose che non sapevo di lui, accenti che non sospettavo. Giovanni era uno che non parlava molto, bisognava rivolgergli la domanda perché rispondesse, altrimenti era piuttosto riservato, era una persona che si direbbe riflessiva e discreta, che aveva sempre un occhio espressivo, cioè si capiva che capiva e al momento, se interpellato, lo dimostrava, ma non era una persona di facile dialogo, che volesse esibire se stesso. Al contrario. Ecco parto da qui, da questo tratto del suo temperamento perché è quello che ho più ritrovato, come scoperta nuova, insieme ad altre che poi dirò, nelle pagine. Ho notato per esempio una ricorrenza delle parole fantasmi, spettri, sintomatica di una interiorità drammaticamente vissuta. Per esempio, nella poesia che scrive a pagina 37, quando dice: “Non voglio sentire parlare di spettri paurosi, dura è stata, dura è ancora, uscire da gabbie mostruose”. E la parola fantasmi, con certi accenti, certe specificazioni ricorre molto spesso, lo dico come segno di un lavorìo interiore che non si sarebbe indovinato se ci si fosse attenuti a quello che diceva: forse da qualche inflessione dello sguardo, sì, ma non dalle parole. A pagina 113 dice: “Il male da combattere in sé è l’introversione con tutto ciò che genera: sospetti, gelosie, mancanze di fiducia, tristezza, passività, timidezza, pensieri ossessivi, scrupoli, ragionamenti sovrabbondanti, mancanza di elasticità, cavillosità”. Spesso parla della scrupolosità come di un ostacolo. Non posso leggere troppe cose, mi verrebbe voglia perché l’ho letto dalla prima riga all’ultima virgola, perché volevo rendere soprattutto onore all’amicizia con lui e all’invito che mi era stato fatto, perciò non ho saltato nulla, ma ci sarebbe da addentrarsi molto in questo aspetto di percezione di sé.
Seconda sottolineatura, si tratta di una interiorità combattuta, una percezione di sé drammatica: non era un tipo facile, da quello che si vede qui, non uno a buon mercato, era una persona che sentiva la vita pungere e che – questa è la seconda nota che vorrei proporvi – poneva con intransigenza il problema della vita. Ne faccio alcuni esempi, pagina 19: “Il problema è trovare un elemento su cui porre l’attenzione per il superamento delle difficoltà”. Immaginate che siano descritte, anche solo per accenni, le difficoltà dalla citazione di pagina 113: “I casi da risolvere sono lo studio, il perfezionismo, l’introversione, la pensosità, lo scrupolo, la vigilanza, la chiacchera. Per ognuno di questi occorre una particolare attenzione. Capita però che, se c’è la memoria fissa su di un campo, non viene esercitata sugli altri [se sto attento di qui, non sto attento di là. E’ qui la domanda che fa capire in che senso dico che Giovanni poneva il problema della vita con intransigenza, senza sconti]. Esiste un centro su cui, ponendo l’attenzione, concentrando gli sforzi, non ci si disperda nella molteplicità dei campi e che nello stesso tempo consenta un cammino che inglobi tutto, senza nulla tralasciare?”. I pensieri sono tutti degli universi, sono dei cristalli, hanno tutto dentro, in ogni frammento c’è un percorso che in un certo senso è compiuto, anche se il tema è unilaterale. La finale di questo pensiero è significativa e apre a una serie di altre osservazioni: “Occorre a questo punto sviluppare l’ipotesi cristiana: pensate al Regno e tutto il resto verrà da sé. Esiste un centro, concentrandosi sul quale i campi molteplici possono stare insieme? E i problemi e i casi da risolvere possono essere affrontati tutti, tutti insieme, senza sbilanciarsi, ora su questo, ora su quello? Bisogna sviluppare l’ipotesi cristiana. Pensate al Regno, tutto il resto verrà da sé”. Questa frase si ripete come un ritornello in molti luoghi del testo, come quell’ipotesi di lavoro che Giovanni teneva presente, almeno da un certo punto in poi.
Si dice, nella pagina introduttiva a firma della famiglia, che Giovanni aveva ricevuto una solida fede cattolica e che ad un certo punto l’incontro con un Monsignore, che qui viene citato, lo indirizza verso l’esperienza di Comunione e Liberazione. Ma si comprende bene, e le pagine lo fanno capire, che l’incontro con l’esperienza di Comunione e Liberazione ha determinato un approfondimento, si potrebbe dire un salto, una discontinuità nella continuità rispetto a quello che aveva ricevuto prima: l’uso costante di certe parole, di certe formule, esprime questo approfondimento. Io non riesco a rendere ragione di tutto questo e vorrei toccare tutti i punti che ho detto, perciò non mi soffermo troppo su ciascuno di questi. Solo, voglio citare un altro elemento su questa sottolineatura: l’intransigenza con cui per lui si poneva il problema della vita. A pagina 17, c’è una frase che Giussani ha utilizzato molto: “Se possiamo ingannarci credendo che abbiamo bisogno ora di qualcosa che oggettivamente è illusorio, non possiamo ingannarci però circa il nostro desiderio di vita che è turbato dalla morte. Qui, è chiaro, solo Dio è il risolutore”. C’è una lucidità con cui il problema del compimento di sé è posto, che è profondamente scioccante, ammirevole, una lucidità, una nettezza del pensiero di Giovanni a questo riguardo: e tutto quello che stona nell’esistenza è legato ad una fuga, ad un mancato affronto, ad una non soluzione del problema, così come la vita lo pone in noi, così come nell’esistenza umana si pone. Pagina 25: “Il nostro dolore [qui è usato con una sfumatura negativa] dipende dal fatto che siamo portati a vivere al di fuori dell’orizzonte del sacro. Il nostro orizzonte abituale cambia con il cambiamento delle circostanze, ma l’orizzonte che è definito dalle circostanze è soffocante, attraente all’inizio, poi noioso. Vivendo dentro questo tipo di orizzonte, cerchiamo di aggiustare e ordinare da noi i pezzi, ma i conti non tornano mai”. L’orizzonte è ciò a cui immediatamente ti viene da pensare, che cosa comporta non affrontare il problema della vita come si pone, con la radicalità con cui si pone? Comporta – questa è una delle espressioni, che ne sono altre che ridicono lo stesso pensiero – un’amarezza, un dolore, una incompiutezza che è sempre dovuta al fatto che si attribuisce a qualcosa che non è all’altezza della propria domanda il valore di una risposta. C’è una incongruenza, c’è un errore di valutazione che ci impedisce di godere della vita.
Ma volevo a questo punto fare solo un piccolo accenno, come documentazione di questa radicalità con cui Giovanni percepiva il problema di sé e della vita, notando qualcuna delle frasi in cui è a tema l’io, un modo che io ho avvertito molto vicino e anche molto drammatico. Pagina 29: “L’io è dimenticato [qui l’incontro era ampiamente avvenuto] quando ripeto a memoria frasi fatte che nel Movimento ho ascoltato, quando parlo il linguaggio del Movimento, ma è il mio”. Egli usava parole del Movimento: non è tanto l’usarle o il non usarle ma la sensibilità con cui percepisce l’urgenza che si chiama io. Quando mi servo di un discorso già pronto, allora l’io è dimenticato. Si evita il dramma e si giunge all’aridità, si cerca di preservare al meglio l’immagine di sé artificiosa, di fronte a sé e di fronte agli altri. Oppure, a pagina 35, quando in modo disarmante domanda: “Ma io, quando dico “io”, a cosa penso? A chi mi restituisce il mio volto che ho smarrito oppure no?”. O a pagina 41, quando dice in forma di impegno, di promessa: “E’ come se dovesse emergere in modo più cristallino l’io che decide, l’io che è libero, l’io che ragiona di più e che è sempre meno immerso nel livello indistinto del dormiveglia, l’io, l’io, è come se dovesse emergere l’io”. Oppure a pagina 120, poi la citazione più decisiva su questo profilo, dove dice: “Tutto va bene, ma io?”. Sta descrivendo un anno vissuto, quando sembrava che tutto procedesse per il meglio, che tutto fosse in ordine, e veniva fuori l’avvertimento di una stancante tranquillità: tutto va bene, ma io?
E poi, a pagina 75 ho trovato una perla fra le varie perle, laddove dice, molto in tema col Meeting: “Affermare che l’uomo è creatura che dipende da Altro non è così pacifico, oggi. Dire: l’uomo è creatura, significa sconvolgere secoli di storia occidentale. Il valore teoretico di tale espressione si chiarisce in relazione al metodo con il quale si giunge ad una affermazione di questo tipo: se si vuole ricercare l’essenza di qualcosa, occorre partire dall’osservazione nel presente”. L’io, ma l’io? Tutto va bene, ma l’io? L’io creatura, ma come faccio ad arrivare lì? Attraversando secoli di resistenza a questo riconoscimento. Qual è il metodo? Partire dall’osservazione nel presente. E questo si corona con una affermazione di pagina 93, dove dice in che cosa consista, appunto, la percezione di sé come fatti da un altro: “La grandezza propria non dipende dalle capacità che si hanno ma l’io, in che consiste l’io? Che fine fa l’io? Quando l’io è libero, quando l’io è desto e non sprofonda nell’indistinzione? La grandezza propria non dipende dalle capacità che si hanno: prima si credeva di essere già intelligenti, poi si svela l’inganno di tale credenza, ci si accorge di essere poco comunicativi [sta parlando di sé] e che in sintesi moltissimi sono migliori [era umile, essendo molto intelligente], stanno umanamente più avanti [è lo scarto che notava spesso, lui che era così dotato, così intelligente, spesso si trovava avanti a sé molte persone che erano molto meno dotate di lui ma umanamente gli stavano davanti], ma la grandezza propria, da cosa dipende? Dalle capacità elencate più sopra? Se fosse così, il cristianesimo sarebbe una occasione di competizione, come è normalmente nel mondo. La grandezza propria sta in questo [attenzione: l’espressione è molto bella perché è nota ed è nuova]: io non c’ero e Uno mi ha voluto sulla terra, io ero perduto, senza una vita e Qualcuno mi ha salvato. La grandezza propria è nel fatto che Uno ti ama e quest’Uno è il Tutto”. La grandezza propria sta in questo rapporto.
Giovanni era stato folgorato dall’incontro con l’esperienza del movimento di Comunione e Liberazione e lo si vede soprattutto da come diventava intelligentemente critico nei confronti di ogni immagine ridotta del cristianesimo. Lo si capisce, per esempio, quando, una volta affidatagli la responsabilità di un costituendo Centro culturale napoletano (poi non so come era andata a finire, se si fosse più o meno fatto, avevano trovato finalmente la personalità in grado di creare e sostenere un Centro culturale napoletano, per le doti di cui sopra) e allora, pagina 43, fa una osservazione molto intelligente. Lui, che era Presidente in pectore del costituendo Centro, dice (lo dico non per il Centro culturale ma per la coscienza di cosa sia il cristianesimo): “Un Centro culturale oggi non può che assumere una posizione secondaria nel mondo contemporaneo in cui la parola è stata svalutata dal troppo uso. E’ più che mai evidente che la salvezza proviene dall’incontro di un fatto, non dall’incontro con le conseguenze culturali di quel fatto”. È l’incontro con un fatto, il Centro. Oppure, a pagina 59, quando dice: “Per l’impostazione che ho ricevuto, sono cresciuto nel Movimento con la consapevolezza che in fondo non era solo qui che si giocava la mia vita [il prima e il dopo]. La scoperta di questi ultimi giorni è proprio questa [il contrario]: la compagnia alla quale appartengo è il luogo vivente dove è possibile familiarizzare con il contenuto della fede, unica realtà che mi ha totalmente corrisposto”.
E poi, ancora, a pagina 102, laddove Giovanni dice – e anche questo è segno di una grande scoperta fatta: “Il tradizionalismo [fede comunicata nel modo in cui molti nostri genitori o nonni l’hanno vissuta] è caratterizzata da una osservanza rigida di ciò che è stato sancito nel passato o da una assenza di incontro vivo nel presente. La concezione morale che ne deriva viene fuori ovviamente come precettistica analitica; tendono ad essere escluse la categorie della gradualità e della storicità. Nel cristianesimo inteso come fatto vivo e presente, viene prima l’incontro e poi la morale, viene prima la concretezza del vivere e poi la legge, che è guida per comprendere la realtà, altrimenti è tutto un cappio alla gola”. Tutto questo mi piacerebbe dettagliarlo ancora (quanti minuti ho? Due minuti? Impossibile, almeno otto!). Comunque, c’è una frase che Mariella mi ha giustamente rubato, che era straordinaria, quella sul pagano, il moralista e il cristiano. E ce ne sono altre che fanno capire che cosa aveva scoperto Giovanni in rapporto alla sua problematica, incontrando il cristianesimo secondo quell’accento, effettivamente incontrandolo e non soltanto ricevendolo per una via meno vitale, tradizionalistica. Cosa aveva scoperto? Aveva scoperto che il cristianesimo era l’unico che salvava il particolare e c’è una frase: “L’unica realtà che storicamente abbia promesso all’uomo la salvezza, dicendogli che tutto della sua umanità sarebbe stato convogliato a questo scopo, qualunque malvagità e qualunque debolezza, l’unica realtà che ha introdotto nella storia la possibilità della trasformazione di tutto ciò che è nell’uomo, è il cristianesimo. Nelle ideologie e in tutte le compagnie umane ti è richiesta, per aderire, una censura, così come sei non va bene”.
Spesso chi leggerà il libro si accorgerà di trovare la problematica dello studio. Giovanni era combattuto tra lo studio e il tempo dedicato ad altro. Lo si vede perché era un appassionato dello studio, si capisce anche dalla finezza linguistica con cui si esprime: per avere questa finezza, bisogna nascere in una famiglia acculturata oppure studiare molto, leggere molti libri, altrimenti non si arriva a forgiare lo strumento della parola con questa raffinatezza. E ci sono tante frasi in cui le cose sono sentite, avvertite, in una sorta di opposizione: ma è bene che io studi o è bene che io faccia altro, mi dedichi ad altro? Perché, come tutti quelli che hanno incontrato il Movimento, aveva fatto l’esperienza di una vita che si moltiplica, si intensifica: spesso si arriva alla sera pensando che non sia possibile fare così tante cose in una giornata sola. E lui ha fatto questa esperienza, e ogni volta che riprende i termini di questo dissidio, di questo dilemma, arriva a questa scoperta: un centro che unifica tutto, un incontro che salva ogni particolare. Mi spiace di non aver segnato il numero in cui dice bene tutto questo rispetto allo studio, ma perderei del tempo se adesso mi mettessi a cercarlo. Volevo fare un passo in più in questa ottica: il cristianesimo salva ogni particolare, salva tutto, tutto diventa segno, tutto diventa perseguibile, praticabile, amabile, fruibile. Tutto, per esempio la prima citazione che dice questo è a pagina 18, anche con una espressione molto bella: “Ma se la possibilità di familiarizzare con il significato del tutto non c’è, come vivere? L’uomo forte è colui che dopo qualsiasi avversità, ritornando in se stesso, riconosce un senso che avvolge quella vicenda. Se io, dopo che qualsiasi cosa mi sia accaduta, ritornando in me stesso non ho la capacità di dire con verità “io appartengo”, e in questo pronunciamento trovare la mia pace o per lo meno intravederla, ancora sono un immaturo. La mia possibilità della maturità è legata alla esistenza del segno e dello strumento che veicola un senso oggettivo, per il rapporto con questo presente che veicola il senso, si può vivere tutto come segno”.
Pagina 45: “La cattolicità si contraddistingue in questo: che la realtà è in se stessa, nella sua ricchezza, lo strumento usato dall’essere per comunicarsi, perciò il cattolico è estroverso perché tutto è significativo”. Il cattolico è estroverso non per temperamento, perché si può essere anche corrucciati come temperamento, lui era un riflessivo, non si sarebbe detto che fosse un estroverso, ma era un estroverso in questo senso. Il cattolico è un estroverso perché tutto è significativo, cioè tutto è segno, tutto è costruibile, tutto è amabile, in un certo senso adorabile, perché tutto è pieno di quella profondità di mistero: tutto è segno, la realtà è tutta segno. Oppure, a pagina 42, quando oppone il gusto al nichilismo: “Il nichilismo è la realtà che non dice nulla, il gusto è la realtà sensibile come strumento, come apertura, come rivelatrice di nuove possibilità, cioè come segno”. Oppure, pagina 66, una applicazione del riconoscimento della realtà come segno, molto bella per come Giovanni ha lavorato rispetto all’incontro stesso. Dice: “Una realtà si rivela nella sua azione. L’abbaiare rivela il cane; un libro rivela che c’è dietro un uomo; ma se io non interrompo il rapporto come realtà [il rapporto con la realtà, riconoscendola come segno], cosa succede? [passaggio successivo] Una amicizia senza interessi, come non si trova neanche tra sposi, rivela qualcosa di superumano”. L’abbaiare rivela il cane, una amicizia gratuita, come non esiste neanche fra marito e moglie, rivela qualcosa di superumano, è segno.
Salto tutto il resto e chiudo perché il mio non vuole essere il tentativo di sistematizzare ciò che non è sistematizzabile ma una rubrica: raggruppare, sotto alcune parole, molte espressioni felici, efficaci. Avendo già approfittato molto della vostra pazienza e del tempo a mia disposizione, voglio allora ripetere la frase che dà il titolo al libro, ma voglio commentarla questa volta direttamente con parole che non sono mie. Anche quelle precedenti non erano mie, perché nessuno è inventore del proprio linguaggio. Di quel che dico sono debitore, parola per parola, ad un altro, perciò certamente anche le parole precedenti non erano mie e le ho usate come mie. Le ho usate come mie, erano in parte di Giovanni e in parte di quella esperienza che ha accomunato e accomuna Giovanni e me. Siamo tutti debitori ad uno stesso maestro, ci siamo tutti abbeverati ad una stessa fonte che poi si è via via arricchita con tante cose, ma nella sua parte principale è quella, identica. Volevo usare le parole della fonte, quando Giussani commenta la frase che subito lo colpì, con la quale volle intitolare non solo gli esercizi che si fecero a Pasqua, un mese e mezzo dopo la morte di Giovanni, ma anche gli esercizi del dicembre successivo, gli esercizi spirituali degli universitari: “Si prospettano giorni felici perché ho chiesto al Signore di poterlo servire”. Come Giussani commenta questa frase? “Pochi mesi prima di morire, Giovanni scriveva: si prospettano giorni felici perché ho chiesto al Signore di poterlo servire. Non giorni felici perché aveva finito l’università, in un modo brillante, non perché era una delle persone più affascinanti e più impressiva di tutta quanta la compagnia, non perché avesse realmente davanti una prospettiva ricca e umanamente tutta positiva, non perché avesse una bellissima ragazza come fidanzata. Si prospettano giorni felici perché ho chiesto al Signore di poterlo servire. In questo momento, cielo e terra, passato e futuro nostro rendono denso l’istante che viviamo perché di fronte a questa verità noi siamo normalmente come svuotati, siamo così lontani da questa verità, che è lo scopo di tutto ciò che c’è, lo scopo della terra che calpestiamo, del momento che passa, della prospettiva, del progetto che anima e dà corpo e forma alla nostra personalità. Il pensiero e l’amore hanno un solo scopo: il mio pensiero e il tuo pensiero, il mio amore e il tuo amore, l’amore di qualsiasi uomo e il pensiero di qualsiasi uomo, hanno un solo scopo: servire il Signore”.

CAMILLO FORNASIERI:
Grazie davvero per la chiarezza e la partecipazione personale di Mariella e di Carmine. Non resta che non fermarsi a quello che abbiamo intuito ma leggerlo, perché è un testo, sono delle parole che sono un suggerimento intero alla vita. Anche io voglio, proprio sinteticamente, sostenere le parole di questo invito con quello che diceva don Giussani all’assemblea fatta il mese successivo a Napoli, con gli amici di Napoli. “I filosofi dicono che un essere è là dove agisce [lo riprendeva già Giovanni Calzone nella frase che ha letto prima Di Martino]. Uno è là dove agisce, dove c’è un’azione, allora vuol dire che c’è un soggetto. Allora sarà la loro presenza, quella di Giovanni e quella di Massimo Conciada, che morì con lui nell’incidente stradale, sarà la loro presenza a rendersi sperimentabile da noi per il fuoco nuovo che continuamente rimetterà nel nostro cuore”. Questo è l’infinito vissuto da un ragazzo che così diventa un nostro compagno, con quella forza di chiarezza del nostro presente di ora, non di un ricordo, “per istituire quella lotta [come diceva ancora in quella assemblea don Giussani] nella nostra vita che deve essere contro quel quotidiano che tenta di sgranare, svuotare e che ci rende abitudinari”. E’ l’invito che ci viene da questo libro e che ci fa comprendere con questa offerta il titolo del Meeting. Grazie a tutti. Invito chi vuole a fermarsi ad un momento straordinario di accoglienza e dialogo con Wahid Pallavicini, che viene da tanti anni al Meeting e ha un breve intervento da suggerirci. Grazie.

Data

20 Agosto 2012

Ora

15:00

Edizione

2012

Luogo

eni Caffè Letterario D5
Categoria
Testi & Contesti