IN CHE VERSO VA LA VITA

Partecipano: Samuele Donati, Poeta; Gianfranco Lauretano, Poeta e Scrittore. Introduce Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.

 

IN CHE VERSO VA LA VITA
Ore: 19.00 Sala Tiglio A6
Partecipano: Samuele Donati, Poeta; Gianfranco Lauretano, Poeta e Scrittore. Introduce Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.

DAVIDE RONDONI:
Allora, buonasera e ben trovati. Siamo qui per questo primo appuntamento di tre, di questo piccolo enclave dedicato alla poesia dal Meeting di quest’anno. E saranno tre incontri che vogliono essere semplicemente degli incontri con voci di poesie contemporanee, alcune più esperte, alcune invece che iniziano la navigazione nel grande mare della poesia. E se al Meeting si fa, non solo in questa sede, ci saranno anche altri incontri, come avete visto nel programma, dedicati all’arte, alla letteratura e alla poesia, è perché l’arte, non solo la poesia, come diceva anche oggi nel suo bellissimo incontro il maestro Lev Dodin, “l’arte è quell’ambito dell’espressione umana, dell’esperienza umana in cui l’emergenza uomo è sempre sotto tiro, è sempre espressa”. Nel senso che può capitare che altri linguaggi, altre espressioni, altre esperienze – la politica, l’economia, la sociologia, la filosofia – si distraggono dalla vera emergenza della vita umana o non trovino le parole per dirla, mentre invece la materia stessa della poesia, dell’arte in genere, è l’emergenza dell’umano. Per cui troviamo che, in tutte le epoche, sotto tutte le latitudini, sotto tutti i tipi di governo o di religione, gli artisti richiamano il fatto che l’uomo vive in sé un’emergenza. Infatti, gli artisti non si sentono mai in salvo, nessun artista si sente salvo, fuori dal rischio di un’emergenza che riguarda la sua propria umanità e quello che la propria umanità, esprimendosi, può dire anche dell’umanità degli altri. Per questo l’attenzione che il Meeting offre alla poesia non è strumentale, non è particolare – siccome c’è tutto, ci sta anche la poesia – perché la poesia è sempre stata nella storia dell’umanità questa voce, questo tipo di lingua apparentemente incomprensibile, perché parla di ciò che è più comune, di ciò che è più profondo, di ciò che è più proprio dell’uomo.
Non è un caso, mi ricordo che, anni fa, don Giussani ci diceva: “Lo scopo del movimento è fare poesia”, dove evidentemente non si riferiva alla forma letteraria della poesia ma al fatto che ci possa essere nello spazio umano, nel dialogo, nel colloquio delle tante lingue con cui l’uomo prova a dire la vita, uno spazio in cui la vita venga detta nella dimensione giusta, con la lingua giusta, che è la lingua appunto della poesia e dell’arte. In questi appuntamenti, ho invitato alcuni poeti e amici che stimo, molto diversi tra loro per storia, per stile, per esperienza, abbinando sempre un poeta già più maturo a un poeta invece più agli inizi, non tanto per far vedere differenze di qualità ma per far vedere che c’è una storia, che c’è un proseguire, che c’è un avvicendarsi di voci che si passano anche il testimone e proseguono.
Oggi cominciamo con Samuele Donati, alla mia sinistra, che molti conoscono già perché gioca in casa, è di Rimini, ha una biografia di tre righe che leggerò. Dice che è nato a Cattolica, quindi non lontano da qui, nel 1985, è laureato in Lettere moderne all’università di Bologna e lavora a Rimini come fundraiser, è operatore di progetti di occupazione giovanile. Ha pubblicato da poco, è qui per questo, la prima raccolta di poesie che ho avuto l’onore di prefare. La raccolta, che credo possiate trovare anche fuori, si chiama Non essere soli ed è pubblicata da un meritorio editore, anche lui di Rimini, ma importantissimo per la poesia italiana e internazionale, che si chiama Raffaelli. Credo che sia anche qua in sala, nascosto, o è stato lasciato fuori così impara a fare tardi. Sul tavolo fuori trovate i libri di Samuele, e penso anche altri.

SAMUELE DONATI:
Comunque, pensa che se non scrivevo che facevo il fundraiser, era di una riga e mezzo.
DAVIDE RONDONI:
Eh, esatto, ci hai messo una parola più lunga. Sul tavolino, fra l’altro, trovate anche cose della fondazione Claudi, con cui si fanno tante cose di poesia durante l’anno e se qualcuno di voi è interessato a cose di poesie, atelier che facciamo, altre cose, si può rivolgere alla fondazione oppure alla rivista ClanDestino che con l’amico Lauretano abbiamo fondato e continua a vivere. Gianfranco Lauretano invece è uno dei poeti italiani più importanti, è nato nel ’62 e vive e lavora a Cesena. Ha pubblicato tante cose in poesia, ne cito alcune: La quarta lettera è il suo primo libro dell’ 87, poi ha pubblicato Occorreva che nascessi, in una collana che dirigo per Marietti. Poi, recentemente, ha pubblicato un racconto in versi dove racconta la Riviera, sempre per Raffaelli e altri due libretti dove sta facendo dei lavori in corso, anche in preparazione della raccolta più grossa che uscirà prossimamente, uno pubblicato dalla Chiarafonte, un bellissimo editore di Lugano, e si chiama Questo spentoevo sta finendo. E poi ha recentemente pubblicato, lo voglio far vedere, è qua, un bellissimo libro che, per la prima volta in Italia, fa una biografia raccontata di Clemente Rebora, un grandissimo poeta che sta finalmente, anche se faticosamente, ricevendo il riconoscimento che merita. Abbiamo voluto dedicare un viaggio alla scoperta della poesia dei luoghi di Rebora che Gianfranco ha fatto, ne ha già fatto uno su Pavese e quest’altro su Rebora, altrettanto bello. Dirige con me, come detto, la rivista ClanDestino, ha partecipato a varie avventure editoriali che non vi racconto e dirige anche una rivista di arte e letteratura che si chiama Grafie, di Cesena.
Per introdurli, leggo una mia poesiola inedita che è nata intorno ad una espressione con la quale do la parola a loro, che poi hanno una mezz’oretta di tempo, parlano, leggono, fanno quello che vogliono. E’ una poesiola nata su un’espressione che ho trovato dovendo preparare uno strano libro sull’amore che sto per pubblicare. Mi ero messo a studiare una cosa molto complicata, molto difficile, molto affascinante che è la storia dei trovatori d’amore e la lirica cortese: c’è un bellissimo libro sui fedeli d’amore, chi ha studiato un po’ di cose letterarie sa a cosa mi riferisco, dove ad un certo punto c’è la lettera di un tizio che si rivolge ad un re e chiede protezione per i trovatori. La storia è complicata, c’è di mezzo anche l’eresia oltre alla poesia d’amore, ma insomma è una cosa molto affascinante. In questa lettera, quest’uomo che si rivolge al re chiedendo la protezione speciale per i trovatori li chiama i “chiarificatori dell’universo”: questa espressione mi è sembrata molto bella, perché i poeti, anche se sono persone oscure, sono dei chiarificatori dell’universo. E poi c’è un’altra espressione con cui è partita questa poesia, dove poi naturalmente, come in tutte le poesie, è saltata altra roba dentro che invece è un’espressione usata poco tempo fa all’Atelier delle arti che ho fatto con un po’ di ragazzi quest’estate, da uno scrittore invitato, un romanziere, un narratore molto bravo che si chiama Vincenzo Pardini. Lui ad un certo punto mi ha detto: “Ho conosciuto tanti scrittori e sono tutti suonati, ma suonati dalle parole”. La poesia dice così, poi lascio la parola a Sammy per la sua lettura e performance: “Li vedi? Sono suonati. Si incantano deviano dai discorsi, come pugili suonati, ma dalle parole che colpiscono, colpiscono. Con i suoni e tutte le cose dentro, i viaggi millenari tra mormorii e carte, le ripetizioni sulle labbra morte, le inizianti, le erbe balbettanti e le stelle che si incendiano in mente. Stanno seduti ai tavolini lavorano la materia generale e sopraffatti da cose invisibili muoiono di tenerezza per tutte le visibili, la tempesta e l’ultimo chiarore tra i capelli. Non sono mai veramente belli, chiarificatori dell’universo, chiusi in una dura oscurità ordinano da bere l’anima sulla bocca. I sapori passano prima delle parole, dei colpi, dei tuoni che stordiscono la mente anche in lontananza. Se si alzano, non è per rientrare in una stanza ma aprono la porta del loro inferno e dalle vetrate si vede il mare”.

SAMUELE DONATI:
Visto che tu leggi una tua poesia prima di me, quindi segni un livello, io prima di riabbassarlo devo andare per gradi, allora ti cito di nuovo, così mi viene più facile, nel senso che pensando a cosa dire ho pensato che la cosa più giusta fosse parlare della mia esperienza di poesia e leggere qualcosa di mio, magari introducendolo. Visto che non sono né professore, come Gianfranco, né poeta affermato come Davide, è bene che parli di me, no? Però, parlando di me, come spesso succede devo partire dall’incontro con qualcuno. Allora, il modo migliore che ho trovato per descrivere che cosa sia la poesia per me, è l’inizio di una poesia di Davide che dice: “Voler bene ad una persona è un lungo viaggio”. Voler bene ad una persona è un lungo viaggio: è il grande inizio della poesia ed è il grande inizio di tutte le poesie, perché mettersi a scrivere poesie, se no? Io ho pubblicato questo mio primo libro quest’anno, pochi mesi fa, ed è la raccolta delle poesie di una vita, vita ancora breve ma per me tutta intera. Ad un certo punto, si raccolgono e ci si accorge, almeno per me è stato così, che la poesia è stata compagna di viaggio di questi anni e strumento privilegiato per capire. Cos’è la poesia, se non lo strumento privilegiato per capire la vita, per riguardare fino in fondo, come in uno specchio d’acqua, la propria esperienza? Allora, questo lungo viaggio che è il voler bene e ogni vita non è altro che un lungo voler bene, per me ha come strumento privilegiato, come gli scarponi per il camminatore, la poesia. Anche perché la poesia, quando tutti iniziano a scrivere, perché succede a tutti o quasi, da adolescenti, di buttare lì qualche verso, è se non altro la prima che ti dice delle cose. Ti accorgi che, quando scrivi quei versi abbozzati alla ragazza di cui ti sei innamorato, la poesia è la prima che ti mette l’idea che tu non stai parlando con lei ma stai parlando con Dio. Perché questo è, no? Nella poesia c’è come questa eco, questa moltiplicazione, questo riverbero costante per cui tu parli di lei e, se guardi quello che hai scritto, non stai più parlando di lei già dopo due righe. La poesia è la prima che ha il coraggio di dirti questa cosa, che è una cosa grande: c’è gente che vive una vita, aspettano che qualcuno gli dica questo. C’è che tu parli di lei ma stai parlando di Dio.
E il mio libro inizia con delle righe così, come una nostalgia:
“Aspettavo lungamente, la mattina
che rivelassi il colore dei miei occhi
come si aggiusta, ridendo,
il bavero ad un perso.
Adesso
ogni dettaglio grida la sua luce
e le iridi cucite tra le palpebre
– dove sei, chiedono
per essere blu, viola
forse solo
per essere, ancora”.
Il mio libro comincia in quest’attesa, che è l’attesa in cui comincia ogni viaggio di una vita. E da qui parte per tutte le direzioni possibili e immaginabili in cui una vita può andare. E la poesia le va dietro: per me l’esperienza della poesia è questo, ogni direzione che si prende, la poesia va dietro. A volte segue, a volte cerca di precedere e però è sempre una chiave di lettura, un mettere a fuoco. Il ciclo di incontri si chiama “In che verso va la vita”: evidentemente, il verso poetico, il poeta deve sempre rischiare sulla parola. Allora, il rischiare sulla parola vuol dire rischiare sui suoi contrari, sui suoi sinonimi e il verso è anche il senso, no? Il verso è il senso e i sinonimi sono rischiosi perché il poeta, andando dentro la parola, scopre che i sinonimi non esistono, e del resto è l’unico che si può prendere questo rischio. Allora la seconda poesia che vi leggo è sulla mia città, Rimini, una città che è sempre alla ricerca affannata e perenne del suo senso, cioè del suo verso. E non lo trova mai, no? E su questo fa di tutto, Rimini si scapicolla, sale sulla ruota, va dal mare alla collina e continua a cercare il suo senso, cioè il suo verso. E io da riminese non faccio eccezione.
“Città mia, dell’arco e del ponte,
non c’è giacca, o lembo
sul tremito del corpo fermo
che caschi come una benedizione,
e servirebbe, invece,
nell’inverno abituato
ad animarsi per contrasto,
servirebbe, contrappunto
di irrisolto amore.
Basterebbe
un gesto
con un senso
tra i molluschi del giorno fatto
e gli spari della riviera,
lo scricco di un esagitato
dagli occhi circonfusi
che cercasse un padre
come qui, da sempre
si cerca una straniera,
a trovarla si aggiunge una tacca,
e poi si cerca ancora
(meno biacca, stavolta)
Questo basterebbe,
perché cos’è
la salvezza-
-è una sera di infedeltà
alla dannazione,
mettere corna al diavolo,
scherzo troppo bello
per non farlo da Bellaria a Riccione.
Riiniziare, Rimini,
così
a mietere dai vicoli il tuo canto,
incocalirti sul tip-tap degli scemi,
– quattro che siano, o dieci –
e sfiancarti
di brividi a comando…”.
La poesia è questo rischio che bisogna prendersi per andare a prendersi quel senso, il verso come ricerca del senso. E ci sono delle questioni che quindi non si possono saltare, non perché siano grandi temi etici o grandi temi filosofico-morali, che quindi chi si mette nell’avventura della scrittura non può non affrontare, ma perché sono i punti in cui la vita più chiama, no? Davide ha scritto nella prefazione al mio libro che io sono un poeta filosofico, inizia così, e un po’ spaventa, ha spaventato anche me quando l’ho letto. Però capisco che è questa la questione, questo stare intorno come un‘ostrica, presente come nasce un’ostrica? Da un granello di sabbia che si infila dentro, intruso, e lei, per difendersi, gli costruisce intorno tutto il suo senso. Quindi, nasce da qualcosa che invade, che intrude, dentro. E quindi chi vive con lo strumento, con la poesia come compagna di viaggio, si accorge ad un certo punto che delle cose intrudono, e una di queste è l’esperienza della morte, o meglio, l’esperienza del dolore. Io leggo, non spiego, arrivo al limitare e poi leggo, ma perché è gioco forza dire quello che si pensa, con quello che si è scritto. Questa è una poesia che ho scritto per una grande amica che è morta in una circostanza tragica. E quando leggo, mi accorgo che non è chiarissima, il senso non è immediato. Credo che da un lato sia perché tutto quello che ti tocca nel profondo spesso è torbido, per cui a rimestare lì non sai cosa viene fuori. E poi perché, appunto, la parola che va verso la sua verità diventa più grande, a volte, difficile da codificare anche per chi la scrive. E questa mia amica non era una come tutte le altre, era chiaro quando viveva ed è stato ancora più chiaro quando è morta, che lei era altro: Sulla punta.
“Parola incrociata, parola
Il capo che non è
E una dolcissima notte di disperazioni
Parola urlante,
da schiodare parola
Ti cerco a tastoni nello scempio
come uno attardato a dissalare
per colmo di amore
o cosa, orrore forse,
mentre la luce ingenera boati,
molti
irriconoscibili strati
Ma perché di un qualche misunderstanding
e del sangue, troppo,
tra i seni,
hai pensato di doverti scusare:
che quando vivevi,
il tuo nome
voleva dire,
ora dice
senza volere,
un’altra cosa”.
E allo stesso modo, il dolore come esperienza diretta si incontra anche negli occhi delle persone a cui vuoi bene. E se da un lato non è diverso, perché quando ami veramente il dolore di chi ami è come il tuo, dall’altro qualcosa ti è risparmiato di quel dolore. E te ne accorgi. E quindi c’è come un distacco, per cui ad esempio la poesia si chiarifica e però la domanda resta sempre la stessa: perché? Perché il dolore non smette di farti domandare. Questa l’ho scritta per un amico, quando è morta la sua mamma e appunto il suo dolore mi interrogava come se fosse il mio. E la domanda “come si sta davanti alla morte?” è la stessa.
“Se si abbracciano la morte e la vita
nel charleston sghembo
con un angolo troppo acuto
per stare in piedi
sulla pista spezzata di un mocambo,
il capo dell’amico sul mio grembo
non posa come sembra
è un fosso
che brulica di tenebra,
un bossolo di pena,
falso grido in decelerazione,
e il mio silenzio lo accoglie,
ma invidia il mare,
che alla discrezione funebre e al rito
preferisce cianciare di gabbiani
e di infinito”.
Scusate, non è facile. Io sarei anche un patacca, non sono così serio sempre, e Davide lo sa. Però quando si legge di sé, la scrittura è un’esperienza reale, non è giustapposta alla vita. La poesia è come la crosta, sembra una cosa diversa dalla pelle, ma se la togli ti accorgi che è pelle, no? Ti fa male, ti fa sanguinare, quindi leggere, dire di sé è come strapparsi dei pezzi di carne. E quindi non è mai semplice. Non lo è l’esperienza della scrittura e non lo è l’esperienza della lettura. Quest’altra poesia l’ho scritta quando era piccolo mio nipote, il figlio di mia sorella, Elia. Anche qua, lo stupore di qualcosa che c’è e non c’era, totalmente dipendente e in questo totalmente uomo. Non so se vi è mai capitato di invidiare, invidiare sembra brutto, di desiderare tra voi lo sguardo di un bambino. Perché è totalmente consapevole di quella totale dipendenza, non intimorito da quella dipendenza ma anzi, proteso, no? La dipendenza a cui io mi ribello, pur essendo la cosa più importante della mia vita. E vedere Elia guardare con quegli occhi, quegli occhi di pochi mesi, mia sorella, mi faceva capire il segreto di tutto e desiderare per lui cose grandi e ringraziarlo perché mi faceva desiderare cose grandi per me. A Elia.
“Carne della mia lontana carne,
pulpito minore,
il centro sei della stanza e
non lo dici, non lo
porti, non hai occhi
se non per ridarli a chi li chiede.
Ora che
ogni parola suona incompresa
ora che tutto
intorno è cautela
ti importa soltanto
di quel che si svela,
impari
cos’è
bruciare d’attesa…
(non pensar male se parlo
e ti chiedo conto
di un gesto inconsulto
-latte? carezze?-
con cui,
in realtà,
chiedi tutto)
Mi scosto. La mamma
su te piegata
è verità e via,
ciascuna rilegata.
Elia,
così, semplicemente,
meriti il mistero,
la nostalgia
che ti consumerà d’amore
altero…
(dormi,
le guance piagate
da sonno e desiderio)
E allora.
Ti inciampino
gli angeli sul capo,
gli amici veri
ingombrino il passaggio,
e quando una donna si scorderà di te
e sarai tentato
di dirti poca cosa,
tu sappia da sempre
che la parte si assegna alla fine,
ma il posto è già fissato
e altra è la tua sposa”.
Grazie! Questa chiama l’applauso, l’ho già visto, infatti l’ho messa anche per questo. Perché non so come funziona, andrebbero studiate.

DAVIDE RONDONI:
E’ un pubblico di mamme.

SAMUELE DONATI:
Ah, forse è questo, allora me lo annoto. Quasi finendo, volevo rischiare e chiamare in causa due poeti grossi, sto rischiando molto perché alzo il livello, però dentro questo viaggio ho capito una cosa. Perché appunto la poesia serve a capire. Ho capito che voler bene ad una persona è quel voler bene per cui si incomincia il lungo viaggio. Ma la prima persona con cui sono in dialogo e a cui ho la necessità di voler bene sono io: e mi ha sempre colpito molto la dimensione del dialogo con se stessi, con il proprio cuore che la poesia impone, o meglio, da cui la poesia scaturisce ma che poi impone, perché diventa qualcosa di appassionante per la vita. Allora, ci sono due grandi poeti, che sono Wisława Szymborska e Mario Luzi, che hanno scritto due poesie in cui chiamano il proprio cuore, tirano proprio fuori il vocativo e dicono “cuore”. Non solo i soli, sono in tanti, però mi hanno colpito anche per averli riletti ultimamente. Vi volevo leggere queste due poesie in cui loro parlano al proprio cuore, in cui sono in dialogo con se stessi e in dialogo attento e inesorabile perché la poesia prevede che non ci si faccia sconti. La poesia non serve per girare intorno alle questioni, è un’essenzialità che ha questa connotazione di inesorabilità. E allora ve le leggo e poi vi leggo l’ultima poesia mia, quindi rischio. Vi leggo loro ma non finisco così, ne leggo una mia e quindi mi metto nelle pesche. Allora la prima è quella di Luzi. No, anzi, prima l’ultima poesia mia, si chiama Periplo sul Golgota innevato e l’ho scritta pensando che Gesù era un uomo, sognando che sul Golgota ci fosse la neve. E dentro questo scena abbastanza assurda e inedita, ho pensato però che la cosa più assurda, più inaudita è che Dio si possa essere fatto uomo e che quindi la sua sofferenza sia stata totale, cioè il dono di sé sia stato totale, tanto che anche lui per un attimo ha detto: “Passi da me questo calice”.
“Periplo sul Golgota
innevato,
mio pensare
inconcepibile naviglio
Vedo le cime
e vedo le tre croci
i corpi angelicati
e nudi
sono rami
Rami liquefatti
in triste dono
ecco, io tolgo
i peccati
li tolgo
Ma come voi
vorrei lasciarli
sotto tanta neve
Cade
Perché
cade
sul Golgota
innevato”.
Questa è di Luzi.
“Di che è mancanza questa mancanza,
cuore,
che a un tratto ne
sei pieno?
di che?
Rotta la diga
t’inonda e ti sommerge
la piena della tua indigenza…
Viene,
forse viene,
da oltre te
un richiamo
che ora perché agonizzi non ascolti.
Ma c’è, ne custodisce
forza e canto
la musica perpetua ritornerà.
Sii calmo”.
E mi ricordo la prima volta che l’ho ascoltata, era un periodo molto doloroso e ho pensato: “Calmo un cazzo!”. E invece è di una statura che, pur usando quel “sii calmo” che oggettivamente ti viene da dire “no!”, non è questo. Il cuore è inquietudine eppure è di una portata tale che ti muove. La poesia muove e invece la Szymborska dice:
“Ti ringrazio, cuore mio:
non ciondoli, ti dai da fare
senza lusinghe, senza premio,
per innata diligenza.
Hai settanta meriti al minuto.
Ogni tua sistole
è come spingere una barca
in mare aperto
per un viaggio intorno al mondo.
Ti ringrazio, cuore mio:
volta per volta
mi estrai dal tutto,
separata anche nel sonno.
Badi che sognando non trapassi in quel volo,
nel volo
per cui non occorrono le ali.
Ti ringrazio, cuore mio:
mi sono svegliata di nuovo
e benché sia domenica,
giorno di riposo,
sotto le costole
continua il solito viavai prefestivo”.
E vi leggo l’ultima mia e con questa finisco, perché questa cosa del cuore, questa cosa del fatto che la poesia fa dialogare con il proprio cuore, introduce la vera questione di fondo, cioè che ogni poesia di fatto è una poesia d’amore. E allora, pensavo ultimamente che c’è una cosa che ha detto Borges di Dante: “Dante ha costruito tutta la Commedia, tutti i dannati, tutto il purgatorio, santi, beati, angeli, serafini, tutto questo per incontrare Beatrice”. E ho pensato: ma c’era bisogno? Bastava anche meno, due patatine, uno spritzzettino! Perché devi costruire tutta la Divina Commedia per incontrare Beatrice? Perché la tua prima esigenza è che Beatrice sia lassù. Io adoro Borges ci ho fatto anche la tesi ma non è sufficiente: la prima esigenza è che Beatrice sia lassù e questo è un punto fermo. E allora, una volta che quello è un punto fermo, tu per arrivare a lei devi fare la Divina Commedia, non puoi fare di meno, perché se la mettevi al Cocoricò ci mettevi di meno ad arrivarci, bastava Isabella Santacroce. E invece hai dovuto scrivere la Divina Commedia. Perché l’hai messa lì! Allora la poesia viene dopo una affermazione di bene totale, è il profondersi di questo amore che hai deciso. Dopo aver detto tutte queste cose, ho scritto questa poesia perché io aspetto sempre, per me il desiderio, l’innamoramento è un’attesa. E qui c’è nascosta una storia concreta ma quello che voglio dire è che c’è dentro un grande desiderio, una grande affermazione d’amore che viene prima della poesia e che comporta anche il sacrificio, la sofferenza e comunque un’attesa. Si chiama Al mercato.
“Esistono cuori a cipolla
che lentamente si spogliano
del vago e si avvitano
alle dita per saperle,
confondersi alle lacrime.
Il cuore a carciofo ha un’anima
di guerra, passa la vita
a conoscere il nemico,
la sua armatura brunita è masticata
per permettere al cuore di scappare.
Quello a limone spaventa i protoamanti,
esatto come è nelle allusioni,
quando si spremono il cuore nella sera
e il silenzio fa cerchi nel bicchiere.
Ma nel mio cuore di melagrana
cento miracoli di San Gennaro
dentro cento gocce di splendore
hanno serrato i pugni come bimbi
e adesso attendono di te il coltello
per sanguinare in minimi rintocchi,
e sciogliersi di nuovo nella sera,
nessuno è come il mio perché nessuno
sa di aspettarti
alla fine della fiera”.
Grazie.

DAVIDE RONDONI:
Grazie, Samuele, grazie alla sua lettura. Su Borges e Dante discuteremo un’altra volta ma su Beatrice al Cocoricò e in paradiso. Solo che non sono d’accordo con quello che hai detto ma discuteremo un’altra volta. E invece introduco Gianfranco, solo dicendo che è uno dei poeti più importanti e anche più singolari in Italia, perché ha una voce netta e profonda dalle chiare ascendenze russe, anche perché lui ha studiato bene la letteratura russa, in particolare ha approfondito i poeti di un movimento che si chiamava Acmeismo, che aveva una funzione anche polemica rispetto alle fughe o a volte anche alle vaghezze simboliste di tanta poesia europea, parigina e anche italiana. Per questo c’è una radice che connota la voce di Gianfranco come immediatamente riconoscibile rispetto a tanti stili più o meno analoghi. Come dicevo prima, è anche un vecchio amico. La prima volta che ci vedemmo fu a un circolino di poesia fatta a Forlì, che è la mia città: si chiamava Il piacere, con vaghissimi echi dannunziani e la comitiva era tutt’altro che splendida. La vita della poesia è fatta anche di circoli strani, di gente bizzarra, dentro cui si celano delle perle come quella sera in cui, mi ricordo, c’era il presunto animatore che era un simpatico medico che amava la poesia e ne scriveva. Portò come ospite eccellente della serata una, secondo lui, bellissima ragazza di Cesena, se non sbaglio molto, molto poetessa, cioè un po’ esangue, un po’ pallida. Doveva essere la star poetica della serata, iniziò a leggere e svenne. Oddio. Per cui, questo circolo di sfigati non sapeva che cazzo fare. E adesso, con la poetessa svenuta, che cosa facciamo? E mentre soccorrevo la ragazza, io e Gianfranco ci siamo conosciuti. Abbiamo cominciato a dire: “come sei capitato qua, come sei capitato tu” e dopo abbiamo capito che potevamo non limitarci al circolo del piacere. Comunque, sono contento che sei qui, è un amico fraterno e lo ascolto molto volentieri.

GIANFRANCO LAURETANO:
Grazie. Sì, mi ricordavo. L’anno scorso abbiamo fatto qui al Meeting un incontro molto bello, con un poeta spagnolo, uno francese e due italiani. E ho iniziato a dire delle cose che si sono precisate quest’anno. Ho anche fatto esperienza della potenza del Meeting perché mi sono arrivate diverse e-mail da mezzo mondo per cui ho capito che c’è molta gente al Meeting e molta di più in giro a vedere queste cose. Avevo parlato del poeta di cui vi parlo stasera, che è Rebora. Nel frattempo ho scritto questo libro che Davide prima vi ha detto, che è fresco, ha ancora il profumo della tipografia, è appena uscito. Durante l’autunno e l’inverno sono andato a visitare i luoghi di Rebora, ho letto tutto quello che sono riuscito a trovare di Rebora e ho raccontato in modo molto semplice la sua storia, leggendo e commentando anche molte sue poesie. Questa è la seconda puntata dell’incontro dell’anno scorso: la cosa che avevo detto si è precisata molto bene e vorrei tornarci sopra. Quello che hanno detto Davide e Samuele riguarda la minoranza dei poeti italiani, che siano chiarificatori dell’universo, secondo la bella poesia di Davide, oppure che la poesia serva a capire meglio la vita, come ha detto Samuele. E’ una posizione minoritaria della poesia italiana ma anche di Clemente Rebora,. Perché invece la posizione maggioritaria è il contrario: è l’universo che chiarisce la poesia, oppure è la vita che in molti poeti è al servizio dell’opera d’arte. Il senso del fare, il senso del lavoro di gran parte dei poeti, qual è? E’ fare poesia. Mentre per Rebora – e vedo anche per qualcun altro – è il contrario. Non c’è prima l’Io che fa poesia, c’è prima il mondo, c’è prima l’universo, c’è l’essere. L’anno scorso citavo anche un poeta russo, Osip Mandel’stam che dice proprio questa cosa, così: “Amare l’essere delle cose più delle cose stesse”. Il fatto che le cose ci siano – prima si è parlato d’amore -, il fatto stesso che le cose ci siano è il punto di partenza. “Io scrivo perché ci sono le cose” direbbe anche Rebora. Non il contrario. Le cose esistono solo perché io le ho scritte, le ho dette, le ho nominate. Sembra una questione di poco conto ma è invece una questione su cui ci si divide. O di qua o di là. Giovanni Raboni, un grandissimo critico che molti voi avranno sentito e letto senz’altro, dice proprio che è la linea – questa di Rebora ma anche de La voce di Prezzolini, la rivista fiorentina in cui Rebora inizia a lavorare negli anni ’10 del ’900 – perdente. Ha vinto l’ermetismo, ha vinto lo sperimentalismo, hanno vinto gli altri “ismi” nella poesia.
E allora io invece vi racconto la storia di Rebora molto brevemente, facendo un percorso come quello di Samuele ma non sulle mie poesie, su quelle di Rebora, leggendone quattro o cinque. Perché volevo cominciare a cercare di capire insieme a voi, ancora meglio, in cosa consista questo. Mi faccio aiutare da don Giussani: ne Le mie letture c’è un capitolo dedicato a Rebora, dove Giussani dice di Rebora l’essenziale. “Onnicomprensività che cammina carica dell’ardore di desiderio”, primo punto, “si scontra con il limite (la morte) e vi scopre l’eterno: ecco, concentrati in questi tre elementi, i valori tematici fondamentali dell’espressione reboriana”. Onnicomprensività, cioè Rebora dice: “Io voglio tutto, voglio capire tutto della vita, voglio la totalità, non mi basta una parte neanche se quella parte è la poesia”. In questa ricerca incontri il limite, non ho il tutto, se non altro perché c’è la morte. Attraverso il limite, scopro l’eterno. Rebora inizia da mazziniano. E’ nato nel 1885. Ha un educazione laicista: il padre aveva combattuto con Garibaldi, odiava tutto ciò che puzzava di Dio e di religione, e quindi tirò su il figlio senza sacramenti. Non sa niente. Viene solo battezzato di nascosto perché una vecchia zia insiste. Quindi, ha un imprinting di questo tipo: mazziniano. La sua prima poesia e la sua prima raccolta escono nel 1914 grazie a Prezzolini, che è un po’ il maestro del pensiero di inizio secolo in Italia, che fa questa rivista importantissima, La Voce. Si intitola I frammenti lirici, vi leggo il primo, le primissime parole. Quando cercate un poeta, leggete sempre la prima poesia perché, anche se il poeta non vuole, la prima poesia è il proemio, ci dice l’intenzione di tutto il resto del suo lavoro. E’ il frammento 1, le prime parole, così cominciate anche un po’ a orecchiare lo stile, de I frammenti lirici, la prima raccolta, la più grossa, con 72 poesie. Poi ha fatto altre tre raccolte di una trentina di testi. E’ molto staccata dal resto perché nel ’14 c’è D’Annunzio, è appena morto Carducci, Pascoli, c’è quel clima lì in Italia. E tutti i poeti dell’epoca – pensate a Montale – devono fare i conti con D’Annunzio. Lo sentirete dallo stile. Inizia così Rebora: “L’egual vita diversa urge intorno”, incominciamo bene. La vita urge, fin qui si capisce. Uguale e diversa, subito – tecnicamente si chiama ossimoro – si mettono insieme due cose che cozzano, che non starebbero insieme. Uguale, la vita che si ripete sempre uguale, uniforme, ma diversa, piena ogni volta di qualcosa di inatteso. E poi c’è un’urgenza, c’è un’urgenza di vita intorno a lui, c’è quest’urgenza di questa vita che è una cosa e il suo contrario. “Cerco e non trovo e m’avvio nell’incessante suo moto”. Tre verbi: “cerco, non trovo e m’avvio nell’incessante suo moto”. Non lo commento tutto così, state tranquilli. E’ che all’inizio bisogna ingranare. Poi qui è difficile, la prima raccolta è difficile. “A secondarlo” questo moto “par uso o ventura, ma dentro fa paura”. C’è un mistero pauroso. “Perde, chi scruta, l’irrevocabil presente”. A concentrarsi solo sul presente, si perde. “Né i melliflui abbandoni né l’oblioso incanto dell’ora il ferreo battito concede”. Il ferreo battito della vita, del presente, non concede né melliflui abbandoni né oblioso incanto – qui sembra il Cocoricò, visto che oggi va di moda -: queste cose non le consente, il ferreo battito dell’ora. “E quando per cingerti io balzo – sirena del tempo – un morso appena e una ciocca ho di te”: il tempo come una sirena di cui non riesco ad afferrare niente, una ciocca o un morso. Sarebbe bello commentare nei particolari, vedere un po’ cosa viene fuori. Cosa vuol dire che io riesco ad afferrare solo un morso della vita? E’ molto denso, come poeta. “O non ghermita fuggi, e senza grido nel pensiero ti uccido e nell’atto mi annego”. La vita inafferrabile fugge. “Se a me”, qui inizia una grande immagine dell’albero, “fusto è l’eterno, fronda la storia e patria il fiore, pur vorrei maturar da radice la mia linfa nel vivido tutto e con alterno vigore felice suggere il sole e prodigar il frutto”. Vorrei dalle radici suggere, avere il vivido tutto, l’onnicomprensività di cui parlava Giussani. Questi due versi sono forse il centro della poesia, quando leggete una poesia, trovate sempre il centro, una parola, un verso che spiega tutto il resto. Secondo me, sono questi: “Vorrei palesasse il mio cuore nel suo ritmo l’umano destino”, non c’è bisogno di spiegare. “E che voi diveniste – veggente passione del mondo, bella gagliarda bontà – l’aria di chi respira mentre rinchiuso in sua fatica va”. Voi, bontà e bellezza, gagliardia del mondo, vorrei che diventaste l’aria di chi respira e fatica, va nella sua fatica. “Qui nasce, qui muore il Mio canto: e parrà forse” qui si rivolge a noi “vano accordo solitario; ma tu che ascolti, recalo al tuo bene e al tuo male; e non ti sarà oscuro”. Come si fa a capire la poesia? Recandola al proprio bene e al proprio male, paragonandola con se stessi. Dante dice, quando parla dell’amore di Beatrice: “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia, quand’ella altrui saluta, ch’ogne lingua devèn, tremando, muta, e li occhi no l’ardiscon di guardare. Ella si e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Va, sentendosi laudare, benignamente d’umiltà vestuta. Mostrasi sì piacente a chi la mira che dà per li occhi una dolcezza al core, che intender no la può chi no la prova”. Si capisce se la provi. Tu non puoi capire come io amo Beatrice se non hai provato. E’ la stessa cosa che dice Rebora. Per capire la mia poesia, non stare lì a pensarci tanto, vivi. Questa mia ricerca del tutto, questo mio scontrarmi con il limite, in questa poesia dice che è inafferrabile il presente. E poi, la scoperta dell’eterno. I giovani di quell’epoca hanno qualcosa in comune che è una appassionata ricerca, il desiderio di un’ideale. Qui torna in mente ancora Mazzini. Vi ho messo una poesia di Carducci, visto che Carducci – premio Nobel e ministro della Pubblica Istruzione – non lo legge più nessuno, alzi la mano chi legge regolarmente Carducci. Ok, c’è uno, dopo mi fai l’autografo. In questa poesia Carducci descrive Mazzini, cioè il primo incontro di Rebora. Bisogna capire perché è importante, perché Mazzini rimane al centro della cultura, della concezione di Rebora fino agli anni ’20, cioè a lungo. Qual è la genialata di Mazzini? Abbiamo fatto due anni fa i 150 anni della storia dell’unità di Italia e non l’abbiamo capito ancora. La genialata di Mazzini fu di capire che se uno ha un’ideale si muove. Punto. Lui parte dalla carboneria – sapete un po’ la storia -, che era un’associazione di aristocratici un po’ snob. Nessuno sapeva cosa facevano, avevano il loro linguaggio. Poi esce perché dice: “No, la prima cosa da fare per questi italiani divisi, per farli diventare una cosa, la prima cosa da fare è educarli all’ideale”. E comincia a scrivere, a fare la Giovine Italia, che era una rivista, inondare l’Italia. Questo è il colpo di genio di Mazzini. Che poi politicamente non ha avuto fortuna, però ciò a cui lui ha educato gli italiani ha vinto. L’ideale. E Carducci lo becca proprio in quel momento in cui lui dice questa cosa, perché dice di Mazzini, Carducci. Inizia in modo un po’ carducciano: “Qual da gli aridi scogli erma su ‘l mare Genova sta, marmoreo gigante, Tal, surto in bassi dí, su ‘l fluttuante Secolo, ei grande, austero, immoto appare”. Vedete un po’ lo stile. Rebora prende Carducci e lo rovescia, prende D’annunzio, usando all’inizio un linguaggio simile, e lo rovescia. Leggete le due poesie sul treno di Rebora e di Carducci. Prima strofa, Mazzini è come Genova: marmoreo gigante sul mare. Seconda strofa: “Da quelli scogli” – quelli di Genova – “onde Colombo infante Nuovi pe ‘l mar vedea mondi spuntare” – Cristoforo Colombo, il grande – “Egli vide nel ciel crepuscolare co ‘l cuor di Gracco ed il pensier di Dante la terza Italia”. La prima Italia Gracco, i romani, la grandezza di Roma. La seconda Italia, Dante, il medioevo cristiano, il cristianesimo, l’epoca dei Comuni, la nascita della grande arte, della grande poesia: queste sono le glorie dell’Italia. La terza Italia di Mazzini, quella del Risorgimento. “E con le luci fise a lei trasse per mezzo un cimitero, e un popol morto dietro a lui si mise”. Gli italiani che erano morti vanno dietro a Mazzini perché ha creato quest’ideale. “Esule antico, al ciel mite e severo Leva ora il volto che giammai non rise”, perché Mazzini non ha mai riso, è sempre stato severo, austero, ecc. Ultimo verso: “Tu sol pensando o ideal, sei vero”. Se ci penso, solo tu, o ideale, sei vero. Questa è la genialata di Mazzini. L’uomo non si muove se non per un’ideale. Oltretutto – aperta parentesi, se avete degli amici repubblicani o laicisti, ricordateglielo, l’ideale di Mazzini è un’ideale profondamente religioso, Mazzini parla sempre di Dio. Certo, Dio è l’Umanità con la U maiuscola, ecc., il progresso. Però voi leggete i diritti dell’uomo, gli opuscoli più famosi di Mazzini, parte sempre con Dio. Anche il giuramento di chi si affratellava alla Giovine Italia partiva da “di fronte a Dio”. Questo è ciò che cerca Rebora: un grande ideale, che all’inizio crede di trovare in Mazzini ma poi non basta. C’è la grande guerra mondiale, c’è l’incontro coi russi – Rebora ha tradotto gli scrittori russi, Tolstoj, ad esempio -, la convivenza con una musicista russa, Lidia, ma tutto questo lo porta ad un naufragio, tanto è vero che rischia la pazzia. Viene dimesso dall’ospedale militare con una diagnosi, “mania dell’eterno”. Non è che il medico abbia scritto proprio così, ma è per dire chissà di cosa parlava in continuazione. Nel ’22, otto anni dopo, la seconda raccolta. Una raccolta smilza, che è la fine di questo percorso: da qui è tratta la poesia più conosciuta di Rebora, Dall’immagine tesa, che vi leggo e sicuramente avete già sentito. E’ una poesia scritta mentre lui aspettava la sua morosa, Lidia. Poi Lidia è stata tolta dalla poesia che è diventata la poesia sull’attesa stessa, sul fatto che noi siamo attesa e che questa attesa è insopprimibile. E’ una poesia che ha due velocità, all’inizio lenta e poi veloce. Perché le poesie – se qualcuno scrive, se lo ricordi -, ma anche la prosa, hanno diverse velocità, che ogni tanto rallenta, ogni tanto accelera. Dall’imagine tesa è la sua figura, l’immagine è la figura dell’uomo. “Dall’imagine tesa vigilo l’istante con imminenza di attesa – e non aspetto nessuno: nell’ombra accesa spio il campanello che impercettibile spande un polline di suono -“: non commento questa bellissima metafora, polline di suono, perché siete grandi e intelligenti ma cogliete la bellezza. “E non aspetto nessuno: fra quattro mura stupefatte di spazio più che un deserto non aspetto nessuno”. Cambio di velocità. Nelle poesie di Rebora, spesso, a metà c’è un “ma”, c’è l’avversativa, cambio. “Ma deve venire, verrà, se resisto a sbocciare non visto, verrà d’improvviso, quando meno l’avverto: verrà quasi perdono di quanto fa morire, verrà a farmi certo del suo e mio tesoro, verrà come ristoro delle mie e sue pene, verrà, forse già viene il suo bisbiglio”. Non commento più di così perché è bellissima. Cosa succede negli anni Venti? Rebora fa una vita un po’ raminga e anche solitaria, però è un bellissimo conferenziere, molto amato dalle donne che lo invitano. Alcune di queste sono sue amiche, fanno parte di un’associazione di signore di Milano – Rebora è milanese – che pian piano comincia a parlargli sempre più approfonditamente di cristianesimo, di fede. Lui che non ne sa niente, pian piano si avvicina alla conversione che avviene alla fine degli anni Venti, nel ’29, ’30. E avviene, non rinnegando Mazzini, gli ideali ma come trovandoli più approfonditamente, dando un volto a questi ideali, a questo ideale, a questo tutto che lui cerca, a questo scontro con la morte, con il limite. Finché il Cardinale Schuster, il celebre Cardinale di Milano, lo manda a fare una prova in seminario a Venegono, nel seminario di Milano lo dichiarano inadatto al sacerdozio perché non sapeva niente, si vergognava quando era vicino ai chierichetti perché ne sapevano più di lui. E allora fanno un’altra prova, c’era un Padre che lo seguiva, e vanno a trovare i rosminiani, un ordine religioso della zona di Stresa, Domodossola, soprattutto, ma anche altrove. Rosmini è il grande genio filosofico che non insegnano nelle scuole, il più grande filosofo italiano dell’800 che sta all’altezza dei filosofi mondiali tedeschi: però, essendo cattolico, non lo insegnano. Diventa rosminiano e inizia il suo percorso a Domodossola, al Sacro Monte, che è il punto di partenza di Rosmini. Dal ’22, anno di pubblicazione dei Canti anonimi e Dell’immagine tesa, fino al 1955, 33 anni, non pubblica più raccolte di poesie. Cos’ha fatto Rebora in questo tempo? Ha fatto il prete. E’ stato sette anni a Rovereto, ha girato e con assoluta libertà – anzi, a un certo punto prima di entrare in seminario brucia tutta la sua biblioteca, tutte le sue carte e quelle che non riesce a bruciare le vende allo straccivendolo di Milano che sta passando lì sotto in quel momento – si libera di tutto questo. Per dire come la poesia non è il senso della vita del poeta. C’è qualcosa prima. C’è un’ideale più grande.
Continua a scrivere poesie ma sono poesie d’occasione. Non so, inaugurano l’acquedotto nel convento, nel monastero, lui scrive una poesia per chiedere i soldi ai visitatori per pagare l’acquedotto, cose così. In realtà, nel libro con tutte le poesie di Rebora, che è questo di Garzanti, metà delle poesie non sono in nessuna delle raccolte che ha pubblicato Rebora. Sono per metà sono poesie d’occasione. Gli ultimi due anni, dal ’55 al ’57, si ammala ed è costretto a letto. Lì la poesia ritorna con le ultime due raccolte estreme: la prima, del ’55, Curriculum Vitae, in cui lui ripercorre la sua vita partendo da episodi spesso assolutamente marginali ma riletti alla luce della conversione e della fede. E l’ultima raccolta, Canti dell’infermità, poesie più che altro dettate ai monaci e agli assistenti che erano lì perché lui non riusciva neanche più a scrivere, uno dei capolavori, a detta di Pasolini, di Raboni, di chi lo recensì immediatamente, perché si vede che lo aspettavano, è uno dei capolavori della poesia italiana del ’900. Vi leggo due poesiole brevi per concludere, da Curriculum Vitae. A tema, è sempre la poesia.
“Nella civil asfissia,” – anche, qui iniziamo bene, no? – cioè la civiltà, la società asfittica “architettando il diavol suo scompiglio” scusate, questa è da Curriculum Vitae, quindi sta raccontando la sua vita, quando lui cercava Mazzini, i russi, l’incarnazione dell’ideale. “Nella civil asfissia, architettando il diavol suo scompiglio, preso all’artiglio dell’io” – sentite anche qui la metafora, l’artiglio dell’io, la spiegazione migliore che abbia mai letto dell’egocentrismo, dell’egotismo. “saggezza da ogni stirpe affastellavo, a eluder la Sapienza”: cercavo la saggezza da ogni popolo, da ogni stirpe, pur di non vedere la Sapienza con la “S” maiuscola. “e quale sgretolio intanto!”, l’io che si sgretola. “Non come fibre fuse in un sol tronco i miei pensieri, ma fascio di rami cui rotto il laccio ognuno a sé ritorna”: i rami che vanno.. “Quando morir mi parve unico scampo”, è l’epoca del dopoguerra, “varco d’aria al respiro fu a me il canto: a verità condusse poesia”. In quell’epoca di crisi, mi sono riavvicinato alla verità grazie alla poesia. Ma la poesia non finisce qui. C’è un ultimo commento di Rebora: “Però non ogni canto è buon respiro, né tutti i versi fanno poesia”. Ricordati, Samuele, non ogni canto: cioè, bisogna distinguere, non è che tutte le poesie scritte… I poeti scrivono anche delle menzogne, scrivono anche delle cose non vere, anche Carducci, anche D’Annunzio. E’ come se dicesse: stai attento, non viene prima la poesia”. E quest’altra: Poesia e santità, più sul dolore, sul fatto che la vita nasce da quel limite di cui parla Giussani. “Mentre il creato ascende in Cristo al Padre”, è una poesia per l’Ascensione, “nell’arcana sorte tutto è doglia del parto: quanto morir perché la vita nasca! Pur da una Madre sola, che è divina, alla luce si vien felicemente:”, è la Madonna, no? “vita che l’amor produce in pianto, e, se anela, quaggiù” -nel mondo, sulla terra – “è poesia; ma santità soltanto compie il canto”. C’è qualcosa che viene prima della poesia, “compie il canto”, in realtà io lo leggo anche come “compie la vita, compie l’uomo”. Non è il canto, non è la poesia che compie l’uomo: è la santità, riesce a dire in questo punto della vita. Io avrei finito ma ho promesso a Samuele di leggere solo – senza commentare – una poesia di Rebora che è la sua preferita. Perché è la poesia in cui Rebora racconta, nella seconda raccolta, quella del ’22, quindi alla soglia della conversione, di quando da bambino andava con la famiglia in una casa di campagna in villeggiatura. Stavano quattro, cinque giorni perché il padre aveva una tenuta, avevano un po’ di soldi: c’era un contadino, Carlo. Rebora, che da giovane era abbastanza birichino e agitato, spariva tutto il giorno, andava in giro con questo contadino, lo rivedevano a sera sporco di fango e felice, perché aveva gironzolato per la campagna con Carlo tutta la giornata. E inizia con questo verso bellissimo, che è la più bella definizione dell’infanzia che io conosca. “Al tempo che la vita era inesplosa”, che vuol dire tante cose ma ho promesso di non commentare. “Al tempo che la vita era inesplosa e l’amor mi pareva umana cosa, fanciullo a te venivo o Carlo contadino, dove in corona dall’alba alla sera nel vasto sole delle estati brevi esaudendo come una preghiera la terra non tua più l’avevi”. La terra non era sua, era del padre. Ma anche se non era la tua terra, la possedevi perché la trattavi come una preghiera. “A te correvo già felice: e tu guidavi senza farmi male l’anima persuasa, parlando il poco di chi intende e dice; e nell’aiuto meritavo accanto al tuo ben la campagna, la campagna che va dal piano al monte tessendo siepi in giro alle covate, ma di verde inghirlanda ogni contrasto nel fior di tutti i giorni, l’orizzonte. “Con la falce nell’erba frusciava il mio baleno: il papavero ardendo sullo stelo e ciascun boccio sereno in abbandono ancor vivo a tagliarlo pativo”. Soffriva a raccogliere i papaveri. “E accanito godevo con la falce nell’erba. Erba recisa che sempre rinasce, se dove ruminando è mucca e latte per vivace concime ritorna alla radice”. Trovatelo voi un poeta che parla di concime in un modo tanto nobile. “Ma la segale ambivo, il suo slancio levriero, l’ariosa offerta delle piante natali; e dovunque ero appiglio all’imminente prodigio: mago dell’impazienza, brigante di bontà con gli animali, scandalizzando fughe nel pollame che tra zampa e cresta in scia di pulcini virava la sua siesta. Ghiotto della mia fame, stupefatto di festa, nel caso lucente sostavo: facevan le fusa i miei sensi, e zampilli i pensieri; l’aria dava la stura a un bronzeo inquietamente fervere d’api: e non sapendo ero certo del misterioso concerto. Infine il mezzodì spandeva effluvi di campane: il gerlo sulle spalle, andavo rincasando con te come uguale, verso la fiamma che dal sasso già inneggiava alla polenta;” – una strofa sulla polenta strepitosa – “e tu, con lena immensa,” pensate alla lentezza “sul paiolo acceso, dicevi a me restio: mangiamo insieme; il digiuno non ciba nessuno, se non ci nutre Iddio. E in aureola splendeva l’astro della mensa, il sol della polenta per chi ha in sé grande spazio, luce” – sentite qui, bellissimo – “che si contenta di tramontare in noi: e quando il cuore è sazio,” – pensate, non è lo stomaco, è quando il cuore è sazio – “se ne risparmi poca, anche meschina, essa risorge in tuorlo di gallina”., quella che rimane la diamo alle gallina. “Risorge la tua cara vita dove più va smarrita o Carlo, contadino di un solco che è sentiero per le terree nostre notti. E ti vedo levar come il mattino in verecondia gli occhi consacrando il pensiero al semplice elemento, mentre è bello il silenzio a te vicino”.

DAVIDE RONDONI:
Per concludere, oltre a ricordare gli appuntamenti di poesia che ci saranno mercoledì e venerdì, sempre qui (in particolare, mi permetto di ricordare due appuntamenti per chi si interessa di scrittura. Mercoledì mattina faremo una bella conversazione con Gianni Riotta, Guido Gili e altri sul tema web, scrittura, libertà e tutto quello che va dietro a queste cose. E poi, venerdì, una lettura su Pasolini), ringrazio sia Gianfranco che Sammy. Mi permetto di finire leggendo una poesia che non volevo leggere all’inizio ma che leggo per una cosa che ha detto Sammy, per una cosa che ha detto Gianfranco che non dico. La poesia dove c’è una citazione di Rimbaud, grande poeta, a un certo punto parla dell’inferno delle donne. La poesia dice così: “Vorrei donarti questo oro, occorre somigliare a Dio per amare. E sentire tutto l’essere cani, l’impotenza d’essere meno che umani, cuore che latra nel petto vuoto, nella bocca povera della luce. Amare e non avere più tempo né diritto, fortuna. Il pallore in petto violento della luna. Essere indifendibili, ardere la mente nel roveto, rovinare dal monte nel vento. Giocare d’azzardo sapendo di perdere. Non calibrare la traiettoria dei respiri, inseguirli come farfalle, nomi. Morire in ogni cosa che fa vivere, e vivere sbandati, felici, in ogni cosa che fa morire, nessuna soluzione, nessun finale. Si resta in scena sempre. Fino a inginocchiarsi, che il sipario mannaia cali su pupille assetate. Essere nel grande fallimento di ogni notte, illuminarla seppur fiocamente, con il cuore, aquila, fisso nel sole della vittoria, essere sempre una storia come la storia dura, difficile, sacra e impura. Conoscere l’inferno delle donne, non solo il lontano paradiso cui protendersi insieme gridando cose sconnesse. Lasciare che prorompa la fonte, spaccando. Essere docile non è un punto di partenza ma di arrivo, se vi arrivi. E il whisky o la preghiera o il ventaglio infinito di baci non ti stordiscono prima, abbandonandoti morto in una stazione. Dio perché hai inventato l’amore? O tu stesso non potevi non inventarlo dominato, sfasciato dalla sua forza, la casa di cura mentale a Ferrara, dove porto quaderni con la copertina rigida per le poesie al mio amico, è tempio d’amore di oggi, non ha aria condizionata, armadietti di metallo semivuoti, vecchie pale girano senza muovere niente. Solo i suoi occhi di sessantenne andato da un pezzo mi dicono la felicità è portarsi a casa una ragazza, avere qualche soldo per i suoi vestiti. Dio potente, matto, Dio che m’hai strafatto che t’imminuscoli per troppa accecante maestà. Non ho avuto riguardo per te, ho accostato il mio bacio mormorante al tuo viso, ti sei impestato di me, non hai girato il volto, non ti sei sottratto a nessuna ingiuria, hai preso nella tristezza fiammeggiante, nel giugno lucente degli occhi la malora, l’incuria e il tuo sorriso ha deviato tutto. Nel nulla che tieni stretto nel pugno”.
Grazie Gianfranco e Sammy. Ci sono i loro libri, fuori.
Trascrizione non rivista dai relatori

Data

19 Agosto 2013

Ora

19:00

Edizione

2013

Luogo

Sala Tiglio A6
Categoria
Testi & Contesti