È CRISTO CHE VIVE IN TE. DOSTOEVSKIJ. L’IMMAGINE DEL MONDO E DELL’UOMO: L’ICONA E IL QUADRO

E' Cristo che vive in te. Destoevskij. L'immagine del Mondo e dell'uomo: l'icona e il quadro

Partecipa Tat’jana Kasatkina, Direttore del Dipartimento di Teoria della Letteratura presso l’Accademia Russa delle Scienze. Introduce Stefano Alberto, Docente di Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

È CRISTO CHE VIVE IN TE. DOSTOEVSKIJ. L’IMMAGINE DEL MONDO E DELL’UOMO: L’ICONA E IL QUADRO
Ore: 15.00 Sala A3

STEFANO ALBERTO:
Benvenuti a tutti, in particolare a quelli che per la grande affluenza sono sistemati in modo provvisorio, seduti per terra o accalcati fuori. Non penso di esagerare dicendo che questo momento legato alla mostra E’ Cristo che vive in te. Dostoevskij. L’immagine del mondo e dell’uomo: l’icona e il quadro è uno dei momenti più importanti, più significativi del Meeting di quest’anno. Più significativi e più esemplificativi di quella realtà, che è il Meeting, che continua a offrire a ciascuno di noi un’importante possibilità di verifica: se siamo disposti a imparare sempre. Mi prendo la responsabilità di affermare che questa mostra, che non è appena una mostra, su quel grande genio che è Dostoevskij, rappresenta un punto di novità e di rottura, Non potremo più leggere Dostoevskij come l’abbiamo letto finora. Ma, ripeto, la prima gratitudine per l’immenso lavoro fatto da Tat’jana Kasatkina insieme – e questa è un’altra grandissima realtà, a docenti e studenti italiani, russi, un lavoro durato una anno e mezzo – è, come sottolinea Julián Carrón
nell’introduzione al catalogo, la possibilità che i nostri occhi si aprano. È la sorpresa di chi all’improvviso si sente liberato da una miopia che gli impediva di vedere. E le cose che stanno davanti a noi, davanti ai nostri occhi, diventano veramente presenti. È l’invito che ci rivolge Dostoevskij. Effettivamente, prendete un qualsiasi fatto della vita reale, anche se non così evidente a prima vista, e se soltanto avete forza e occhi vi riconoscerete una profondità che non c’è neanche in Shakespeare. Ma la questione è proprio questa: agli occhi di chi? Chi ha questa forza? Non è l’unica mostra che ci aiuta a spalancare gli occhi. Penso allo straordinario lavoro fatto da John Waters sul rock, o alla mostra sull’ “imprevedibile istante” che ha mandato quasi KO il Presidente del Consiglio: lo dico in termini positivi, proprio tutti abbiamo visto lo shock, era sotto shock quando ieri ci ha parlato per quello che aveva visto e udito.
Questa mostra ci chiede un percorso, ci chiede un lavoro, ci chiede di imparare di nuovo quello che pensiamo già di sapere. In questo senso, rientra nell’itinerario, nel percorso umano, nel dramma della vita di ciascuno di noi, questa provocazione che Juliàn continuamente ci lancia, ad andare alla radice di ciò di cui la nostra vita consiste. Qual è la consistenza ultima del mio io? Qual è la vera radice del cambiamento? Noi, che siamo stati lettori, occasionali o attenti, di Dostoevskij, noi che ci siamo abituati a leggerlo, siamo invitati da Tat’jana a guardare, attraverso gli occhi di un grande convertito, di un grande peccatore, di un grande cristiano, a guardare attraverso i suoi occhi qual è la consistenza vera di tutta la realtà: Cristo. A guardare come, attraverso i quadri – la famosa immagine B composta, di cui però parla lei -, Cristo accade non 2000 anni fa ma ora. Questa è la cosa più impressionante. Rispetto alla facile prospettiva di tenere distinte, divise, separate le prospettive dello sguardo – quella orientale dell’icona, quella occidentale del quadro -, siamo posti davanti a una sfida radicale per la nostra vita: ma che cosa è veramente essenziale? Che cosa è veramente nuovo, nel tempo e nello spazio? Sei disposto a guardarlo veramente? Perché rispondendo a questa domanda scopriamo che l’unità, l’unità dell’io, l’unità dell’esperienza, l’unità della fede è già una realtà possibile. Non è mai risuonata una volta in questo anno e mezzo la parola ecumenismo ma la parola esperienza, perché la cosa essenziale, come sempre sottolinea Tat’jana, è che la tradizione o diventa esperienza, esperienza adesso, diventa conoscenza nuova adesso, avvenimento di Cristo adesso o diventa un inciampo. Non rubo altro tempo a Tat’jana chiedendo – uso l’immagine suggestiva di Julián – di prenderci per mano in questo affascinante percorso di scoperta, non appena di Dostoevskij ma della grandezza, nella miseria, di ciascuno di noi.

TAT’JANA KASATKINA:
Sono molto contenta di vedervi tutti quanti. È per me un grande onore e una grande gioia parlare davanti a voi adesso e presentarvi una mostra che noi abbiamo fatto nel corso di un anno e mezzo, insieme a studenti italiani e russi e con i curatori, che sono Arina Kuznecova, che ha creato il design dello spazio, con Uberto Motta, con Alessandro Rovetta e con Elena Mazzola, senza la quale tutto questo progetto sarebbe stato irrealizzabile e probabilmente non ci avremmo neppure pensato. Grazie a tutti voi e grazie a tutti quelli che hanno lavorato. Non parlerò di quello che potete vedere o ascoltare alla mostra, abbiamo delle guide veramente eccezionali e quindi non voglio assolutamente togliere loro spazio. Voglio invece parlare di quello che purtroppo è rimasto fuori dalla mostra. Voglio concentrarmi su che cosa sia la profondità della figura artistica, dell’immagine artistica, e in che modo essa ci porti a una rivelazione sulla natura dell’uomo come viene fuori nei romanzi, in tutto quello che voi potete vedere alla mostra, tutto quello che ne esce e che nella mostra non c’è.
In primo luogo, voglio parlare del romanzo I demoni. Non abbiamo potuto farlo entrare nella mostra, ma in questo romanzo avviene qualcosa di particolare e di molto interessante dal punto di vista della rivelazione sulla natura dell’uomo. Quando diciamo “una persona profonda” oppure “una persona limitata”, “una persona piatta”, che cosa intendiamo? Diciamo “uno scrittore profondo”, oppure “uno scrittore superficiale”: che cosa significa? Diciamo di un’opera d’arte che “ha una tale profondità”, ma a che cosa ci riferiamo? Di solito, non ci mettiamo a spiegare questa sensazione, eppure la sua spiegazione ci chiarirebbe molte cose, sia sulla natura dell’uomo che sulla natura della sua creatività. Vorrei dunque cercare di parlare della profondità dell’immagine artistica – e parlarne non come capita quasi sempre, ovunque, cioè in maniera indeterminata, astratta, in senso metaforico, emozionale, quando l’espressione della profondità viene data per scontata, da un lato, e, dall’altra parte, pare impossibile da precisare -: vorrei cercare di parlare della profondità come di una caratteristica molto concreta dell’immagine artistica, e di come essa si raggiunga. Se ci riusciremo, avremo modo di capire, da un lato, almeno in parte, che cosa sia la profondità umana e che cosa sia, dall’altra, il legame con l’infinito. Anche di primo acchito appare evidente che ogni discorso sulla profondità esige che nell’immagine vi sia l’esistenza di un secondo piano, qualcosa che è necessario osservare attentamente e che occorre intuire, che esige la presenza di qualche cosa che non ci viene data apertamente ma che esiste, tuttavia, in maniera chiara e distinta e presente, si cela e nel contempo viene svelata dal primo piano dell’immagine. Evidenti sono anche gli strumenti che uniscono insieme i due piani dell’immagine: questi strumenti sono l’allusione, la reminescenza, l’associazione. C’è un rimando, un accenno, che uniscono insieme due cose che a prima vista sembrerebbero distanti l’una dall’altra.
Tutto questo è più o meno chiaro ma perché allora il concetto di profondità continua a sfuggirci? La prima cosa che ci appare problematica è la qualità del secondo piano, ad esempio: la connessione di un personaggio ad un prototipo reale può sminuire bruscamente la nostra percezione della sua profondità, anziché approfondirlo può contribuire ad appiattirlo. E questo, tra l’altro, pone un serio problema a chi commenti un’opera letteraria o pittorica, che comunica al popolo delle emozioni non semplicemente superflue per la percezione dell’immagine ma che addirittura la possono appiattire. Il riferimento di una scena artistica ad avvenimenti correnti, di attualità, di qualsiasi epoca siano, crea un’atmosfera di sapore pamphlettistico, pubblicistico, che contrasta per definizione con la profondità. Mettere in luce il substrato storico non favorisce la profondità, riprodurre in un ritratto un gesto già visto in un altro ritratto spinge a parlare più di un gusto dell’imitazione che della profondità, e via di questo passo. Qual è allora il problema? Probabilmente nel fatto che le corrispondenze citate si trovino in realtà nell’ambito di un solo piano, non ci facciano oltrepassare i limiti della realtà presente, della realtà che si vede, che resta a noi manifesta, immediata. Ci lasciano nell’ambito di quello che Dostoevskij chiamava il quotidiano visibile, corrente, l’oggi. Realtà e letteratura, realtà e pittura sono analoghe da questo punto di vista, sono dello stesso tipo, non costituiscono combinazioni di piani diversi, funzionano allo stesso modo, esprimendo o non esprimendo, nei fenomeni della letteratura o della realtà, ciò che è il rivelato, altro, inarrivabile per la realtà corrente.
L’artista, d’altra parte, cerca proprio l’Altro, l’alterità. Aleksandr Blok annota nel gennaio del 1912, nel momento culminante del suo lavoro a Nemesi, che sembrerebbe in un primo momento un poema storico: “Finché non troverai un legame effettivo tra il temporale e l’atemporale, tu non diventerai uno scrittore non solo comprensibile ma anche necessario a qualcuno per qualcosa che vada oltre il capriccio”. Nel primo capitolo del celebre libro di Erich Auerbach, Mimesis, in cui l’epos omerico viene accostato all’epos biblico, la profondità appare evidentemente solo quando nella narrazione interviene Dio, inarrivabile per questo mondo, per principio non manifesto, non visibile in esso, che vi appare solo in parte in alcune sue immagini, figure o avvenimenti. Queste immagini, figure, avvenimenti appartengono pienamente a questo mondo ma, al tempo stesso, sono radicalmente trasfigurati da questo apparire, in essi, di un Altro, di una alterità; si trasfigurano, tra l’altro, nella storia biblica, in modo molto interessante, diventano prototipi di archetipi. Mi riferisco a ciò che conosciamo come sistema dei prototipi dell’Antico Testamento che preannunciano le figure, le immagini tipiche che si sveleranno in pienezza nel Nuovo Testamento. Il prototipo in questo caso si produce quando ciò che non ha ancora una immagine, che è prima dell’immagine, perché poi si troverà una sua immagine per la prima volta nel Nuovo Testamento, entra nell’essere dal non essere, con quella parte che l’essere può in quel momento percepire. Questa parte verrà poi riconosciuta nell’immagine, nella figura, ad esempio: il roveto ardente è il prototipo della madre di Dio e ci mostra un oggetto avvolto dalle fiamme che però non viene consumato da questa fiamma perché il Signore per esistere non ha bisogno di distruggere la creatura. La creatura che permette al Signore di manifestarsi non viene per questo motivo poi condannata alla corruzione. Il roveto ardente entra pienamente a far parte dell’immagine della figura della madre di Dio, diventandone uno degli aspetti, ma non viene eliminata o annullata come immagine a se stante, come immagine autonoma, e mostra addirittura la capacità di informare di sé l’immagine: infatti, c’è l’icona della madre di Dio del roveto ardente. L’immagine è qui formata da una molteplicità di archetipi ma non equivale semplicemente alla loro somma sebbene, paradossalmente, appaia interamente in ciascuna sua parte, in ciascuno di essi.
La presentazione nella storia biblica di prototipi dell’archetipo ha, evidentemente, un significato educativo per l’umanità, svelandone le proprietà innaturali mediante la condizione del mondo circostante, facendo conoscere, pian piano, la fondamentale diversità del Creatore rispetto alla creatura. E, tra l’altro, insegnando a ravvisare in sé le proprietà del Creatore e non della creatura. Dunque, la profondità dell’immagine non appare quando la narrazione ci porta nella notte dei tempi ma quando ci porta oltre i confini del tempo, non quando ci rimanda a quello che è simile ma quando ci rimanda a ciò che è lo stesso e insieme totalmente altro, perché questo esiste in un altro piano dell’essere. Ripercorrendo la storia di Abramo, Auerbach ritorna più volte al momento dell’apparizione di Dio ad Abramo, che evidentemente colpisce in qualche modo lo studioso ma, ogni volta, interpretando questa scena, l’autore si allontana dall’essenza, dal nocciolo della questione a cui lui stesso era giunto, per tornare poi alla superficie. Ad esempio, anche di Abramo, dice Auerbach, nulla si apprende all’infuori, di concreto, tranne le parole con cui lui risponde a Dio, “hinneni”, cioè “vedimi”, perché suggeriscono un gesto di obbedienza molto importante, di disponibilità. Ma è lo stesso lettore che deve farsi un quadro, una immagine di questo gesto, mentre questa scena è molto idonea a mettere in luce le relazioni che esistono tra il primo e il secondo piano dell’immagine, creandovi una profondità. Ciò che in essa sfugge allo studioso, che accompagna la replica di Abramo al gesto di singolare efficacia che significa essere pronto ad obbedire, dimentica ciò che c’è di più concreto e inusitato in Abramo, e cioè la sconvolgente – impossibile per Omero – libertà di Abramo rispetto a Dio. Gli dei dell’epos omerico non fanno alcuna cerimonia quando appaiono, solo da essi dipende dove, come e quando devono e possono apparire all’eroe, si inseriscono nella vita dell’eroe come è possibile solo ad esseri che, essendo altri, non appartengono tuttavia ad un altro mondo e non devono chiedere il permesso per entrare.
Invece, il Dio di Abramo deve bussare perché il mondo possa aprirsi davanti a Lui. In ogni caso, la risposta di Abramo, che viene solitamente tradotta come “eccomi”, in realtà è “vedimi”: è una evidentissima formula di permesso a Dio perché Dio possa entrare in contatto con l’uomo, possa vedere colui che Egli ha chiamato. Questo “vedimi”, “guardami”, ci rimanda contemporaneamente a due passi cruciali della Sacra Scrittura. In primo luogo, al libro della Genesi, dove Dio cerca Abramo ed Eva che volevano nascondersi da Lui dopo il peccato originale: Dio li cerca e non riesce a trovarli. Ho già detto più volte, ma lo ripeto ancora, che sarebbe estremamente ingenuo ed incauto da parte nostra intendere questa ricerca di Abramo da parte di Dio come una sorta di gioco a nascondino di un adulto insieme ad un bambino. Questo non riuscire a trovarli è una cosa molto seria e da parte di Dio non c’è nessun gioco, come invece presuppone la tradizionale interpretazione moraleggiante di questo passo della Genesi. Così come all’inizio della creazione, il Signore Onnipotente che è dappertutto, che è ovunque presente, si è ritirato, ha lasciato il campo, ha liberato il posto alla creatura, così e fino ad ora Egli entra in questo luogo solo con il libero consenso di colui che Egli ha creato. Prima di tutto, certamente con il consenso dell’uomo, creato proprio come padrone e lavoratore nel giardino divino, come intermediario tra Dio e il creato. Il Signore non attenta alla libertà dell’uomo, non annienta la sua immagine e somiglianza nell’uomo, che è, appunto, la libertà: e per questo, se desideriamo restare nascosti agli occhi del Signore, ebbene, noi resteremo nascosti, con tutte le conseguenze che ne derivano, evidentemente, perché, come ha detto una volta un rabbì, “il Signore è ovunque lo si lasci entrare”.
A questo proposito, voglio dire due parole sul titolo del mio libro che viene presentato per la prima volta al Meeting. Il libro, che affianca e accompagna la mostra su Dostoevskij, si intitola Dostoevskij il sacro nel profano. Per capire questo titolo, bisogna tenere presente che il profano non è un luogo o una cosa in cui Dio non sia mai stato, non è un luogo che attenda ancora di essere reso sacro. Il profano è un luogo che era di Dio ma un luogo che questi ha consegnato, perché l’uomo lo possieda così come il padre, nella storia del figliol prodigo, ha consegnato al figlio la sua parte di eredità. Così intendevano questa parola anche i romani che chiamavano profano la parte della vittima sacrificale che veniva restituita da parte degli Dei perché fosse consumata dall’uomo. Il profano cioè è un luogo che ricorda che un tempo qui dimorava Dio e che brama di ritrovare questo suo stato, un luogo che ha nostalgia di Dio e Dio che ha nostalgia di questo luogo, ma a dividerli c’è l’uomo che ha ottenuto in suo possesso questo luogo.
Dopo il peccato originale, tutta la terra, per lungo tempo, è diventata questo luogo. Abramo, con questo suo “vedimi”, restaura la possibilità che Dio sia presente sulla terra, crea un tunnel tra questo e l’altro mondo, lui stesso diventa una porta attraverso cui Dio entra per operare. Di qui, ci diventa comprensibile il significato della preghiera del Signore, il Padre Nostro, l’unica che Cristo abbia donato all’uomo; ci diventa comprensibile la necessità che essa risuoni incessantemente. Ed essa consiste nel fatto che l’uomo proclama la volontà di Dio “in cielo e sulla terra” – “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra” -, cioè nel fatto che l’uomo invita e consente al Signore di agire sulla terra, nel campo del creato, così come egli può agire in cielo nel campo del Creatore.
In secondo luogo, questo “vedimi” di Abramo ci rimanda ai versetti dell’Apocalisse: “Ecco, io sto alla porta e busso, se qualcuno ascolta la mia voce, mi apre la porta, io verrò da lui cenerò con lui ed egli con me”. Anche qui ci viene detto che il Signore non irrompe nella nostra vita senza il nostro permesso, senza un nostro invito. Dunque, l’immagine acquista profondità quando qualcosa di percettibile entra in essa, attraversando i confini del tempo e i confini dell’universo, ma questo qualcosa non è necessariamente Dio. È evidente, perché direttamente registrata dall’autrice, questa bicomposizione dell’immagine, ad esempio in questo brano di Jane Eyre, in cui viene descritta la stanza in cui Jane assiste Richard Mason [fratello di Bertha] ferito. Tra la mobilia c’è un grosso armadio la cui parete anteriore è suddivisa in dodici pannelli raffiguranti le teste dei dodici apostoli, sopra cui campeggia il crocifisso. E subito dietro il crocifisso, c’è il volto diabolico di Giuda, che emergeva dal pannello e sembrava prender vita ed essere sul punto di rivelare il supremo traditore, Satana in persona, nei sembianti di uno dei suoi, delle sue forme subordinate, subalterne. Subito dopo il diavolo, apparso nei sembianti di una delle sue forme subalterne, appare in un’altra forma subalterna, questa volta, una persona vivente, in maniera tutt’altro che metaforica. “Circondata da tutto questo, fui costretta non solo a vedere ma anche a sentire, a sentire come si muoveva la belva, o il demone, nella sua tana”. Qui l’autore parla di Jane che sente dei rumori provenienti dalla stanza dove, secondo lei, si trovava la cameriera Grace Poole, che era una assassina e una piromane.
Noi vediamo che la forma subalterna è capace di fare apparire attraverso di sé esseri di un altro mondo, che possono essere sia l’uomo sia l’immagine artistica. Rispetto a questa capacità, l’uomo e l’immagine artistica sono equivalenti. Questa concezione, tra l’altro, a livello della cultura dell’Europa occidentale determinò il modo di agire dell’Inquisizione, cioè bruciare le forme subordinate, subalterne, coloro o ciò che, libri o quadri, offrivano rifugio al diavolo, ne divenivano asilo, ricettacolo, strumento; bruciarli come luoghi in cui il diavolo poteva fare irruzione nel mondo cristiano. Senza voler giustificare l’operato dell’Inquisizione, bisogna tenere presente la serietà, l’esistenzialità del problema di corrispondenza tra il primo e il secondo piano dell’immagine, delle figure, ovvero tra archetipi e forme subalterne. Senza voler giustificare l’azione dell’Inquisizione – e queste azioni non possono essere giustificate neppure da un punto di vista puramente pragmatico, perché ebbero un’efficacia bassissima e, se si osservano sulla lunga distanza, furono addirittura controproducenti – bisogna però comprenderla. L’essenza di ciò che facevano streghe e stregoni è espressa con molta chiarezza da questo passo dell’opera di Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, Il martello delle streghe, che ha goduto di grande popolarità per secoli: “Si può concludere che alle streghe per rovinare il bestiame basta soltanto sfiorarlo o lanciargli un’occhiata, tutto il resto poi lo fa il demonio: se la strega non vi partecipasse in qualche modo, il demonio non potrebbe causare dei danni alle creature, come abbiamo detto sopra”. Da questa citazione consegue innanzitutto che per fare il male e nuocere al mondo, per guastare il creato, al demonio è indispensabile la collaborazione dell’uomo; in secondo luogo, che questa collaborazione può essere minima, consistere semplicemente nel riconoscimento della collaborazione, cioè nel semplice consenso dell’uomo all’ingerenza del diavolo.
Nella memoria della cultura cristiana, è indelebilmente impresso che all’uomo è stata data una dignità unica, che non è stata revocata neppure dopo il peccato originale, quella cioè di essere padrone e lavoratore, giardiniere della terra, signore del creato. Per questo, senza il consenso e l’ausilio dell’uomo, almeno in quanto tramite di un influsso altrui, niente si compie sulla terra. Nikolaj Gogol’, a partire da Le veglie alla fattoria di Dikanka non ha fatto altro che scrivere di come all’uomo sia sufficiente volgere lo sguardo e aprire gli occhi per guardare il bene e il male, perché questi abbiano corso nel mondo, cosicché, chi ha letto Gogol’, avrebbe potuto venire a sapere di queste cose, questi concetti, anche senza Sprenger e Institor.
Anche oggi, sempre più frequentemente, l’uomo, avvalendosi senza averne coscienza di questo suo grande potere, spesso svende, frega, per usare un linguaggio moderno, il creato. Ebbene, questo tradimento, quali che siano le cause che l’hanno prodotto nei confronti del mondo e dei propri fratelli, questo aprire le porte dell’universo a conquistatori e devastatori, veniva punito dalle autorità laiche – ad esse era stata affidata la spada per difenderne i confini -, dopo che l’Inquisizione l’aveva constatato. Da quanto abbiamo detto, si evince che l’uomo può introdurre il male non solo nella propria vita ma anche nella vita degli altri. Per questo, gli uomini non sono separati bensì legati tra di loro in una maniera più stretta e diretta di quanto essi stessi vorrebbero pensare. Questo significa, al contempo, che l’uomo può fare entrare anche Dio, non solo nella propria vita ma anche nella vita di coloro per i quali comincia pregare. La preghiera per gli altri, per l’altro, indica il nostro consenso che Dio entri ed agisca nella loro vita. Noi, in generale, fungiamo continuamente da canali di comunicazione anche se, purtroppo, ce ne rendiamo pochissimo conto.
Ritornando al testo di Auerbach e prendendo in esame l’epigrafe scelta, possiamo dire che spazio e tempo a sufficienza, nella creazione della profondità dell’immagine, non ci saranno di aiuto. Il prototipo precursore dell’immagine nel tempo, nel quotidiano visibile, corrente, spicciolo, non crea profondità; solo l’archetipo è in grado di crearne. Il prototipo o i prototipi creano ciò che possiamo chiamare una densità dell’immagine, una sua conoscibilità, una sua capacità di essere presente in ogni tempo. Questo angolo di visuale ci induce a guardare diversamente dal solito ciò che noi chiamiamo prototipi e il grado di importanza della loro individuazione per la comprensione dell’opera d’arte.
Ad esempio, per i personaggi del romanzo I Demoni di Dostoevskij, gli studiosi hanno trovato molti prototipi storici, lo stesso Dostoevskij ne ha indicati parecchi chiamando nei taccuini del romanzo Stepan Trofimovič con il nome di Granovskij, o Pëtr Verchovenskij con quello di Nečaev. Nel testo del romanzo, attribuisce a Karmazinov elementi biografici che sono propri delle opere di Turgenev, e paragona a Stavrogin, a Lunin o Lermontov. Potremmo continuare, più o meno all’infinito. Ciascun prototipo, ritengono gli studiosi, è importante per comprendere l’immagine creata da Dostoevskij. In realtà, le cose funzionano esattamente all’opposto: è l’immagine creata da Dostoevskij ad essere importante per comprendere tutti i prototipi trovati e non ancora trovati dei suoi personaggi. Questa immagine li spiega e svolge logicamente la potenzialità che spesso non si è ancora attuata nella vita.
Dostoevskij non crea caricature di persone concrete, come venne più volte accusato, in particolare proprio rispetto al romanzo I Demoni; semplicemente, nell’immagine da lui creata, nel tipo da lui creato, sviluppa a fondo un’immagine, mostra tutta l’espressione di questo tipo, che non sempre si osserva nella realtà empirica. Dinnanzi a noi sorge una sistematica classificazione di posseduti, ossessi e ciò che solitamente prende il nome di prototipi andrebbe piuttosto considerato come esempi delle diverse rubriche di questa classificazione. Sostanzialmente, proprio così funzionano quelle che noi chiamiamo immagini eterne (Faust, Don Giovanni), che vengono continuamente mostrate nei più diversi aspetti, manifestazioni, sia nella realtà sia nelle opere d’arte. In ogni caso, a conferire profondità all’enorme, illimitata imponenza scultorea (anche se ha un senso di vuoto) della figura di Stavrogin, non è il suo rapporto con Lunin e neanche la sua relazione con il poeta Lermontov. La figura di Stavrogin deve la sua imponenza, la sua mole, al fatto che Dostoevskij lo mostra come un luogo, come un essere eletto e predestinato a manifestare la presenza divina e che, invece, sceglie di divenire una forma subalterna, subordinata del diavolo. Per collegare i due piani della figura e mostrare nella figura di Stavrogin la sua profondità – sia attuale che potenziale -, Dostoevskij impiega attivamente tutti gli strumenti prima elencati, cioè l’allusione, la reminiscenza e l’associazione. Da un lato, Stavrogin viene nettamente associato all’indemoniato, che ha dentro di sé la legione di cui parla l’epigrafe del Vangelo al romanzo: “Vi era là una grande mandria di porci al pascolo sul monte. I demoni lo scongiurarono che concedesse loro di entrare nei porci. Glielo permise. I demoni usciti dall’uomo entrarono nei porci e la mandria precipitò giù dalla rupe nel lago e annegò. Quando videro ciò che era accaduto, i mandriani fuggirono e portarono la notizia nella città e nelle campagne. La gente uscì per vedere l’accaduto, e quando arrivarono da Gesù trovarono l’uomo, dal quale erano usciti i demoni, vestito e sano di mente che sedeva ai piedi di Gesù, ed ebbero paura e raccontarono di come era stato guarito”. Stavrogin riconosce davanti a Tichon, con parole estremamente concise, dette a tratti, tanto che era perfino difficile capirlo, che, soprattutto di notte, “lui andava soggetto ad allucinazioni, che vedeva talvolta o sentiva accanto a sé un essere malvagio beffardo e irragionevole, con diversi volti e diversi caratteri ma sempre lo stesso. E io ogni volta mi infurio”. E proprio da Stavrogin escono i diavoli che si impossessano degli altri personaggi del romanzo e ne fanno degli ossessi. Stavrogin è la belva (dicono di lui: “la belva ha mostrato gli artigli” e, alla pagina successiva, “la belva all’improvviso ha tirato fuori gli artigli”). Viene chiamato anche “il serpente astutissimo”. Così si chiama anche il capitolo in cui per la prima volta compare Stavrogin. Stavrogin è colui dietro il quale compare Satana che, dandogli il suo potere, lo usa come una marionetta, come un suo abito, come una sua forma subalterna, subordinata: “E vidi io salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi, e su ciascuna testa un titolo blasfemo. La bestia che io vidi salire era simile a una pantera, con le zampe come quelle di uno orso e la bocca come quella di un leone. Il drago le diede la sua forza, il suo trono e il suo grande potere. Una delle sue teste sembrò colpita a morte, ma la sua piaga mortale fu guarita”. Nella struttura del romanzo, la ferita della bestia è l’enfiagione dopo lo schiaffo di Šatov, l’ascesso che Nikolaj Vsevolodovič si rifiuta di mostrare al dottore e che passa senza lasciare traccia, mentre in città si parla di denti rotti e di altri rivoltanti particolari. “Allora la terra intera, presa da ammirazione, andò dietro alla bestia e gli uomini adorarono il drago, perché aveva dato il potere alla bestia. Adorarono la bestia dicendo: chi è simile alla bestia e chi può combattere con essa? Alla bestia fu data una bocca per proferire parole d’orgoglio e bestemmia con il potere di agire per 42 mesi”.
All’incirca in questi rapporti, del drago nei confronti della bestia, cerca di porsi nei confronti di Stavrogin Pëtr Verchovenskij. Ecco un episodio estremamente caratteristico da questo punto di vista: “E io? – si volse indietro ad un tratto – ho dimenticato completamente la cosa più importante. Mi hanno appena detto che la nostra cassa è arrivata da Pietroburgo. E cioè? Cioè la vostra cassa, le vostre cose, il frac, i pantaloni, la biancheria è arrivata, vero? Insieme alla vostra roba infatti, c’è anche la mia giacca, il mio frac e tre paia di pantaloni”… “Nella nostra, cioè nella vostra cassa, insieme alla vostra roba c’è la cosa più importante: il mio vestito”. Stavrogin, nella percezione di Pëtr Stepanovič, veramente ricorda un abito per il giovane Verchovenskij. E c’è anche un’altra ammissione che Pëtr Stepanovič fa a Nikolaj Vsevolodovič, ancora caratteristica in questo senso: “Io sono un buffone ma non voglio che voi, la mia metà più importante, siate un buffone”. Ma poi egli cambia tattica, dichiarando che ora farà in tutto la piena volontà di Nikolaj Vsevolodovič. Perché in realtà Verchovenskij, naturalmente, non è Satana ma un’altra bestia con corna simili a un agnello, benché potrebbe essere la stessa cosa, il profeta della grande bestia, propriamente l’Anticristo che proclama Dio la bestia impostore, crea il suo idolo e realizza il programma sociale del regno della bestia: “E vidi salire dalla terra un’altra bestia che aveva due corna simili a quelle di un agnello ma parlava come un drago. Essa esercita tutto il potere della prima bestia in sua presenza e costringe la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia, la cui ferita mortale era guarita. Opera grandi prodigi fino a far scendere fuoco dal cielo sulla terra davanti agli uomini. Per mezzo di questi prodigi, che le fu concesso di compiere in presenza della bestia, seduce gli abitanti della terra dicendo loro di erigere una statua alla bestia che era stata ferita dalla spada ma si era riavuta. E le fu anche concesso di animare la statua della bestia, in modo che quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non avessero adorato la statua della bestia. Essa fa sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevano un marchio sulla mano destra e sulla fronte e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome”. Non per nulla, proprio a Pëtr Verchovenskij Stepan Trofimovič rivolgerà la domanda: “Ma permettimi: possibile che tu voglia proporre te stesso, così come sei, alle persone in sostituzione di Cristo?”. Voglio richiamare la vostra attenzione sul fatto che “in sostituzione di Cristo” è la formula che meglio rende in traduzione la parola greca “Anticristo”. Dostoevskij riproduce esattamente la struttura della figura della bestia presente nell’Apocalisse, dove si mostra come la bestia sia una parodia, una distorsione della Trinità divina, come al posto del principio dell’uni-Trinità appaia il principio del mascheramento e il principio criminale del “fregare l’altro”.
Satana si nasconde dietro la bestia ostentandola al proprio posto come reggente del regno che crollerà dopo breve tempo, e la veridicità della testimonianza vicendevole delle persone trinitarie viene trasformata dalla seconda bestia, venuta a testimoniare, in inganno e frode. La stessa cosa vediamo nel romanzo: “Beh, qui noi facciamo entrare – narra Verchovenskij – chi? Chi? Ivan Carjevič? Chi? Ivan Carjevič? Voi, voi! L’impostore? Diremmo che si nasconde sommessamente in un sussurro amoroso – disse Verchovenskij, che in effetti sembrava ubriaco”. Così Dostoevskij esprime lo stato di estasi del falso profeta. Sapete voi che cosa significa questa parola, “si nasconde”? Osserviamo. Dostoevskij ripete insistentemente nel discorso del personaggio quello che dovrebbe ricordare ai lettori l’ammonimento delle cosiddette “piccole Apocalissi”: “Allora se qualcuno vi dirà: ecco il Cristo è qui! Oppure: è la! non credeteci. Perché sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare – se possibile – anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto. Se dunque vi diranno: ecco, è nel deserto!, non andateci; ecco, è in casa!, non credeteci. Infatti, come la folgore viene da Oriente e brilla fino Occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”. “Ma Egli apparirà, apparirà! – dice Pëtr Verchovenskij – Noi faremo circolare la leggenda meglio degli Skapsi”. Teniamo presente che la leggenda degli Skapsi è la leggenda dell’apparire di nuovi Cristi e di Dio Sabbaoth. Pëtr Verchovenskij continua poi: “Egli esiste ma nessuno l’ha visto. Oh, che leggenda si può creare, e soprattutto una nuova energia circola, ed è quello che occorre. E’ essa a far piangere. Ma che cosa è riuscito a fare il socialismo? Ha distrutto le vecchie forze ma non ne ha introdotte di nuove. E invece qui, che forza inaudita, a noi basta solo un punto d’appoggio per sollevare il mondo”. Quest’ultima frase afferma che l’impostore è solo lo strumento di un’ora, il volto preso a prestito dal vero dominatore.
Stavrogin sembra realmente una parodia del Creatore, perché non crea ma tradisce e perverte il mondo intorno a sé, riempiendolo di turbini e di caos, privandolo della ragione. Basti solo questo esempio, caratteristico: “Tutte le nostre dame hanno perso il senno per il nuovo ospite. Si sono divise nettamente in due partiti, una che lo adorava, l’altra che lo detestava fino al sangue, ma il senno l’hanno perso sia l’uno che l’altra fazione”. Ma il gioco fondamentale è la creazione dell’uomo, una creazione a propria immagine e somiglianza, o meglio, a somiglianza di una delle maschere in cui si cela il vuoto, la voragine al posto del volto. Una creazione dell’uomo che introduce in lui la legione ovvero, per usare la fraseologia di Delitto e castigo, che “inocula in lui un’idea trichina”. A questa sostituzione, cioè Stavrogin al posto di Dio oppure Stavrogin al posto di Cristo, nel romanzo rimandano molte affermazioni dei personaggi. Lo stesso Stavrogin dirà a Šatov: “Mi sembra che voi guardiate a me come a una specie di sole, e a voi stessi come un moscerino, rispetto a me”. Oppure, Lebjadkin dice a Stavrogin: “Io vi ho atteso come il sole per tutta la settimana”. Il sole, come tutti ricordiamo e come possiamo vedere in mostra, è un tradizionale appellativo di Cristo. Fëd’ka il forzato dice apertamente a Stavrogin: “Davanti a voi, signore, io sono come davanti al vero”. Nel seguito del romanzo, si guarderà a Stavrogin come a una stella. “Qui c’è una stella e non uno dei tanti giovani, ecco come va capita la cosa”, dice uno dei vecchi al club. In questa frase, sono evidenti delle allusioni a Lucifero. Tutti vedono in lui, in Stavrogin, l’uomo chiamato a rettificare, a emendare il mondo alterato. Non è un caso che la generalessa Stavrogina paragoni il figlio ad Amleto. E ciascuno propone la propria idea e il proprio metodo: questo ci richiama ancora di più alla figura di Lucifero, dal momento che ci si attende una restaurazione del mondo da colui che ha invece deformato, travisato il mondo con i propri giochi ed esperimenti. Ma naturalmente, è particolarmente interessante l’affermazione di Libjatkin che accoglie Stavrogin offrendogli delle vivande: “È soprattutto dai vostri doni, è roba vostra dal momento che voi qui siete il padrone, non io. Io sono qui, per così dire, solo in veste di vostro subalterno”. Un’affermazione che è una parodia delle parole pronunciate dal celebrante al momento dell’Eucarestia: “Le cose tue scelte fra le tue, offerte per tutti e per tutto”. Questa stessa preghiera si rifà alla preghiera di Davide alla consacrazione del tempio, mentre le parole di Lebjadkin sono una parafrasi diretta di questa preghiera: “Perché, chi sono io e chi è il mio popolo per essere in grado di offrirti tutto questo spontaneamente? Tutto proviene da Te. Noi, dopo aver ricevuto dalla Tua mano, te lo abbiamo ridato. Perché noi siamo forestieri davanti a Te, e ospiti, come i nostri padri. Come un’ombra sono i nostri giorni sulla terra, e non c’è speranza”. Stavrogin occupa il posto di marito della fanciulla Marija Timofeevna. Maria in ebraico significa “celebrata, esaltata” e Timoteo in greco è “colui che onora Dio”. Così, Marija Timofeevna è colei che viene celebrata da quanti onorano Dio. Un nome che si addice solo alla Madre di Dio, senza poi parlare del fatto che lo stesso nome Maria è inevitabilmente collegato, nella nostra coscienza, alla Madre di Dio, anche se di solito non si dà questo nome in Russia ai bambini. Respinge, Maria, Dio dal suo cuore, lasciandovi angoscia, vuoto, sogni e miraggi, incubi del non essere che conquistano sempre più spazio, fagocitando la realtà e, in ultima analisi, annientando la fanciulla stessa. L’Immacolata Concezione della Madre di Dio e la sua offerta al Figlio in sacrificio per il mondo vengono mostruosamente parodiate nel miraggio della zoppetta, nel fatto di aver dato alla luce un bambino mentre non ha marito e non ricorda neppure il sesso del neonato – a volte lo ricorda come un maschietto, a volte come una bambina, ed è la perversione dell’idea di Cristo uomo integrale, mentre il sesso indica la persona nella sua metà -, nel fatto di aver avvolto il neonato in una tela di batista e merletti e averlo cosparso di fiorellini, avere recitato su di lui una preghiera, averlo portato non battezzato al sacrificio che lei stessa ha compiuto, gettandolo nello stagno.
Questo stesso miraggio sarà in parte riprodotto e tradotto in realtà nella storia di un’altra Maria legata a Stavrogin, che nel romanzo verrà chiamata solo con la variante francese del nome, Marie, la moglie di Šatov. Marie tornerà dal marito per partorire la creatura di Stavrogin. Tracciando dei paralleli sommari, possiamo dire che Maria Timofeevna nel sistema del romanzo incarna la chiesa dello scisma russo, e forse anche delle sette russe; mentre Marie è la chiesa cattolica. Entrambe sono attratte, dal punto di vista di Dostoevskij, dall’Anticristo, ma entrambe lo respingeranno e laveranno nel sangue il proprio peccato di apostasìa. Questa analogia si rispecchia nell’alterazione e falsificazione della profondissima intuizione concepita da Marija Timofeevna, la Madre di Dio e la umile madre Terra. In un certo senso, è l’equivalente del fatto che il principe è Stavrogin: un surrogato conduce all’altro. In entrambi i casi, la zoppetta confonde il compito con il dato, un compito per adempiere il quale occorre fare un lungo cammino, un cammino che si può rifiutare. E allora l’abisso sarà altrettanto profondo della vetta su cui bisognava salire. L’accostamento da parte di Dostoevskij tra la Madre di Dio e la Terra, spesso ritenuto eretico, non è tale, in realtà. L’appellativo alla Madre di Dio nelle preghiere, “O Terra benedetta che hai generato una spiga mai coltivata dall’uomo”, l’appello di san Giovanni apostolo, detto figlio della Madre di Dio che, come riferisce la sua vita, si rivolge alla terra come madre durante la propria sepoltura, indicano una verità che si cela dietro questo accostamento. La Madre di Dio è la Regina del Cielo e della Terra, ma il re rappresenta tutto il proprio Regno, ne è il rappresentante, il volto, il capo e non qualcosa di separato da esso. L’intero Regno non basta a fare il re ma il re è tutto il Regno.
Negli inni ortodossi, la Madre di Dio viene celebrata come Terra Promessa in cui scorrono latte e miele, come campo che fa crescere frutti in abbondanza. Il Metropolita Antonij di Surozh, in un sermone per la funzione della sepoltura il venerdì santo, dice: “In questa terra venne adagiato il corpo immortale, incorruttibile, purissimo di Gesù e la terra fremette e tutto cambiò fin nel profondo delle sue viscere”. Siamo di fronte, in realtà, al proseguimento dell’Annunciazione, alla continuazione dell’azione che si compì un giorno, grazie alla disponibilità della Santissima Vergine alla volontà divina. Solo che ora è la terra stessa ad accogliere nelle proprie viscere, nel proprio utero, il corpo del Signore. Come dapprima era stata santificata la primizia del creato, la Madre di Dio, così ora viene santificato tutto il creato. Riceve la possibilità di essere santo dimorando in Dio, se lo vuole, se è fedele all’appello del Signore. La terra, così come la Madre di Dio, ha portato nel proprio grembo il Signore, la terra custodisce nel suo grembo anche tutti i figli di Dio, fino alla resurrezione. La Madre di Dio è la primizia del creato puro, non contaminato dal peccato e la terra, vera e benedetta, la madre comune la cui veste verde non sbiadisce, non si decompone, non perde i doni dello spirito. La terra dell’Alleanza è l’arché, è il prototipo della Madre di Dio. Infatti, il senso segreto del compito ricevuto da Israele, il senso segreto del movimento verso la terra promessa nello spazio, è il movimento verso la Madre di Dio nel tempo. Che il culto della madre terra come Madre di Dio sia appannaggio di molte eresie non significa che tale culto fosse di per sé eretico. Infatti, l’eresia praticamente non inventa mai qualcosa di nuovo in linea di principio, ma devia da qualcosa che aveva una natura di verità e lo altera, ne altera la natura. Così anche in questo caso. Le eresie divinizzano la condizione attuale del creato, venerano la terra gravata dai nostri peccati, dalla maledizione divina, e non la terra benedetta che mostra l’inizio del risanamento del creato. Marija Timofeevna, come tutte le creature di Stavrogin, altera, travisa, esattamente come alcune eresie, una delle più sante e centrali intuizioni cristiane.
A proposito delle altre creature di Stavrogin, Padre Sergeij Bulgakov così scrisse a proposito dei rapporti di Stavrogin con Šatov e Kirillov: “Era per entrambi un tentatore, seducendoli con una verità spettrale e un bene spettrale”. La tentazione ha sempre a che fare con una mezza verità fatta passare per verità intera; inoltre, la conseguenza, in essa, viene presentata come se fosse un fine a sé stante, cosicché si va alla ricerca delle conseguenze anziché delle cause. La tentazione inganna, distruggendo l’armonia e le strutture dell’insieme, sconfessando la sapienza integrale, cioè la verginità. “Proprio questa azione distruttiva, Stavrogin esercita sulle anime di Kirillov ed Šatov, seducendo l’uno con l’idea della divinità in ogni individuo e l’altro con la divinità della natura”. Si può aggiungere, a quanto detto da padre Bulgakov, seducendo Pëtr Verchovenskij con l’idea della uguaglianza dell’umanità, con l’idea dell’unione dell’umanità intorno ad un centro unico, una personalità che trascini tutti con forza invincibile. Così, Kirillov divinizza l’ego invece della persona, Šatov, l’Arca invece dell’Alleanza, Verchovenskij, l’Anticristo invece di Cristo. Tutti costoro divinizzano un involucro, venerabile perché racchiude un contenuto sacro, mentre essi lo venerano per se stesso, ormai indipendentemente dal contenuto. Tra l’altro, un involucro divinizzato a prescindere dal contenuto è un idolo, un guscio. Gli inferni, lo Sheol dell’antico Testamento, cioè il luogo dell’assenza di Dio, il luogo in cui nidificano i diavoli, come si vede con chiarezza sulle tele di Ieronimus Bosch: insomma, è quello stesso abisso in cui i diavoli usciti dall’indemoniato di Gadara chiedono di non essere mandati.
Spesso si sente affermare che le idee di Šatov sono quasi le idee dello stesso Dostoevskij. Tuttavia Dostoevskij vedeva perfettamente l’idea nel suo vero aspetto e la descrisse con grande chiarezza nella risposta a Gradowski nel Diario dello scrittore del 1880: “Sempre, non appena sorgeva una nuova religione, subito si costituiva, anche civilmente, una nuova nazionalità. Guardate ebrei e musulmani: la nazionalità ebraica si formò compiutamente solo dopo la legge di Mosè, sebbene fosse iniziata già dalla legge di Abramo. Mentre le nazionalità musulmane apparvero solo dopo il Corano. Per serbare il valore spirituale ricevuto, immediatamente le persone si attirano a vicenda e solo allora, con zelo e trepidazione, con un lavoro l’uno accanto all’altro, l’uno per l’altro, l’uno con l’altro, come avete scritto in maniera eloquente, solo allora le persone cominciano a pensare come organizzarsi, come serbare il valore ricevuto senza perderne nulla, come trovare una formula civile di convivenza che le aiuti a far vedere a tutto il mondo, nella pienezza della sua gloria, il valore morale che hanno ricevuto. E notate: non appena, dopo epoche e secoli – perché anche qui esiste una propria legge a noi sconosciuta -, quando in una certa nazionalità comincia a vacillare e ad affievolirsi il suo ideale spirituale, subito comincia a decadere anche la nazionalità, e insieme ad essa tutto il suo codice civile, e si offuscano tutti gli ideali civili che avevano fatto in tempo a formarsi al suo interno. A seconda del carattere assunto in un popolo dalla religione sorgono, e si configurano, anche le formule civili del medesimo popolo. Dunque gli ideali civili sono sempre direttamente e organicamente collegati agli ideali morali, ma soprattutto è indubbio che essi scaturiscano da questi soltanto. Non appaiono mai autonomamente, poiché apparendo hanno come unico scopo quello di saziare l’aspirazione morale di una certa nazionalità, come nella misura in cui questa aspirazione morale si è formata in essa. Quindi, l’autoperfezionamento nello spirito religioso nella vita dei popoli è il fondamento di tutto, poiché l’autoperfezionamento è il professare la religione ricevuta; mentre gli ideali civili in sé, senza questa aspirazione e l’autoperfezionamento, non arrivano mai; e del resto non possono nascere. L’autoperfezionamento personale non è solo il principio di tutto, ma anche la prosecuzione e il termine di tutto. Esso avvolge, fonde e preserva l’organismo dalla de-nazionalità, esso soltanto. Per esso vive la formula civile della nazione, poiché è stata costituita per esso soltanto, per serbarlo come valore originario ricevuto. Quando nella nazionalità si perde l’esigenza del comune e singolo autoperfezionamento nello spirito che l’aveva generata, allora gradualmente scompaiono tutte le istituzioni civili, perché non c’è più niente da custodire. Così non si può dire assolutamente quello che voi dicevate in questa frase: ecco perché in massimo grado la perfezione sociale delle persone dipende dalla perfezione delle istituzioni sociali, che educano nell’uomo i pregi civili, se non quelli cristiani”.
Ciò che predica Šatov è un’evidente alterazione e deformazione delle idee di Dostoevskij. Šatov divinizza il popolo teoforo, cioè il portatore, e non ciò che il popolo porta; divinizza l’ego del popolo, il suo esistere e la sua struttura, il corpo del popolo che si è formato solo per custodire il contenuto donatogli dall’alto. Anziché divinizzare la persona del popolo, la sua idea religiosa, la rivelazione religiosa affidatagli, e che non può rivelarsi altrimenti che nell’autoperfezionamento personale di ciascuno, Šatov divinizza ciò che può racchiudere in sé tanto il volto di Cristo quanto la legione dei diavoli, e se solo cesserà di riconoscere il volto di Cristo come unico valore per il quale il popolo esiste, il popolo smetterà di rappresentare il volto di Cristo. E non a caso, alla fine del romanzo, la Russia verrà chiamata da Stepan Trofimovič “la nostra cara inferma indemoniata” e paragonata direttamente all’indemoniato di Gadara. L’idea di servire Dio viene insensibilmente rimpiazzata da Šatov dall’idea che il popolo si può appropriare di Dio, come gli indica Stavrogin: “Abbassate Iddio fino a farne un attributo dell’identità del popolo”. Il desiderio di donare a tutti il valore dato al popolo da serbare e annunciare, viene rimpiazzato qui dal desiderio di vincere, con il proprio Dio, e cacciare dal mondo tutti gli altri déi, un desiderio che frequentemente ha preso il sopravvento nella storia dell’umanità. Secondo questo principio, Šatov travisa appunto la preziosa idea del popolo come Arca dell’Alleanza.
Ritornando a Maria Timofeevna come elemento straordinariamente caratteristico, bisogna notare che Stavrogin la sposa per una scommessa fatta sotto l’effetto del vino. Questo matrimonio per scommessa sembra una perversione, una maligna distorsione delle Nozze di Cana in Galilea. Là il vino è per il matrimonio e qui il matrimonio è per il vino. Così, intessendo il testo di citazioni e particolari che uno per uno passano quasi inosservati, ma che creano tutti uno spessore nell’insieme, Dostoevskij crea un’autentica figura interiore di personaggio: la figura dell’Anticristo, a sua volta paragonabile alla figura del Signore e di Cristo, ma paragonabile a Cristo in senso oltraggioso. L’oltraggiosità è il contrassegno stilistico del romanzo I Demoni. Alla luce di quanto abbiamo detto, non si può non riconoscere che il carattere pamplettistico, pubblicistico, ciò superficiale, legato ai numerosi, evidenti prototipi del romanzo è fortemente esagerato. Quello che noi chiamiamo prototipo, in realtà lega la figura al momento presente, consente di riconoscerla nella realtà a noi circostante. In questo senso, non è importante che si tratti di un prototipo o di un post-tipo, un tipo fatto posteriori. Per la celebre scena del romanzo I fratelli Karamazov, dove si parla del ragazzino crocifisso e della composta di ananas, nessuno si è messo a cercare dei prototipi nell’attualità, tanto più che sono rimasti tutti sconvolti dalla sua mostruosa perversità. Invece, un post-tipo nella nostra epoca lo abbiamo trovato, come hanno notato vari lettori. “Siamo tutti partecipi del peccato di Liza Chochlakova”, mi ha detto Irina Radnianskeja, “perché quando arriviamo a casa e ci sediamo a cenare davanti al televisore, facciamo la stessa cosa: mentre mangiamo, infatti, sentiamo parlare di omicidi, guerre, terremoti”. “Noi siamo come Liza” mi ha detto una ragazza che partecipava al campo estivo di una scuola ortodossa, “anzi, siamo peggio, perché lei si immaginava di mangiare la composta di ananas e si struggeva in lacrime davanti al ragazzino crocifisso, invece noi mangiamo tranquillamente di fronte al televisore che ci mostra cose vere”. Qui è evidente che la figura precedente o successiva della realtà, nella realtà presente, corrente, che noi riconosciamo collegata alla figura letteraria, non fa che constatare l’identità, la similitudine di una serie di fenomeni, ma non contribuisce molto a penetrare la profondità della figura. Possiamo solo constatare che ciò che ai contemporanei di Dostoevskij appariva un’orrenda perversione, per noi è diventata la norma, e non ce ne accorgiamo neppure. La penetrazione nella profondità, nel significato della figura inizia quando ci accorgiamo che la scena delineata da Liza per un gran numero di particolari si collega con la scena della crocifissione di Cristo, e questo ci fa passare su un piano completamente diverso. Allora comprendiamo che non stiamo semplicemente bevendo la nostra composta di ananas guardando i supplizi di gente come noi, ma imploriamo questa stessa composta di ananas di fronte al crocifisso che sta spargendo il sangue per noi, a Colui che venne crocifisso in ogni uomo che soffre su questa terra.
L’apparire nella figura del prototipo dell’archetipo rivela istantaneamente nella figura una smisurata profondità, perché essa si estende sopra l’abisso che separa la creatura dal Creatore. La figura diventa così un ponte che unisce ciò che è separato da questo abisso e, come l’appello di Abramo, “Vedimi!”, consente all’archetipo di essere nuovamente presente e di agire nel creato, trasfigurandolo, si può dire che la figura che possiede la qualità della profondità è la forma di libera collaborazione del mondo e dell’uomo con il creatore. La figura costituisce l’anello di congiunzione tra prototipo e archetipo e quanti hanno letto I fratelli Karamazov, anche se non hanno riconosciuto nella scena citata la crocifissione di Cristo a livello cosciente, perdono tuttavia in parte la propria insensibilità di pietra e se non altro ricominciano a piangere sulla propria composta di ananas davanti al televisore, e talvolta fanno azioni anche più decisive.
Volgerci all’arte, che ha a che fare con una figura visibile, ci permette di constatare facilmente un altro elemento fondamentale, affinché nella figura appaia la profondità. I due piani devono unirsi non nel contesto di un’unica scena, il che produce piuttosto un senso allegorico – anche questa proprietà della nostra concezione si contrappone alla profondità -, per cui i due piani devono sovrapporsi in modo tale che l’interiore non possa esistere altrimenti che all’esterno, come piano esterno. Ogni esplicitazione diretta dell’interiore conduce alla perdita della profondità. La figura deve cominciare a far trasparire un’altra cosa, e quest’altra cosa deve cominciare a trapelare, a trasfigurare la figura, generandovi un significato che non può essere rinchiuso in ciò che vi è evidentemente reso manifesto, mostrato, reso visibile. Questa combinazione di piani deve suscitare allo spettatore o al lettore un senso di smarrimento e di sconvolgimento. Contemporaneamente all’identificazione della profondità, nella figura deve far passare l’intera narrazione ad un altro registro.
Quando, nel film Andreij Sviaginsev, Il ritorno, il padre è arrivato dal nulla rispondendo alla sfida e all’appello del ragazzino che aveva da tempo dimenticato, abbandonato, che non era riuscito a saltare dalla torretta, dorme, nell’unica notte che passa in famiglia, nella posa, nell’inquadratura del Cristo Morto del Mantegna: tutto il resto del film comincia inevitabilmente ad essere letto sullo sfondo del sacrificio di Cristo, affinché l’uomo ritrovi se stesso, cioè Dio in se stesso. E alla fine, la caduta del padre dalla torretta diventa un’evidente analogia con la crocifissione di Cristo che annulla il potere del peccato che Egli ha assunto su di sé. Così, anche il padre sembra assumersi tutte le paure, le incapacità dei suoi figli e le annulla racchiudendoli in se stesso, nell’atto della propria morte. Abbiamo detto prima che in un ritratto la ripetizione di un gesto visto in un non altro ritratto suscita un senso di imitazione, di ripetitività, di inconsistenza dell’artista. Questo vale per le raffigurazioni da noi recepite come appartenenti a un piano dell’essere, ma quando nello studio della Ragazza che si pettina, Corot riprende il gesto della vergine di Tiziano, noi vediamo come in una giovanissima creatura si desti e domini l’antica forza istintiva che i greci chiamavano Afrodite. Come questa forza, questo dinamico turbine riappaia di nuovo, si esprima nel mondo in una figura, come l’essere umano diventi in effetti solo una delle manifestazioni di questa forza, e se essa lo abbandona esso ne resterà svuotato, ebbene, davanti a tutto ciò la ripetizione non ci provoca noia bensì una grande emozione.
Tutte le figure da noi analizzate si riferiscono all’epoca successiva all’Incarnazione ma la storia stessa dell’Incarnazione, cioè del manifestarsi dell’archetipo direttamente nel corso, nel flusso, del tempo, per essere da noi recepita in profondità, deve essere in relazione con ciò che esisteva prima di essa. Qui noi vediamo la stessa cosa in una prospettiva rovesciata: per giudicare la bellezza e il grado della sua trasfigurazione, dobbiamo avere una conoscenza di ciò che viene trasfigurato. Il quadro il Cristo Morto di Hans Holbein il giovane, dipinto dall’artista per essere collocato sulla lastra che chiudeva una nicchia con delle strette sepolture, simile a quelle in cui vediamo il Cristo di Holbein, un quadro che ci mostra Cristo nel primo moto della resurrezione, per capire chiaramente il movimento delle figure doveva essere messo in relazione, secondo l’intendimento dell’autore, con il tipo di lapidi sepolcrali che Masaccio aveva raffigurato sotto la sua Trinità. Là, in una nicchia simile al sepolcro di Cristo di Holbein, c’è uno scheletro: la scritta è in lettere latine e recita: “Io ero qual voi siete e voi diverrete ciò che sono Io”. Ecco ciò che attendeva i mortali fino alla venuta di Cristo. Ma il Cristo di Holbein, che ripete la posa dello scheletro di Masaccio e, sullo sfondo di questa ripetizione, è particolarmente visibile il moto di resurrezione raffigurata da Holbein – il braccio dello scheletro di Masaccio è disteso sul coperchio del sepolcro mentre Holbein sposta in primissimo piano la mano di Cristo mostrandola animata, mentre abbozza un movimento sia pur quasi incosciente, come pure sta cambiando la posizione del collo e della testa che si arrovescia nell’immane sforzo di rialzarsi -, ebbene Cristo, ripetendo la posa dello scheletro, ripete di fatto anche le parole della scritta, rivolgendosi però non ai vivi, con parole disperazione, ma ai morti con parole di speranza: “Io ero quale voi siete e voi diverrete che ciò che Io sono”. Il rimando della figura all’archetipo crea la profondità e contemporaneamente un’estrema chiarezza del significato di quanto viene raffigurato, una chiarezza che, secondo le nostre abituali concezioni, si perde nella profondità. E questa chiarezza nasce nel caso in cui noi siamo entrati, grazie alla memoria, nel tunnel creato, e l’abbiamo percorso fino in fondo, se veramente abbiamo colto il nesso fra archetipo e figura. Grazie.

STEFANO ALBERTO:
Ancora una volta, senza lasciarci tregua, senza lasciarci spazio per accontentarci, per abituarci, Tat’jana Kasatkina ci mette al cuore della nostra vicenda umana. Ci tocca vivere, il Signore ci ha fatto, ci ha donato l’Essere, ci ha donato l’esistenza in un momento della storia in cui ciò che era di Dio e che Dio ha consegnato all’uomo è diventato profano, un luogo che si pretende non necessariamente contro Dio ma senza di Lui, anzi, seguendo l’opera del padre della menzogna, parodiando quello che Lui ci ha donato, deformando l’immagine iniziale. Abbiamo due possibilità: ritagliarci uno spazio di sacro, cercando di salvare il salvabile – ma anche questa può diventare una parodia – oppure, ecco la ragionevole e appassionante sfida, accettare la profondità, nella sovrapposizione delle immagini cercare ciò che è veramente altro da quello che abbiamo in mente noi, e quindi cercare la cosa più concreta.
Una cosa che impressiona in questi primi due giorni di Meeting – ma leggete anche il pur bellissimo contributo di Claudio Magris sul Corriere della sera – è che quando si parla di infinito, la cosa più concreta che tutti tendono a dire è difficile, astratto, impalpabile, come avete sentito ieri dal nostro splendido professor Monti. Invece il nostro destino di uomini è quello di accettare l’avventura, dura, faticosa, appassionante della profondità, del volto vero di ogni cosa. Se vogliamo restare nascosti come Adamo ed Eva, possiamo farlo, ma restare nascosti vuol dire non vivere il dramma della vita ma la sua parodia. A ciascuno di noi resta di accorgersi, come per Abramo, come il Signore irrompe nella vita, adesso. E’ quello che Dostoevskij, in un bellissimo passaggio della mostra, ci ricorda: “Egli ha fatto il suo passo, ha percorso la sua parte di strada, ha racchiuso nel Suo abbraccio tutta la creazione e perché il Paradiso possa manifestarsi attende solo la risposta dell’uomo, attende che anche l’uomo faccia il suo passo”.
Io sento Tat’jana Kasatkina profondamente amica e le sono e le siamo profondamente grati, perché abbiamo bisogno di uomini all’altezza dei nostri desideri, di persone che rendano operativa, incidente, drammatica quella espressione di augurio che Giussani, tanti anni fa, proprio qui, ci consegnò: “Vi auguro di non essere mai tranquilli”. Cioè, vi auguro di essere vivi, di avere fame e sete, perché quando si smette di imparare, c’è la forma, lo schema, la parodia, c’è l’Anticristo in agguato, non il Signore del tempo e dello spazio, non Colui per cui vale la pena vivere l’istante come nuova nascita, continua scoperta. Ringraziamo ancora Tat’jana Kasatkina! Ha parlato del suo nuovo libro, lo trovate in libreria: Dostoevskji, il sacro nel profano. Grazie a tutti!

Data

20 Agosto 2012

Ora

15:00

Edizione

2012

Luogo

Sala A3
Categoria
Incontri